La narrazione di sé ·
Uno dei primi link di queste Virtualia? è a un breve saggio di un filosofo analitico (aridaje) di nome Galen Strawson. Il saggio si apre cosí:
‘Each of us constructs and lives a “narrative”,’ wrote the British neurologist Oliver Sacks, ‘this narrative is us’. Likewise the American cognitive psychologist Jerome Bruner: ‘Self is a perpetually rewritten story.’ And: ‘In the end, we become the autobiographical narratives by which we “tell about” our lives.’ Or a fellow American psychologist, Dan P McAdams: ‘We are all storytellers, and we are the stories we tell.’ And here’s the American moral philosopher J David Velleman: ‘We invent ourselves… but we really are the characters we invent.’ And, for good measure, another American philosopher, Daniel Dennett: ‘we are all virtuoso novelists, who find ourselves engaged in all sorts of behaviour… and we always put the best “faces” on it we can. We try to make all of our material cohere into a single good story. And that story is our autobiography. The chief fictional character at the centre of that autobiography is one’s self.’
So say the narrativists. We story ourselves and we are our stories. There’s a remarkably robust consensus about this claim, not only in the humanities but also in psychotherapy. It’s standardly linked with the idea that self-narration is a good thing, necessary for a full human life.
I think it’s false – false that everyone stories themselves, and false that it’s always a good thing.
Traduco:
«Ognuno di noi si costruisce e vive una “narrazione”», scrisse il neurologo britannico Oliver Sacks, «questa narrazione è noi.» Allo stesso modo lo psicologo cognitivo americano Jerome Bruner: «Il sé è una storia incessantemente riscritta.» E: «Alla fine, noi diventiamo le narrazioni autobiografiche attraverso cui “raccontiamo” le nostre vite.» O un altro psicologo americano, Dan P McAdams: «Tutti raccontiamo storie, e siamo le storie che raccontiamo.» E ancora il filosofo morale americano J David Velleman: «Noi inventiamo noi stessi […] ma siamo davvero i personaggi che inventiamo.» E, per abbondare, un altro filosofo americano, Daniel Dennett: «Siamo tutti abili romanzieri, che si trovano impegnati in ogni tipo di comportamento […] e ci “mostriamo” sempre al meglio che possiamo. Cerchiamo di fondere tutto il nostro materiale in un’unica bella storia. E quella storia è la nostra autobiografia. Il protagonista immaginario al centro di quell’autobiografia è il proprio sé.»
Cosí dicono i narrazionisti. Ci facciamo storia e siamo le nostre storie. C’è un consenso notevolmente solido circa questa affermazione, non soltanto negli studi umanistici ma anche in psicoterapia. Di norma è associata all’idea che l’autonarrazione sia una cosa buona, necessaria per una piena vita umana.
Io penso che sia falso – falso che tutti si facciano storia, e falso che sia sempre una cosa buona.
Tanta roba.
Io “non sono un filosofo, ma” mi permetto di credere in tre cose:
- Il sé è immutabile (a meno di traumi).
Ovvero, la nostra personalità è definita. Ciò non significa che in circostanze simili non sappiamo comportarci in modo diverso; significa che l’istinto ci spinge ad agire secondo un canone stabilito, e che soltanto la conoscenza di sé (del proprio sé), l’educazione e l’istruzione (ricevute o autoimpartite), l’esperienza, la morale cui ci atteniamo, e gli altri elementi che costituiscono una nostra personale maturità, ci permettono di correggere la direzione delle nostre azioni. - Sí, viviamo la narrazione che ci siamo costruiti.
Tutti, piú o meno consapevolmente, agiamo secondo l’immagine di noi stessi che vogliamo proiettare all’esterno. Però quell’immagine viene percepita in tanti modi diversi quanti sono i soggetti che la percepiscono, come un libro è stampato in migliaia di copie identiche ma viene interpretato diversamente secondo la sensibilità del millesimo singolo lettore. - Le persone sono fondamentalmente inconoscibili.
O sono conoscibili soltanto asintoticamente.
Ispirata dal verso di una celebre canzone, Alessandra mi chiedeva se «sono le persone a cambiare, o cambia ciò che noi pensiamo di loro?»
Vent’anni dopo ho una risposta per lei: le persone non cambiano, ma con una diversa maturità possono comportarsi diversamente; invece ciò che noi pensiamo di loro può cambiare secondo come la nostra sensibilità del momento interpreta le loro azioni. Ammetto che non si tratta di una risposta soddisfacente per due adolescenti.
In parte devo questa visione del mondo a Uno, nessuno e centomila, l’atroce romanzo di Luigi Pirandello (sí, è un romanzo atroce).
Per il pensiero pirandelliano rimando a Wikipedia e alle antologie liceali. Il senso del libro è riassumibile in poche citazioni:
Mi si fissò invece il pensiero ch’io non ero per gli altri quel che finora, dentro di me, m’ero figurato d’essere.
Se per gli altri non ero quel che ora avevo creduto d’essere per me, chi ero io?
