Na krásném modrém Dunaji ·
Ale ja
Chcem ďalej ísť
Až tam, kde spí
Dunajská delta
Živé kvety – Nekonečnou ulicou.
Sono in partenza per un boat/rail/road trip in solitaria di due settimane lungo il corso del Danubio/Donau/Dunaj/Дунав/Dunărea.
Non ho un piano di viaggio definito nei dettagli. Prendo il via dal porto sul Donaukanal a Vienna, una tappa intermedia è alle Porte di Ferro, la meta è il Delta sul Mar Nero. Nel mezzo vorrei visitare Bratislava, Budapest, Belgrado, ma sono aperto a eventuali ispirazioni del momento, perciò prenoterò trasporti e pernottamenti con pochi giorni di anticipo. Con i punti Fragola aziendali ho acquistato un biglietto per il ritorno dall’aeroporto di Bucarest, ma se qualcosa andrà storto non mi farò problemi a saltare sul primo bus o treno verso la Cechia.
Con i punti Fragola aziendali ho anche acquistato un tablet su cui scriverò i miei appunti, l’idea è di pubblicarli ogni sera o quasi in homepage.
Con mille scuse a George, Harris, Jerome, per tacer di Montmorency.
A Passau confluiscono tre fiumi; la piccola Ilz e il grande Inn si gettano nel Danubio. Ma perché il fiume formato dalla loro confluenza, che scorre verso il Mar Nero, deve chiamarsi ed essere il Danubio? Un paio di secoli fa Jacob Scheuchzer, nella sua Hidrographia Helvetiae, a pagina 30, osservava che l’Inn, a Passau, è più ampio, più ricco d’acqua e più profondo del Danubio ed ha anche un percorso più lungo alle proprie spalle. Il dottor Metzger e il dottor Preusmann, che hanno misurato i piedi di larghezza e di profondità dei due fiumi, gli danno ragione. Dunque il Danubio è un affluente dell’Inn, e Johann Strauss ha composto il valzer del Bell’Inn blu, che oltretutto potrebbe rivendicare a maggior diritto quel colore? È evidente che, avendo deciso di scrivere un libro danubiano, non posso accogliere questa teoria, come un professore di teologia in un’università cattolica non può negare l’esistenza di Dio, l’oggetto della sua scienza.
Per fortuna mi soccorre appunto la scienza, la percettologia, secondo la quale se due fiumi mescolano le loro acque viene considerato fiume principale quello che, alla confluenza, forma un angolo maggiore col corso che procede. L’occhio percepisce (stabilisce?) la continuità e l’unità di quel fiume e percepisce l’altro come un suo affluente. Affidiamoci dunque alla scienza ed evitiamo tutt’al più, per prudenza, di osservare troppo la confluenza delle tre acque a Passau e di verificare troppo l’ampiezza di quell’angolo, perché l’occhio, a furia di fissare a lungo un punto, si vela e sdoppia le figure, mandando a pallino la chiarezza della percezione e rischiando di provocare brutte sorprese al viaggiatore del Danubio.
Quel che è certo, è che il fiume scorre a valle, come chi lo segue; poco importa appurare donde provengano tutte le acque che si porta dietro e che si confondono nelle sue onde. Nessun albero genealogico garantisce il cento per cento di sangue blu. La folla eterogenea che si pigia nel nostro cranio non può esibire un inoppugnabile certificato di nascita, non sa donde proviene né quale sia il suo vero nome, Inn o Danubio o quale altro mai, ma sa dove va e come andrà a finire.
~ Claudio Magris – Danubio. Garzanti, Milano 2013.
Mestá na Dunaji · 13/05/2023
Ieri in treno fra una comitiva di anziani inglesi che leggevano Spectator, e una coppia di coniugi ucraíni il cui lui è bene stia lontano dal fronte altrimenti i soldati russi lo sentono masticare e ruttare e non c’è NAFO che tenga.
Appena passata la frontiera a Břeclav è cominciato a piovere.
A Vienna la scelta fra prendere la metropolitana e arrivare a destinazione in sette minuti, o attraversare il centro a piedi. Pffft, se c’è una città che invita a camminare col naso all’insú… In Rilkeplatz individuo una gasthaus dall’aspetto dismesso, entro ed è stracolma di uomini che sbevazzano – non una sola donna nel locale. Notevoli riproduzioni di pubblicità artistico-turistiche appese alle pareti. Fingo di saper parlare tedesco: weissbier e gulasch mit nockerl e schnitzel mit kartoffelsalat, non so come facciano i vegetariani e i vegani a vivere in Mitteleuropa. Taglio dalla Staatsoper a Schwedenplatz, virando per Fleischmarkt con il negozio di toupets e Judengasse deserta con la pattuglia di Polizei e Sankt Ruprecht con la mano mozzata.
