Blog › 2024

It’s only love ·

Mudhoney + Søwt @ Fléda, Brno, 19/09/2024

Di ritorno dal Kazakhstan, quel giorno ho preso un permesso dal lavoro per malessere e al concerto non sono andato ¯\_(ツ)_/¯.

Strain Rate et al. @ (Nová) Melodka, Brno, 21/10/2024

Vojta’s band is now a five-piece and is playing again at Melodka, this time in its new, cold labyrinthic venue in Královo Pole, which looks like the set of a slasher movie. The new singer has a better stage presence than the old one, and brings a claque of colleagues to support her them.
They have a messy start due to the sound technician’s abysmal work, then they find their groove as they go. Two new songs make their debut. I hear that the multiple folks are recording the session to make a videoclip, the keyboardist’s girlfriend wanting to play with AI or something.

The second act of the night is a “breakbeat-techno” duo from Havířov. I Röyksopp che ci possiamo permettere. Jsem jejích fanoušek č. 1.

Tolstoys @ Alterna, Brno, 06/11/2024

I Tolstoys non sono piú la stessa band di giuovinotti che ascoltavo in radio durante la pandemia: il tastierista e la violinista italo-slovacca hanno lasciato il gruppo, la cantante si è trasferita a studiare a Berlino dove ha conosciuto una chitarrista tedesca e un batterista neozelandese che fa loro da produttore (una telenovela di cui devo essermi perso qualche episodio). Nel frattempo hanno firmato un contratto discografico con Rough Trade e hanno suonato a Glastonbury (complimenti).

Il palco dell’Alterna nella luce rossastra; al centro, il tappeto.

Sul palco dell’Alterna non ci sono tastiere né violini, stonerebbero con l’atmosfera da Summer of Love.
Il nuovo batterista esce dal camerino e va a sdraiarsi sul tappeto al centro, che really tied the room together. La cantante arriva dal bar con un bicchiere di vinaccio rosso in mano e va a sedersi sul tappeto pure lei. Si uniscono l’ex-batterista (ora percussionista) e il bassista, e ultima la nuova chitarrista androgina, in un abbraccio circolare che fa un po’ terapia di gruppo e un po’ training autogeno. Ci sediamo anche noi, pubblico meno arcobaleno e meno giovane e meno numeroso di quanto mi aspettavo; poi ci fanno segno di alzarci, non siamo mica a teatro.

Ela Tolstová sfoggia un ipnotico décolleté e sfodera una potente voce che nei primi due dischi non si sentiva.
La musica dei Tolstoys è cambiata: il dream-pop liceale e il synth-pop venato di sensualità sono scomparsi, sostituiti da un mix di americana e blue-eyed soul con accenti psichedelici che sfocia – uh – in ritmi honky-tonk. Appunto, nessuna canzone dei primi due dischi viene suonata, neanche Tri mestá: la scaletta copre il terzo album No Limit to Love, da cui riconosco i singoli radiofonici Curious, Do You Remember e Real, e altre novità dal quarto album, che mi par di capire hanno finito di registrare in mattinata.
Verso la fine di una canzone ci chiedono di compiere un atto molto audace per gli standard di misantropia locale: prendere per mano coloro che abbiamo accanto, e ondeggiare le braccia insieme a tempo con la musica. In coda a Time in Space c’invitano in un dolce coro a sfumare che fa … with my baby, with my baby, with my baby. Tender, anyone?

Katarzia (& Aid Kid) + Baron Haze @ Fléda, Brno, 19/11/2024

Alla porta del Fléda un cartello avvisa che il concerto sarà registrato da Česká televize. Nel locale ci sono appunto quattro o cinque telecamere, di cui una montata su un braccio telescopico; mi piazzo fra questa e il mixer. Sono arrivato volutamente puntuale – to je mi líto, Baron Haze – e Katarzia comincia puntuale alle 21.
Questa volta Katarína K. porta con sé un bassista, un batterista, un tastierista, un trombettista, e due coriste: la cantante del gruppo spalla, e un’altra che ha appena debuttato come solista. Sul maxi-schermo alle loro spalle sono proiettate immagini e luci suppostamente artistiche. Alle mie spalle resta acceso un faro che distrae.