L’idea che gli altri vedevano in me uno che non ero io quale mi conoscevo; uno che essi soltanto potevano conoscere guardandomi da fuori con occhi che non erano i miei e che mi davano un aspetto destinato a restarmi sempre estraneo, pur essendo in me, pur essendo il mio per loro (un “mio” dunque che non era per me!); una vita nella quale, pur essendo la mia per loro, io non potevo penetrare, quest’idea non mi diede piú requie.
Riflessioni:
1ª - che io non ero per gli altri quel che finora avevo creduto di essere per me;
2ª - che non potevo vedermi vivere;
3ª - che non potendo vedermi vivere, restavo estraneo a me stesso, cioè uno che gli altri potevano vedere e conoscere; ciascuno a suo modo; e io no;
4ª - che era impossibile pormi davanti questo estraneo per vederlo e conoscerlo; io potevo vedermi, non già vederlo;
[…]
Siate sinceri: a voi non è mai passato per il capo di volervi veder vivere. Attendete a vivere per voi, e fate bene, senza darvi pensiero di ciò che intanto possiate essere per gli altri; non già perché dell’altrui giudizio non v’importi nulla, ché anzi ve ne importa moltissimo; ma perché siete nella beata illusione che gli altri, da fuori, vi debbano rappresentare in sé come voi a voi stessi vi rappresentate.
Sapete invece su che poggia tutto? Ve lo dico io. Su una presunzione che Dio vi conservi sempre. La presunzione che la realtà, qual è per voi, debba essere e sia ugualmente per tutti gli altri.
Tuttavia mi sforzerò di darvi, non dubitate, quella realtà che voi credete d’avere; cioè a dire, di volervi in me come voi vi volete. Non è possibile, ormai lo sappiamo bene, giacché, per quanti sforzi io faccia di rappresentarvi a modo vostro, sarà sempre “un modo vostro” soltanto per me, non “un modo vostro” per voi e per gli altri.
[…]
Non presumo che siate come vi rappresento io. Ho affermato già che non siete neppure quell’uno che vi rappresentate a voi stesso, ma tanti a un tempo, secondo tutte le vostre possibilità d’essere, e i casi, le relazioni e le circostanze. E dunque, che torto vi fo io? Me lo fate voi il torto, credendo ch’io non abbia o non possa avere altra realtà fuori di codesta che mi date voi; la quale è vostra soltanto, credete: una vostra idea, quella che vi siete fatta di me, una possibilità d’essere come voi la sentite, come a voi pare, come la riconoscete in voi possibile; giacché di ciò che possa essere io per me, non solo non potete saper nulla voi, ma nulla neppure io stesso.
La soluzione pirandelliana alla beata illusione
che un’univoca rappresentazione della propria identità sia possibile è la rinuncia all’identità: se allo stesso tempo siamo uno e centomila, allora tanto vale essere nessuno.
La mia idea è che se allo stesso tempo siamo uno e nessuno, allora possiamo consapevolmente essere centomila; ed è una questione di filtri.
Noi siamo noi stessi; e siamo anche figli, coniugi, genitori, cittadini, amici, colleghi, e molto altro.
Noi siamo sempre noi stessi; e siamo una persona sempre diversa come figli, coniugi, genitori, cittadini, amici, colleghi, ecc.
Pirandello ammonisce che per noi sarebbe folle pensare di conoscere come i nostri genitori, i nostri coniugi, i nostri figli, i nostri concittadini, i nostri amici, i nostri colleghi, o coloro che incontriamo per strada ci percepiscono. Ciò è (stoicamente) fuori dal nostro controllo.
A mio parere però ci comportiamo cosí da indirizzare e influenzare la rappresentazione della nostra identità nella mente di ciascuno di loro. Non sto scrivendo che siamo tutti falsi psicopatici. Sto scrivendo che davvero ci costruiamo una narrazione di noi stessi, basata sul nostro sé immutabile, e che viviamo e comunichiamo questa narrazione. Pirandello la definiva “maschera”, con accezione negativa e passiva; per me è un dato di fatto, e osservo che alla narrazione personale applichiamo filtri diversi in circostanze diverse, secondo coloro con cui interagiamo.
Io ho una buona conoscenza di me stesso, e negli anni ho costruito di me una narrazione come un individuo introverso, razionale e riflessivo. Però sono considerato un estroverso da molti locali, c’è chi mi dà del matto e chi pensa io agisca emotivamente. Mi comporto diversamente, cioè applico filtri diversi alla narrazione di me stesso, con i miei genitori e con i miei amici e con i membri della mia squadra di lavoro, e sarebbe sbagliato fare altrimenti, e comunque tutti mi percepiscono ogni volta in modo diverso secondo la loro sensibilità del momento.
Io non sono, ma appaio come un Massimiliano ogni volta diverso; e non sono pienamente conoscibile da nessuno che non sia al tempo stesso un mio genitore, un mio coniuge, un mio figlio, un mio concittadino, un mio amico, un mio collega… ovvero non sono pienamente conoscibile da nessuno.
Questa condizione è comune a ogni individuo.