Stavolta il Donaukanal non puzza di fogna. Al molo arrivano i medesimi sbevazzatori dell’ora di pranzo; giungono altri gruppi di soli uomini, in ciascuno ce n’è uno vestito buffo. Inorridisco: sono addii al celibato! Il catamarano di Twin City Liner, battente bandiera slovacca, scende placido lungo il canale e accelera a pieni motori quando questo confluisce nel grande fiume dalle acque blu marroni. Il tempo grigio non permette di osservare la natura costiera; non che agli altri passeggeri, lattina in mano, importi molto. Sulla riva destra, il castello di Hainberg e il Braunsberg sono gli ultimi baluardi germanici; sulla riva sinistra, la rocca di Devín segnala lo sconfinamento in territorio slavo.
Bratislava è piccola.
Alloggio in un ex-convento che è l’albergo piú economico della città, probabilmente perché anche qui la Chiesa Cattolica non paga le imposte. Alla reception il mio ceco viene ignorato. In stanza una copia del Nový Zákon appartenuta a Sr. M. Benilda, con segnalibro in Giovanni 18-19. Nei corridoi una vasta biblioteca di volumi religiosi, fra culto mariano e devozione a San Giovanni Bosco.
Bratislava/Pozsony/Pressburg è piccola, e quel che c’è da vedere l’ho già visto nel gennaio di sei anni fa, quando c’era il sole ma faceva -11° C. Oggi mi mancano la torre detta UFO, che sovrasta il ponte SNP e che quel mattino era ancora chiusa, e il Castello.
Sullo Starý most, una bella struttura in ferro dipinta di verde, passano i tram e i podisti del mattino. Dal lato del quartiere di Petržalka, che ricordavo insicuro e poco gradevole, il lungofiume è stato attrezzato con un lido dove si gioca anche a bocce sul ghiaione non pettinato. Salgo ai 95 metri di altezza della torre UFO insieme a una coppia di coniugi serbi di mezza età il cui lui si chiama Milan e mi suggerisce di visitare un certo bel posto blizu Smederevo. Resto lassú a prendere vento freddo e a scattare foto a estranei finché la mente s’intorpidisce. Lo skybar di notevole ha soltanto il cesso panoramico: Enjoying the view?
Anche il Castello mi delude un poco: nel negozio di suveníry la commessa-capa c’informa che eccezionalmente aprirà nel pomeriggio causa Notte dei Musei; le magliette per turisti dal tessuto di scarsa qualità costano venticinque euro, la commessa in seconda mi dice sottovoce che me le può vendere a venti. Scendendo nel centro storico passo davanti al Tepláreň, locale gay che lo scorso ottobre è stato teatro dell’omicidio di due avventori da parte di un giovane di estrema destra; in vetrina si legge un commosso ricordo dei due assassinati.
In Hviezdoslavovo námestie applaudo una coppia di freschissimi sposi e visito la mostra a tema fluviale di un’artista poco ispirata.
Blava è piccola. Il mio posto preferito è la Modrý kostol, dedicata a Svätá Alžbeta (d’Ungheria, perché qui un tempo era tutta Ungheria). Poco distante c’è quella pizzeria dove sei anni fa avevo mangiato la migliore pizza in Cechia\Slovacchia, cotta da un giovane pizzaiolo slovacco; be’, la gestione è cambiata, il cuoco attuale mette l’aglio nella Margherita.
Veľké Maďarsko · 14/05/2023
A raňajky, se il seminarista che è l’unico religioso nell’ex-convento fosse presente, tale madre e tale figlia gli farebbero smettere l’abito talare e ripudiare il nono comandamento. La tuttofare parla a macchinetta per tutto il tempo che l’ascensore impiega a discendere il grigio camino in stile Liebeskind, io abbozzo qualche vaga risposta calcando la „ř“.
Sul treno regionale per Komárno/Komárom (materiale rotabile ÖBB) gli annunci in magiaro cominciano appena lasciata Bratislava/Pozsony. Da queste parti la pianura alluvionale danubiana mi ricorda un po’ la Lomellina: campi di grano e di colza e di barbabietole si stendono fino all’orizzonte, intervallati dai silo di stoccaggio e dai paesini con la loro brava denominazione bilingue. Piove che Boh/Isten la manda, ma non ancora ai livelli di Chicago 2022 o di Valdivia 2013.
Komárno/Komárom (sponda slovacca) doveva essere una cittadina ricca e graziosa, quando era soggetta alla Corona di Santo Stefano. Giace alla confluenza del Váh/Vág nel Danubio, dove il grande fiume forma un isolotto. C’è una cittadella, residuo di un complesso di fortificazioni su ambo le rive; ci sono belle chiese e palazzotti borghesi, e una sinagoga. Oggi la cittadella è chiusa, dietro alle chiese si stagliano i paneláky, i palazzotti cadono in rovina, e la sinagoga è tristemente vuota. Alla foce del Váh non capisco come si accede, e il lungo-Danubio è un lungo cantiere logistico-navale con un radioso futuro alle spalle.
