Virtualia?

Piove sui works in regress.

European, italiano, piemontèis. Falso e cortese. Geriatric millennial. Bezbožný. Samotář. 100% spoleh!

Thanksgiving a Theresienstadt ·

Le linee ferroviarie che da Praga portano ai Sudeti seguono il corso dei fiumi – la Moldava, l’Elba, l’Ohře – come se fossero fiumi esse stesse, e si diramano e riconfluiscono e formano isole intorno alle città secondo un disegno asburgico il cui senso è perduto.
(To je mi) Litoměřice, una Kroměříž boema, è circondata da colline e vigneti, e ha un centro storico sul modello di mille altri in Mitteleuropa.

Cimitero all’esterno della Fortezza Piccola, sotto un cielo plumbeo. Centinaia di lapidi bianche in un prato verde. Al centro, una croce. Sullo sfondo, una stella di Davide.

Fouká chladný vítr.

In Boemia soffiano i venti di una tempesta artica; sull’autobus che conduce a Terezín sono l’unico forestiero. All’ingresso della Malá pevnost (“Fortezza Piccola”) mi attende una guida filippina coniugata ceca che parla l’italiano come io lo spagnolo, adattando un vocabolario diverso alla propria grammatica: l’effetto è buffo e porterebbe al riso, se non ci si trovasse in un luogo che trasuda sofferenza dai tempi del conflitto austro-prussiano. Qui nel 1914 fu imprigionato Gavrilo Princip; qui dal 1940 furono imprigionati dalla Gestapo migliaia di oppositori politici all’invasione nazista della Cecoslovacchia e dell’Europa. La fortezza in sé è una meraviglia architettonica, simile alla Cittadella di Alessandria (la guida conosce soltanto Palmanova). All’interno: da una parte i dormitori e le celle d’isolamento, le docce gelate e l’infermeria, il patibolo; dall’altra parte le belle palazzine, il cinema e la piscina per i gerarchi e le loro famiglie.

Di là del fiume, si entra a Theresienstadt camminando lungo la provinciale. I bastioni sono stati civilizzati, spianati o trasformati in maneggi; l’aria puzza di sterco di cavallo. Gli abitanti rimasti sono poche migliaia, sparsi per poche strade intorno alla piazza principale: oggi è difficile immaginare che qui furono rinchiusi centomila e piú ebrei da ogni angolo del continente. Il mio biglietto include l’accesso al museo del ghetto e a una caserma ristrutturata, ma passo oltre, verso il colombario e il crematorio: fortunati (?) coloro la cui sofferenza ebbe fine qui, in questi luoghi relativamente tranquilli, e non in un campo di sterminio.

Binari in rovina davanti a un ingresso nei bastioni.

Konečná zastávka.

Una casupola che un tempo ospitava la pesa pubblica, situata presso ciò che resta dei binari, ora è sede di una mostra sui trasporti ferroviari in entrata e in uscita dal ghetto. Nell’ultima teca è esposta una scheda battuta a macchina: vi si legge che fra gli ultimi ad andarsene furono settantatré italiani, il 10 giugno 1945, con un treno via Bohušovice per Praga. Percorsero, a ritroso, le medesime linee lungo i medesimi fiumi: l’Ohře, l’Elba, la Moldava; e poi chissà.

[L]a pietà stessa sfugge alla logica. Non esiste proporzionalità tra la pietà che proviamo e l’estensione del dolore da cui la pietà è suscitata: una singola Anna Frank desta piú commozione delle miriadi che soffrirono come lei, ma la cui immagine è rimasta in ombra. Forse è necessario che sia cosí; se dovessimo e potessimo soffrire le sofferenze di tutti, non potremmo vivere.

Primo Levi – I sommersi e i salvati, 1986. Einaudi, Torino 2007.


Ci viene chiesto sovente, come se il nostro passato ci conferisse una virtú profetica, se «Auschwitz» ritornerà: se avverranno cioè altri stermini di massa, unilaterali, sistematici, meccanizzati, voluti a livello di governo, perpetrati su popolazioni innocenti ed inermi, e legittimati dalla dottrina del disprezzo. Profeti, per nostra buona sorte, non siamo, ma qualcosa si può dire. […] Che la strage tedesca ha potuto innescarsi, e si è poi alimentata di se stessa, per brama di servitú e per pochezza d’animo, grazie alla combinazione di alcuni fattori […], non molto numerosi, ognuno di essi indispensabile ma insufficiente se preso da solo. Questi fattori si possono riprodurre, e in parte si stanno già riproducendo, in varie parti del mondo.