La prima parte del set prende a pieni suoni dall’ultimo album Šťastné dieťa, con Samota mi nevadí riarrangiata per tutti gli strumenti a fare da strano intermezzo. L’esecuzione è perfetta ma fredda, televisiva. Il pubblico, tendente al femminile/queer, dal mio punto poco privilegiato di osservazione appare un po’ apatico; unica eccezione, il giovane che mi sta davanti e che balla come Tyres di Spaced.
Per la seconda parte del set scendono dal palco le coriste e sale Aid Kid (io pronuncio “Aid Kid” come Jerry Seinfeld pronuncia “Newman”). Qui la scaletta prende a pieni suoni dall’album precedente, N5: l’autistico mago dell’elettronica altera a piacimento la voce di Katarzia e volge la sobria atmosfera di stasera in quella di un fumoso club; ottimo l’affiatamento con il batterista analogico.
La terza parte vede nuovamente tutti in scena. Mi aspetto una sequenza dei pezzi piú famosi, che invece non arriva: ci sono una Lepidlo senza il flauto traverso, una Dosť che smuove il pubblico, e in chiusura una Milovať s hudbou in chiave funk. Michal come encore spuntato.

Sono curioso di vedere cosa ČT Art manderà in onda.

Scaletta del concerto, con note dell’operatore della telecamera.

No, Bonsai non l’hanno suonata.

Kazakhstan /5 trans Asia express ·

La steppa vista dai finestrini del treno: il cielo senza una nuvola, le montagne aride, un casolare, pochi arbusti.

Già, la steppa kazaka. Dai finestrini del treno ho visto quella del sud del Paese: un brullo nulla, con i canali naturali o umani in secca, soltanto qualche pastore qua e là a far pascolare le capre. Dall’aereo questi flussi aridi sembravano sabbia pettinata da dita bambine, ancestrali.

In partenza da Astana, accanto a un finestrino che fa da uscita di sicurezza.

La carrozza classe kupe (“coupé”) del treno Talgo 004Ц da Nur-Sultan Astana ad Almaty-2, con quattro cuccette per scompartimento, vale per comodità il Nightjet ÖBB, ma il materiale rotabile è molto piú recente. Sono l’unico occidentale nel vagone, forse l’unico turista straniero. Condivido lo scompartimento con una donna che appare un poco piú vecchia di me, i cui due figli adolescenti sono scesi prima della partenza; tento una conversazione che non viene nemmeno vagamente considerata. Alla stazione di Karaganda/Qarağandy sale una coppia sposata che non disturberà, e mi addormento di un sonno spossato.

Venditrici ambulanti, passeggeri, personale di bordo sulla banchina della stazione.

Un foglio in tre lingue indica l’orario di arrivo alle stazioni, e il tempo di permanenza. A Shu/Şu, al confine col Kirghizistan, il treno si ferma trenta minuti ed è giusto ora di colazione. Sulla banchina numerose donne vendono bevande in bottiglia e cibo che sembra fatto in casa, come baursaki e manti e samsa; non so cosa compro, capisco che dentro c’è del сыр, metto giú le monetine una a una finché bastano.
Shu/Şu è anche la capitale regionale della marijuana, ma ne verrò a conoscenza giorni dopo.

Villaggio nella steppa, con moschea bianca dai tetti blu.

Giungo ad Almaty dopo diciassette ore. Mi trascino a stento in albergo e vi resto fino a sera, quando invece dovrei essere allo Stadio Centrale, a duecento metri dalla stanza, per assistere dalla Tribuna Distinti all’amichevole fra il Kairat Almaty e lo Zenit San Pietroburgo: sí, la squadra di Gazprom e di Vladimir Vladimirovič Putin. Ho acquistato il biglietto online, nella prima notte insonne causa jet-lag; ho sbagliato a scrivere il numero della SIM locale, e non ho piú ricevuto alcun codice, nonostante solleciti via Telegram. Ben mi sta, involontario vatnik.