A tarda sera scopro che “la Lomellina slovacca” è la piú grande isola fluviale d’Europa: la Žitný ostrov, stretta fra il Danubio a sud, il Váh a est, e il Malý Dunaj (“Piccolo Danubio”) a nord. Quest’ultimo defluisce dal corso principale appena a valle di Bratislava e si getta nel Váh a monte di Komárno. E sí che dai finestrini del treno avevo notato gli acquitrini…
Crossing the bridge · 15/05/2023
Nella luce nuvolosa del lunedí mattina, Komárno appare un po’ piú viva di ieri: i bambini vanno a scuola, i poveri perlustrano i cestini. Il gatto randagio affamato del quartiere mi riempie di pelo. All’ufficio postale il viso dell’impiegata s’illumina quando le dico «Taliansko». A colazione capuccino [sic] aj maková buchta. Mi trovo in una cittadina di lingua ungherese e parlo ceco rotto e mi rispondono in slovacco e ci capiamo: grazie Ceccobeppe, fuck you Dio di Babele.
Il Danubio infila le città come perle. […]
Komárom-Komárno (o Komorn), che si trova in gran parte sull’altra riva del Danubio, in Cecoslovacchia, è un piccolo concentrato dei simboli della magiarità. La statua di Klapka, il generale quarantottesco, riassume lo spirito ribelle magiaro; la targa che ricorda la nascita di Mór Jókai allude a quell’illusionismo nazionale, tanto coltivato soprattutto dopo il Compromesso, col quale la classe dirigente ungherese si creava una maschera di vitalità e di splendore, trasformando la magiarità nel cliché della medesima. […]
~ Claudio Magris – op. cit.
Transitato a piedi sull’Erzsébet híd che unisce le due nazioni, il piú ampio giretto turistico di Komárom (sponda ungherese) che riesco a fare con lo zainetto e il trolley è intorno alla stazione ferroviaria, con sosta al bancomat del Tesco (?!) per prelevare fiorini. Avrei potuto chiedere un passaggio ai tanti slovacchi che fanno i pendolari della spesa. Sull’InterCity verso la capitale mi addormento guardando le colline boscose.
Non so niente di letteratura ungherese, oltre a Ferenc Molnár. Non so niente dell’Ungheria in generale, oltre a Cicciolina e a Ferenc Puskás e al Ferencváros. Non conosco magiari, oltre alla tizia che frequentai brevemente pre-coronavirus, che chiedeva sempre «where is Massi», e che si rivelò una perdita di tempo. Quella tizia mi torna in mente alla reception dell’albergo di fronte alla stazione di Keleti, dove le tre persone che ho di fronte sono un filo scentrate, com’era lei. Enrico Fermi diceva che gli alieni [s]ono qui fra noi e si fanno chiamare Ungheresi
.
Budapester Schlittenfahrt · 16/05/2023
Budapest è la più bella città del Danubio; una sapiente automessinscena, come Vienna, ma con una robusta sostanza e una vitalità sconosciute alla rivale austriaca. Budapest dà la sensazione fisica della capitale, con una signorilità e un’imponenza da città protagonista della storia, nonostante il lamento di Ady per la vita magiara «grigia, color della polvere». Certo, la Budapest moderna è una creazione recente, ben diversa dalla città ottocentesca che, come scriveva Mikszáth, negli anni Quaranta del secolo scorso beveva vermut serbo e parlava tedesco. La magnificenza metropolitana di Budapest, che si basa sulla solida realtà di una crescita politico-economica, presenta anche il volto di un seducente illusionismo, che l’arte fotografica di György Klösz ha colto con magica lucidità. Se la Vienna moderna imita la Parigi del barone Haussmann, con i suoi grandi boulevards, Budapest imita a sua volta questa viennese urbanistica di riporto, è la mimesi di una mimesi; forse anche per questo assomiglia alla poesia nell’accezione platonica, il suo paesaggio suggerisce, più che l’arte, il senso dell’arte.
~ Claudio Magris – op. cit.
[Massi] Non può piovere per sempre!
[Duna] Hold my sör…
Budapest è grande.
Esco presto per mescolarmi ai locali che vanno al lavoro e per evitare gli altri turisti. Da Keleti al Danubio devono essere oltre due chilometri in linea retta, ma la mia mappa non riporta la scala (ieri una gentile barista indiana si è sorpresa di vedermi trafficare con la carta e si è offerta di cercare per me su Google Maps). Transitato a piedi sull’Erzsébet híd (non è il medesimo “ponte Elisabetta” di ieri, lascio ai miei 2,5 lettori immaginare chi sia tale onnipresente Elisabetta) salgo gradino dopo gradino alla Citadella [sic], dislivello da passo Pordoi. In vetta mi ferma una rete metallica: l’intera costruzione è inaccessibile per lavori. Grazie Orbán.