Per noi, parlare con i giovani è sempre piú difficile. Lo percepiamo come un dovere, ed insieme come un rischio: il rischio di apparire anacronistici, di non essere ascoltati. Dobbiamo essere ascoltati: al di sopra delle nostre esperienze individuali, siamo stati collettivamente testimoni di un evento fondamentale ed inaspettato, fondamentale appunto perché inaspettato, non previsto da nessuno. È avvenuto contro ogni previsione; è avvenuto in Europa […]. È avvenuto, quindi può accadere di nuovo: questo è il nocciolo di quanto abbiamo da dire.
Può accadere, e dappertutto. Non intendo né posso dire che avverrà; come ho accennato piú sopra, è poco probabile che si verifichino di nuovo, simultaneamente, tutti i fattori che hanno scatenato la follia nazista, ma si profilano alcuni segni precursori. La violenza, «utile» o «inutile», è sotto i nostri occhi: serpeggia, in episodi saltuari e privati, o come illegalità di stato, in entrambi quelli che si sogliono chiamare il primo ed il secondo mondo, vale a dire nelle democrazie parlamentari e nei paesi dell’area comunista. Nel terzo mondo è endemica od epidemica. Attende solo il nuovo istrione (non mancano i candidati) che la organizzi, la legalizzi, la dichiari necessaria e dovuta e infetti il mondo. Pochi paesi possono essere garantiti immuni da una futura marea di violenza, generata da intolleranza, da libidine di potere, da ragioni economiche, da fanatismo religioso o politico, da attriti razziali. Occorre quindi affinare i nostri sensi, diffidare dai profeti, dagli incantatori, da quelli che dicono e scrivono «belle parole» non sostenute da buone ragioni.
È stato oscenamente detto che di un conflitto c’è bisogno: che il genere umano non ne può fare a meno. È anche stato detto che i conflitti locali, le violenze in strada, in fabbrica, negli stadi, sono un equivalente della guerra generalizzata, e che ce ne preservano, come il «piccolo male», l’equivalente epilettico, preserva dal grande male. È stato osservato che mai in Europa erano trascorsi quarant’anni senza guerre: una pace europea cosí lunga sarebbe un’anomalia storica.
Sono argomenti capziosi e sospetti. Satana non è necessario: di guerre e violenze non c’è bisogno, in nessun caso. Non esistono problemi che non possano essere risolti intorno a un tavolo, purché ci sia volontà buona e fiducia reciproca: o anche paura reciproca, come sembra dimostrare l’attuale interminabile situazione di stallo, in cui le massime potenze si fronteggiano con viso cordiale o truce, ma non hanno ritegno a scatenare (o a lasciare che si scatenino) guerre sanguinose fra i loro «protetti», inviando armi sofisticate, spie, mercenari e consiglieri militari invece che arbitri di pace.
Neppure è accettabile la teoria della violenza preventiva: dalla violenza non nasce che violenza, in una pendolarità che si esalta nel tempo invece di smorzarsi. In effetti, molti segni fanno pensare ad una genealogia della violenza odierna che si dirama proprio da quella dominante nella Germania di Hitler. Certo non mancava prima, nel passato remoto e recente: tuttavia, anche in mezzo all’insensato massacro della prima guerra mondiale, sopravvivevano i tratti di un reciproco rispetto fra i contendenti, una traccia di umanità verso i prigionieri ed i cittadini inermi, un tendenziale rispetto dei patti: un credente direbbe «un certo timor di Dio». L’avversario non era né un demonio né un verme. Dopo il Gott mit uns nazista tutto è cambiato. Ai bombardamenti aerei terroristici di Göring hanno risposto i bombardamenti «a tappeto» alleati. La distruzione di un popolo e di una civiltà si è dimostrata possibile, e desiderabile sia in sé, sia come strumento di regno. Lo sfruttamento massiccio della mano d’opera schiava era stato imparato da Hitler alla scuola di Stalin, ma in Unione Sovietica è ritornato moltiplicato alla fine della guerra. L’esodo di cervelli dalla Germania e dall’Italia, insieme con la paura di un sorpasso da parte degli scienziati nazisti, ha partorito le bombe nucleari. I superstiti ebrei disperati, in fuga dall’Europa dopo il gran naufragio, hanno creato in seno al mondo arabo un’isola di civiltà occidentale, una portentosa palingenesi dell’ebraismo, ed il pretesto per un odio rinnovato. Dopo la disfatta, la silenziosa diaspora nazista ha insegnato le arti della persecuzione e della tortura ai militari ed ai politici di una dozzina di paesi, affacciati al Mediterraneo, all’Atlantico ed al Pacifico. Molti nuovi tiranni tengono nel cassetto la «Battaglia» di Adolf Hitler: magari con qualche rettifica, o con qualche sostituzione di nomi, può ancora venire a taglio.

Primo Levi – op. cit.

Sul rapporto fra Primo Levi e lo Stato d’Israele si è scritto. Egli lo considerava sí un’isola di civiltà occidentale, una portentosa palingenesi dell’ebraismo, ma dell’ebraismo credeva che il baricentro [fosse] nella Diaspora. Non era sionista, ed era critico verso la militarizzazione e la politica israeliana del suo tempo. Vedeva analogie fra la condizione dei palestinesi e quella degli ebrei, ma non si spinse ad affermare altro.

Sarebbe stato inorridito dall’esistenza e dalla violenza di Hamas? Sí, come ogni persona dotata di empatia per i propri simili.
Sarebbe stato inorridito dalle illegalità di Stato operate dai governi del Likud e piú a destra, dalle violenze dei coloni in Cisgiordania generate da ragioni economiche, da fanatismo religioso o politico e protette dall’esercito regolare, e dalla rappresaglia in corso a Gaza perpetrat[a] su popolazioni innocenti ed inermi, e legittimat[a] dalla dottrina del disprezzo? Sí, come ogni persona dotata di empatia per i propri simili.

Restiamo umani.

Graffito alla fermata dell’autobus: «Mlčte když děti spí / Ne, když se zabíjí! / Svobodu Palestině! / Free Palestina / Hl. město Jeruzalém». Qualcuno ha aggiunto: «Od řeky k moři». Qualcun altro ha tirato una riga su «k moři» e ha corretto: «do prdele».

Fate silenzio quando i bambini dormono / non quando si uccide! / Libertà alla Palestina! / Free Palestina / Gerusalemme capitale.
Dal fiume al mare [a fare] in culo.
Dibattito su intonaco, Vozovna Komín, novembre 2023.