Ingresso dell’Орталық стадион.

A proposito: in lettura di Trans Europa Express, il resoconto del viaggio compiuto da Paolo Rumiz quasi vent’anni fa a zigzag sulla frontiera fra l’Unione Europea e la Federazione Russa. Le critiche all’allora “amico Putin” non mancano, ma quelle all’UE sono molte di piú, anche per questioni di stretta competenza nazionale, e i Russi sono sempre descritti come buonissimi e intelligentissimi. Rumiz vuole la Frontiera per un afflato romantico; i nomadi delle steppe non sapevano cosa fossero, le frontiere, prima che da queste parti arrivassero i Russi a imporle. Viaggio compiuto nel luglio 2008, resoconto pubblicato nell’ottobre 2012, si chiude con il presagio messo in bocca a un uomo di Leopoli, secondo cui l’avvicinamento dell’Ucraina all’Occidente spaccherà il Paese e porterà alla guerra: la versione dei rossobruni dal febbraio 2022.

Stampa fotografica della stretta di mano fra i sorridenti Vladimir Putin e Nursultan Nazarbaev nell’ottobre 2008; nel vetro della teca si vede il riflesso del fotografo (il fotografo della teca con la stampa, s’intende).

Il giorno seguente mi trascino al terzo piano dello storico centro commerciale TsUM, primo in Kazakhstan, ad acquistare i suveníry d’obbligo. Il piano terra è affollato di banchetti che vendono accessori per cellulari e cianfrusaglie simili. All’esterno un uomo vestito da Colonel Sanders concede una finta intervista per promuovere un ristorante della catena KFC. Causa bronchite da maltempo e da smog, in una аптека compro dieci aspirine generiche e le pago 90 KZT, al cambio sono 17 eurocent. A un banchetto improvvisato un’anziana vende cactus e succulente che non potrei importare in Europa.
Sto lasciando crescere la barba. Già quattro commercianti o locali incrociati per strada mi hanno chiesto se sono turco, o qualcosa del genere. A volte rispondo che sono italiano, e sorridono. A volte rispondo che vengo da Чехия, e li sento esclamare: «Ah, Чехословакия

Murale raffigurante una famiglia in costumi tradizionali: padre, madre con bambino in braccio, neonato in culla.

© Somorgue & Raukabass.

Internet explorer #41 ·

In occasione del primo anniversario dell’attacco terroristico di Hamas nel territorio dello Stato d’Israele, ogni organo di stampa occidentale vi ha inviato un giornalista a descrivere la situazione e i cambiamenti nella società ebraica. Con poche sfumature dovute alle opinioni politiche, tutti gli articoli che ho letto raccontano di una cittadinanza traumatizzata e incupita, che critica il governo Netanyahu per la forma dell’azione ma non per la sostanza dell’azione, e che vuole una totale segregazione dai/dei Palestinesi.
Pochi mesi fa notavo che anche gli intellettuali “di sinistra” facevano fatica a riconoscere le ragioni dell’altra parte, e che anche i piani di pace costruttivi e “illuminati” prevedevano una sostanziale separazione delle vite dei due popoli: ora l’empatia sta a zero, e l’odio è radicalizzato.