Scendo a Buda, mi perdo un’ora fra i viali alberati di Buda, esco la mappa di tasca, ritrovo la strada per il Castello. Seguo i cartelli e imbocco una scala a chiocciola che m’ispira meno sicurezza di quella traballante dell’UFO di Bratislava: è metà mattina, sono fradicio, e sto odiando questa città; poi un metro piú in là vedo un comodo ascensore. Magris paragona l’architettura di Budapest a quella di Vienna, ma il confronto io lo faccio con Praga: Hradčany e Malá Strana mi piacciono piú del complesso fortificato di Buda. Oltretutto oggi la Chiesa di Mattia Corvino è presidiata da Honvéd e Rendőrség ed è chiusa al pubblico. Ancora grazie Orbán.
Evado dal Castello alla prima Porta. Fra i ristoranti da Guida Michelin e le catene americane, le solite, a Buda i posti popolari sono tutti zárva. In una via dello shopping, ma lontano dagli scarichi dei torpedoni, in un bistro fighetto come tanti nel mondo, mentre sto leggendo la lista degli hamburger, un tavolo di avventori autoctoni mi passa il menú a prezzo fisso da vero avventore autoctono: è un gesto di cortesia banale, e il menú è scritto in ungherese per cui ordino a casaccio, ma finalmente smetto di sentirmi respinto da questi luoghi.
Proseguo mangiato e bevuto verso la Margitsziget, un parco naturale di un ettaro nel mezzo del grande fiume, pochissime anime a passeggio e moltissime lumache striscianti per i sentieri. Rimesso piede a Pest, a un semaforo un’anziana mi scambia per un locale e mi chiede la strada: «nerozumiem, som turista», rispondo; «ahhh, turista», sorride. Mi trascino ancora fino all’Országgyűlés, l’edificio piú iconico della capitale. In piazza Kossuth un memoriale commemora la strage compiuta dai carri armati sovietici durante la repressione della Rivoluzione del 1956. La mostra non spiega adeguatamente cosa accadde, ma mi ricorda che Giorgio Napolitano è ancora vivo, e che Pietro Nenni aveva ragione.
3000 siepi · 17/05/2023
Sul FlixBus per Novi Sad (Újvidék in magiaro) si entra già in clima-Kusturica: l’autista grande grosso e cialtrone che si registra al cellulare mentre dà un bacio e invia il video tramite Whatsapp (alla figlia? alla moglie? all’amante?); l’inserviente smilzo e timido con piú dita che denti che fa da spalla. Ha smesso di piovere ma il cielo sulla pianura pannonica è rimasto e rimarrà di un grigio appena piú chiaro dell’asfalto liscio e rettilineo che porta a Szeged e poi al valico di Horgoš.
Alla frontiera, sponda ungherese: un poliziotto (romaní?) ai primi baffi; il foglio stampato anti-corruzione «GRANICA JE BESPLATNA!!!» ricorda lo zio di Marko, innocente, cui cascarono gli euro dal passaporto; l’agente Andrea H dagli occhi verdi non proferisce parola; il cartello «Welcome to Serbia», e le barriere blu e le reti metalliche e il filo spinato per dissuadere chi vuole entrare in Europa dalla porta di servizio.
Alla frontiera, sponda serba: oltre le sbarre è ferma una carovana di auto targate Vienna, dal bagagliaio della Škoda blu in coda una minuta finta-bionda trae una spazzola e si sistema i capelli; ancora non si proferisce parola; ho un nuovo timbro sul passaporto; chi ha abbandonato quella roulotte gialla e perché nessuno la rimuove.
Paesaggi di Banato e Vojvodina: le viti di Subotica, le case sparse a piano unico con tetto piramidale in tegole, i volti piú scuri. L’autista vede un tornado all’orizzonte, l’aria è ancora carica di umidità. Leni, [t]he first sunshine of my trip was across the border
was also a metaphor.
[…] Novi Sad era l’«Atene serba», una culla del risorgimento culturale e politico della Serbia. […] Il paesaggio è bellissimo, la fortezza di Petrovaradin domina con le sue memorie austriache e ottomane il Danubio, fra i vicini boschi della Fruška-Gora si nascondono i monasteri ortodossi, con le loro icone e la loro pace antica.
Al mercato di Novi Sad si vedono anche contadine nel costume nazionale slovacco. […]
~ Claudio Magris – op. cit.
Novi Sad è bella; e Novi Sad è Alessandria, se Napoleone avesse completato l’opera di distruzione e se i futuri piani regolatori avessero messo il Tanaro al centro dell’urbanistica. Quanto alle contadine slovacche osservate da Magris, la loro passata esistenza spiega i miei infatuamenti a ogni angolo: le loro nipoti, vestite alla zingara e con attitudine ottomana, oggi siedono ai tavolini del Bulevar a bere srbská káva.
[Massi] Finalmente una giornata di sole!
[Дунав] Hahaha не…
Ho camminato quasi l’intero periplo di Petrovaradin, sto facendo ritorno in centro. Il cielo si sta scurendo ben prima del tramonto, commetto l’errore di fermarmi in un ristorante sotto la rocca per espletare un bisogno fisiologico non negoziabile e per cenare a ćevapi na kajmaku. Dio Danubio apre le cateratte: per un’ora si vedono appena le auto che fendono le acque come motoscafi. Chiedo al gentile cameriere di chiamare un taxi, ma i taxi sono tutti occupati.
Ora ho un primato personale sui 3000 siepi, in orienteering piovoso, di circa trenta minuti.
Il narcisista · 18/05/2023
Trasferimento a Belgrado e giorno di riposo.
La notiziona di oggi, che ho letto mentre m’ingozzavo di baklava industriali seduto allo scrittoio della stanza d’albergo, è l’uscita a fine luglio del nuovo disco dei Blur, c’è già una nuova canzone che volutamente non ascolterò per qualche tempo.
Tre citazioni sul tema del narcisismo da viaggio, dall’op. pluricit. di Claudio Magris:
Certo, nel mondo amministrato e organizzato su scala planetaria l’avventura e il mistero del viaggio sembrano finiti; già i viaggiatori di Baudelaire, partiti alla ricerca dell’inaudito e pronti a naufragare in questa sortita, trovano nell’ignoto, nonostante ogni disastro imprevisto, lo stesso tedio lasciato a casa. Muoversi, comunque, è meglio che niente: si guarda dal finestrino del treno che precipita nel paesaggio, si offre il viso a un po’ di fresco che scende dagli alberi sul viale, mescolandosi alla gente, e qualcosa scorre e passa attraverso il corpo, l’aria s’infila nei vestiti, l’io si dilata e si contrae come una medusa, un po’ d’inchiostro trabocca dalla boccetta e si diluisce in un mare color inchiostro. […]
Forse scrivere significa colmare gli spazi bianchi dell’esistenza, quel nulla che si apre d’improvviso nelle ore e nei giorni, fra gli oggetti della camera, risucchiandoli in una desolazione e in un’insignificanza infinita. La paura, ha scritto Canetti, inventa dei nomi per distrarsi; il viaggiatore legge e annota nomi nelle stazioni che oltrepassa col suo treno, sugli angoli delle strade dove lo portano i suoi passi, e procede un po’ sollevato, soddisfatto di quell’ordine e di quella scansione del niente.
[…] La persuasione, ha scritto Michelstaedter, è il possesso presente della propria vita e della propria persona, la capacità di vivere a fondo l’istante senza l’assillo smanioso di bruciarlo presto, di adoperarlo e usarlo in vista di un futuro che arrivi più rapidamente possibile e dunque di distruggerlo nell’attesa che la vita, tutta la vita, passi velocemente. Chi non è persuaso consuma la propria persona nell’attesa di un risultato che ha sempre da venire, che non è mai. La vita come mancanza, come deesse, annientata di continuo nella speranza che la difficile ora presente sia già trascorsa, affinché sia cessata l’influenza, superato l’esame, celebrato il matrimonio o registrato il divorzio, terminato un lavoro, arrivate le ferie, giunto il responso del medico. Se spera sperando / che vegnarà l’ora / de andar in malora / per più no sperar.
Malgrado Belgrado · 19/05/2023
Appeso agli alberi del viale che separa il ministero degli Esteri e quello degli Interni, e a un tiro di kalashnikov da quello della Difesa, un lungo striscione tricolore dice: «la Serbia senza il Kosovo e la Metochia è come un corpo senza il cuore». Sul retro sono mostrate le foto di bambini uccisi dai bombardamenti della NATO, e Tony Blair e Bill Clinton sono chiamati criminali di guerra.
Leni, parlando d’altro, mi ha raccontato di quando da bambina giocava con la sorella nel cortile di casa nel buio del coprifuoco a Smederevo, quaranta chilometri piú a valle. Non ho piú approfondito l’argomento con lei, né l’ho affrontato con Marko che è di Niš. Immagino che molti Serbi miei coetanei abbiano un conflitto interiore: l’attrazione o interesse per ciò che viene dall’Ovest, e il ricordo di quel che venne dall’Ovest (e dall’Italia) nella primavera del 1999.
A Belgrado i giovani del centro parlano inglese fluente e fanno la stessa vita dei giovani di Alessandria e di Brno e di Colchester; chissà quelli in periferia, chissà quelli nelle cittadine e nei paesi. A Novi Sad ho visto un parco logistico in costruzione accanto alla ferrovia: l’investimento è cinese. Attenzione a non perdere la guerra del soft power oltre a quella commerciale.
È difficile dire dove e da che parte sia Belgrado, afferrare l’identità proteiforme e la straordinaria vitalità di questa incredibile città che è stata tante volte distrutta e che tante volte è risorta, cancellando le tracce del suo passato. […] La storia, il passato di Belgrado vivono non tanto nei pochi monumenti rimasti, quanto nel suo sostrato invisibile, epoche e civiltà cadute come foglie sbriciolate nella terra, humus molteplice, stratificato e fecondo in cui affonda le sue radici questa città plurima, che si rinnova incessantemente e che la sua letteratura ha spesso rappresentato quale fucina di metamorfosi.
~ Claudio Magris – op. cit.
A Marko la capitale non piace. Io voglio dimenticare gli orrori socialisti visti ieri dal finestrino del treno regionale passando per Novi Beograd, e farò finta che la città tutta coincida col borgo vecchio. Savski Venac è confortevole, col suo lungo-Sava che la sera deve giocarsela coi Navigli milanesi (io non so, sono in albergo a scrivere). Stari Grad è un centro storico indistinguibile da mille altri centri storici dove i grandi marchi si sono presi tutte le vetrine, e dove i gastropub esperienziali attirano le classi sociali coi dané, lasciando vuoti i vetero-ristoranti con le foto appese alle pareti di vecchie glorie dell’intrattenimento. La fortezza di Kalemegdan offre una spettacolare veduta della confluenza della Sava nel Danubio. Nella cattedrale ortodossa una moretta callipigia bacia le icone. A due passi, la residenza della principessa Ljubica, d’ispirazione ottomana, dà l’idea che Belgrado fosse alla periferia dello stile, nell’Ottocento come oggi; interessante la mostra temporanea sull’Art Nouveau; non ho pagato l’ingresso perché questa è la settimana dei musei nazionali.
A latere, sono stato scambiato per belgradese tre volte nella stessa giornata. Alle nove di mattina, uscendo da un’agenzia di viaggi, da un uomo che mi ha chiesto se sapevo l’orario di apertura di un qualche altro ufficio lí a fianco. All’una del pomeriggio, fuori da un vetero-ristorante in una via trafficata, da una ragazzina con l’apparecchio che ho zittito appena ha aperto la bocca metallizzata. E pochi minuti prima, all’interno del medesimo vetero-ristorante, uscito dal bagno, da un cliente che pensava io fossi il titolare, perché non c’era nessuno.
Randagismo · 20/05/2023
That’s not right babe, you’re here and I’m there.
~ The Fiery Furnaces – Police Sweater Blood Vow.
Ieri mattina all’agenzia di viaggi di Arriva (a DB company
) le due gentili impiegate mi hanno detto che per i biglietti dei trasporti regolari dovevo recarmi alla stazione degli autobus. Alla stazione degli autobus lo sportellista mi ha consegnato il biglietto, e un жетон per accedere alle corsie di partenza.
Oggi pomeriggio sono in stazione con mezz’ora di anticipo: faccio cadere il gettone nella fessura e mi metto in fila nella corsia da dove penso partirà l’autobus per Kladovo; è la corsia sbagliata, la corriera Mercedes degli anni Novanta s’infila altrove, la seguo. La mancia per il bagaglio va direttamente in tasca all’autista. La maggior parte dei passeggeri sale in periferia: anziani, studentesse, mi sorprende essere l’unico turista. La radio passa musica folk, l’autostrada per Niš concilia il sonno. Poi la corriera prende la strada statale verso est, direzione Požarevac, e ancora le strade provinciali in mezzo ai paesini, nessuno dei quali è sulla lista delle fermate previste. Non sono nel panico perché il cartello dietro al parabrezza riporta la destinazione desiderata, ma inquieto sí. A Požarevac abbiamo quaranta minuti di ritardo. Una bella fanciulla chiede se il posto accanto al mio è libero, scenderà presto, non so se dovrei invitarla a seguirmi a Brno o se dovrei mollare tutto e stabilirmi a Donji Podqualcosa, nella Serbia rurale, in casa coi suoi tre fratelli che hanno un losco giro di BMW usate.
Da Veliko Gradište la corriera segue il percorso previsto, lungo il corso del Danubio. Qui il grande fiume diventa grandissimo, sette chilometri di ampiezza, ma è sotto il castello di Golubac che si insinua nella Đerdapska klisura, o Porţile de Fier, le Porte di Ferro. In mezzo a due pareti di roccia il letto si fa ora piú stretto e ora piú largo, e la strada sale e scende allo stesso ritmo, un attimo siamo accanto alla riva, poco dopo siamo in cima alla scarpata. Da qualche parte lí sotto c’è la gola ampia soli novanta metri. Il telefono comincia ad agganciare le celle romene. Un temporale oscura la veduta. L’autista flirta con una passeggera, si eclissa con lei a Donji Milanovac, potrebbe essere un normale fine-turno ma non ne sono sicuro. Il nuovo autista raddrizza le curve a serpentina, maledicendo i lenti camper francesi, e recupera minuti. Un caprone pascola in un rettangolo d’erba fra l’acqua e l’asfalto. Una donna scende a una fermata immaginaria e viene portata via nel bosco da un uomo in un’auto senza targa. Infine il fiume si assesta, la strada spiana, passiamo accanto alla diga che fa anche da valico e da frontiera, e giungiamo a Kladovo con un ritardo trascurabile.

Kladovo is the coastal town that they forgot to close down
: somiglia in vari aspetti a una località di villeggiatura della riviera romagnola, con le sue pensioncine, e la sua spiaggetta però di sassi, e la sua strada dei locali però senza le balere. Tutti i giovani sono a fare serata. Trascino il trolley verso l’albergo e vedo un cane accucciato al centro della carreggiata: è il primo dei randagi che incontro, in tanti si aggirano intorno ai tavoli dei ristoranti a elemosinare, alcuni piú sani di altri. Il mio preferito si spaventa per i giochi dei bambini e zoppica saltellando sulle zampe posteriori, gli lascio due ćevapi.
[…] Un autobus ci porta a Kladovo, al confine bulgaro. La geografia, per un occidentale sprovveduto, si fa sempre più vaga. Felix Hartlaub, lo scrittore tedesco che ha lasciato interessantissimi taccuini scritti «nell’occhio del tifone» ossia nei comandi militari della Wehrmacht, osservava – quando era stato mandato in quella «giungla sudorientale» – che dopo Belgrado incominciava, nella sua mente, una nebbia confusa, che gli rendeva vaghe e imprecise quelle terre balcaniche in cui si trovava, e si chiedeva dov’era. E anch’io, aspettando l’autobus a Kladovo, mi domando dove sono.
~ Claudio Magris – op. cit.
[Scritto sul treno da Drobeta a Bucarest.]
Hvala · 21/05/2023
Al valico di Đerdap I il gentile agente serbo mi timbra il passaporto ma mi conferma quel che avevo letto e che temevo: non posso oltrepassare la frontiera camminando, devo chiedere un passaggio in auto o in camion. Si poteva transitare a piedi giusto un anno fa, oggi no, va’ a sapere il perché. A questo punto non posso nemmeno tornare indietro, perché il passaporto è timbrato: the only way is forward.
Mi posiziono a lato del gabbiotto, appoggio la giacchetta al manico del trolley, estendo il braccio e il pollice. È la terza volta in vita che faccio l’autostop, mi è sempre andata bene, ma ho appena visto un’apparente lingera pregare inutilmente i conducenti in sosta di tirarla su, e temo che questa volta dovrò pazientare. Il guidatore della prima auto mi fa segno di no. La seconda auto è piena. La terza auto, con targa serba, si ferma; a bordo un uomo e una donna di pochi anni piú di me, abbassano il finestrino. Spiego in ceco, infilandoci qualche parola in serbo tipo granica, che sono italiano e che devo soltanto andare dall’altra parte della diga. Mi fanno segno di salire, ma ovviamente chiedono all’agente se la mia storia è veritiera e se avranno problemi dall’altra parte.
Mentre guida verso la riva opposta, l’uomo mi chiede perché parlo slovački, che sul momento penso significhi un generico “slavo”, invece è proprio “slovacco”. Spiego che abito in Cechia, e che il mio putovanje mi ha portato fin lí. E dopo, chiede la donna. E dopo a Drobeta in taxi, e poi fino al Mar Nero. Anche loro vanno a Drobeta, a fare šoping, mi ci possono portare. Nel suo gabbiotto l’agente romeno mi guarda strano, infine ci restituisce i tre passaporti.
Durante il breve tragitto, Srđan e consorte mi dicono che abitano a Negotin (un poco piú a sud di Kladovo), e che lui ha lavorato in Slovacchia, a Komárno (!), tre volte (?). Qualcosa si perde nella traduzione, ma ci si capisce. Mi lasciano nel parcheggio di un centro commerciale, assicurandosi che sia pronto per la pioggia imminente e che sappia in quale direzione andare. Ci auguriamo buono shopping e buon viaggio.
Drobeta-Turnu Severin, a giudicare dai tanti begli edifici abbandonati e diroccati, a fine Ottocento / inizio Novecento doveva essere una città affascinante. Oggi si aggrappa ai reperti romani dell’epoca dell’imperatore Traiano, quando era uno dei principali centri sul limes danubiano.
Un ricordo di Drobeta che voglio conservare è quello delle due ragazzine che sono giunte alla cattedrale ortodossa in due su un monopattino, l’hanno parcheggiato accanto a un muro esterno, e sono entrate in chiesa per baciare le icone come se stessero prendendo un gelato.
Dusty Dacia · 22/05/2023
La Romania è grande e lenta.
Alla luce del mattino Drobeta mi dà vibrazioni latino-americane, devono essere i cavi elettrici appesi liberamente ai pali in strada, o le insegne fai-da-te dei negozi. La stazione ferroviaria è un disastro: non c’è una biglietteria self-service, delle tre sportelliste due si prendono una pausa con i clienti in attesa, il software gestionale gira su MS-DOS, per chiudersi nel bagno degli uomini occorre tirare il chiavistello della porta dell’anticamera, la macchinetta che vende bevande e snack è italiana e vecchissima e adattata ad accettare la valuta locale.
L’accelerato per Bucarest è peggiore: i locomotori e le carrozze risalgono agli anni Sessanta, la velocità media è di settanta chilometri all’ora, viaggio in una prima classe che sembra una terza, in compenso il baffuto controllore impugna uno scanner Z****. L’InterCity per Costanza ha una vera prima classe dal design anni Ottanta, ma la carrozza ristorante non ha niente di quel che riporta il menú, l’offerta è patatine e birra.
Il paesaggio della Romania meridionale è trascurabile: boschi, campi colti e incolti, stazioncine derelitte. A est del Danubio il panorama si fa piú vario, con greggi di pecore al pascolo, branchi di cani randagi, e canali e chiuse che permettono alle navi di raggiungere il Mar Nero.
O Mare Nero, Mare Nero, Mare Ne’ · 23/05/2023
Il Mar Nero è verde e blu.
Costanza si sveste a strati. Oltre alle rovine romane presso il porto, reperti classici dalla datazione incerta sono sparsi per il centro a nobilitare la città moderna (Ceaușescu ha fatto anche cose buone). Fra le palazzine liberty fatte costruire dai ricchi mercanti fra fine Ottocento e inizio Novecento, le chiese convivono con le moschee. Visito la moschea sunnita di Carlo I: niente d’interessante, e nella scala a chiocciola in pietra che conduce in cima al minareto riesco a salire pochi piani. Visito la cattedrale ortodossa dei Santi Pietro e Paolo: non un centimetro quadrato non è affrescato, l’odore d’incenso permea ogni cosa, le fedeli si confessano in pubblico, un vecchio si prostra piangendo di fronte a un’icona di Cristo in argento, una giovane bacia quella di Maria col Bambinello e compra due candele prima di andarsene a bordo di un SUV. Penso agli obbrobri cattolici edificati nel secondo dopoguerra (San Baudolino ad Alessandria, Maria Restituta a Brno, Santa María de Guadalupe a Città del Messico) e mi chiedo chi andrebbe a convertirsi in mezzo al nudo cemento armato.
A pranzo in un ristorante di pesce con vista sulla baia, con proprietaria e fornitori italiani, e dai susseguiosi camerieri al primo impiego, provo le rapane: dei grossi molluschi dall’aspetto di escargots, non particolarmente gustosi, e duri da masticare (non mi stupirei se fossero davvero chiocciole raccolte a cesti nei giardini cittadini). Al tavolo accanto, due faccendieri discutono di affari in Ucraína; sono contento di non capire una parola di romeno. Fuori ha smesso di piovere ma tira la brezza, le acque sono increspate e batte bandiera rossa, soltanto pochi ragazzini fanno il bagno dove ancora si tocca. Le petroliere ancorate all’orizzonte non rovinano la bellezza del panorama marino.
La stazione ferroviaria di Costanza ha tutto ciò di cui un turista ha bisogno, c’è pure una macchinetta che vende libri. Il treno per Tulcea, velocità media di quarantacinque chilometri all’ora, è un dignitoso regionale a trazione diesel in cui tutti si conoscono; c’è chi parla inglese; nessuno mi siede vicino. In dotazione al controllore non soltanto un palmare Z****, anche una stampantina, applausi al collega delle vendite. A Medgidia il treno imbocca una linea che corre parallela alla costa, qualche decina di chilometri nell’entroterra: scambi azionati a mano, campi coltivati a grano e a pale eoliche, altre greggi di pecore al pascolo, cavalli legati a recinzioni, cani randagi che scodinzolano ai viaggiatori nelle stazioncine o inseguono il convoglio che corre. Nei pressi di Târgușor Dobrogea, le doline fra le pareti di roccia calcarea, forse scavate dal Danubio eoni fa, mi ricordano la Far North Line nelle torbe del Sutherland; si vedono resti di costruzioni in pietra di un’epoca indefinita. Verso Babadag compaiono le lagune e infine le beccaccine, i fagiani, i gabbiani.
Nei villaggi di frontiera guardano passare i treni perTozeurTulcea.
Tulcea è a un tiro di mortaio dal confine con l’Ucraína e non molto piú distante da quello con la Moldavia Moldova. È anche la porta del Delta e l’ultima tappa del viaggio. Domani andrò in gita in barca fino a Sulina, e dopodomani prenderò la strada di casa. Ci leggiamo al mio ritorno.
Nekonečná ulica · 24/05/2023