  • Il Foglio › A un anno dal 7 ottobre, gli israeliani guardano in faccia il trauma e ritrovano l’unità, di Micol Flammini.
  • The Guardian › How Israel has made trauma a weapon of war, by Naomi Klein.
    It is in this context that some of the most fraught debates this past year in the anti-war camp have been over the politics of mourning, producing a novel and painful lexicon of grief. While many (including me) openly grieved the Israeli civilians killed in the 7 October attacks, many also pointed out that Palestinian lives are systematically treated as “ungrievable” (invoking a phrase from Judith Butler). In contrast, Israeli lives are, in the words of the historian Gabriel Winant, “pre-grieved”, because “an apparatus is already in place to take their deaths and give them not just any meaning, but specifically the meaning that they find in the bombs falling on Gaza.”
  • Wired Italia › Israele, che aria si respira a un anno dall’attacco di Hamas, di Paolo Mossetti.
  • Il Post › Ritorno in Israele, per vedere com’è cambiato, di Anna Momigliano.
  • New Lines Magazine › Searching for Hope in the Wake of October 7, by Lisa Goldman.
    There was an elephant-in-the-room silence about all this among beloved old friends who historically identified with the liberal left of the 1980s and 1990s, of Peace Now and Meretz, the far-left Zionist party that received so few votes in the last election that it didn’t cross the electoral threshold. This generation, for whom the assassination of Yitzhak Rabin in 1995 was the defining event, were Israel’s traditional liberal elite — secular, highly educated, well traveled, fluent in English, culturally sophisticated. But their Achilles’ heel was their inability to recognize Palestinian collective rights, even as they believed strongly in the individual rights of all people, including Palestinians. Now they were feeling betrayed by Palestinians, convinced that most or perhaps all had celebrated Hamas’ brutal attack.
    Samer was an old-fashioned Arab liberal. Secular, urbane, cosmopolitan, seemingly detached from political ideologies, he was always kind and warm. Everyone liked him. For years, he said, he’d told his Arab colleagues that they should really see Tel Aviv, that it was the cultured, secular city that represented a future for the Middle East, a place of cafes and intellectual conversations between people who were connected by ideas and interests rather than partisan ideology. “But I can’t tell them that anymore,” he said. I guess the hope for a meeting of minds between secular Jewish liberals from Tel Aviv and Palestinian liberals from Ramallah is over, I said. Yes, he answered. It’s over.

Simili sentimenti si estendono alla comunità ebraica nella Repubblica Ceca, il cui governo è fra i piú strenui difensori delle operazioni militari israeliane a Gaza e in Libano. La comunità palestinese in Cechia invece è costretta a osservare impotente, ed è oggetto di atti d’islamofobia.

Mentre tutti gli occhi sono puntati su Gaza e sul Libano, dove le operazioni militari hanno il facile pretesto di combattere Hamas e Hezbollah, passa inosservato ciò che succede in Cisgiordania, dove i coloni attaccano i civili palestinesi con la connivenza e la protezione dell’esercito.

Nella società israeliana l’arretramento della sinistra liberale ha lasciato campo aperto all’avanzata della destra religiosa.

E il diritto alla difesa dello Stato d’Israele scivola nei crimini di guerra e nei crimini contro l’umanità.

  • Haaretz › If It Looks Like Ethnic Cleansing, It Probably Is.
    Editoriale: Israel is sliding into ethnic cleansing; its soldiers are carrying out the criminal policies of the messianic, Kahanist right; and even the opposition on the center and center-left isn’t making a peep. This consensus behind ethnic cleansing is shameful, and every public leader who doesn’t demand an end to the de facto expulsion is supporting this crime and has become a party to it.

Sono passati trent’anni ·

Al Moccagatta, quella domenica, si doveva giocare Alessandria–Bologna di Serie C1.
Sulla regione pioveva con intensità da una settimana. Benché il Tanaro fosse esondato ad Alba venerdí e ad Asti sabato mattina, nessuno ci aveva avvertito del pericolo: né le televisioni ora cosí allarmiste, né la Protezione Civile del sottosegretario Franco Barberi. Mia madre tornò a casa dal lavoro alle 11: un’ora dopo l’acqua avrebbe invaso il pronto soccorso e i sotterranei dell’ospedale appena evacuati. Fu Gianfranco Bianco, nel TGR delle 14, a dare la notizia che a San Michele, nel Borgo Cittadella e nel quartiere Orti il fiume aveva «rotto gli argini»: un’espressione che non dava l’idea del disastro che si era compiuto.
Il Tanaro portò via le case, i negozi e le fabbriche dei sobborghi, restituendo alla città tredici cadaveri. La Bormida fu piú clemente, fermandosi nei campi a pochi metri dal quartiere dove allora abitavo.
Io e mio padre uscimmo nel pomeriggio. Chiusi all’altezza di via Claro e di corso Cavallotti gli spalti erano allagati, cosí come il centro storico imbrattato dal fango e dal petrolio fuoriuscito dalle cantine. La stazione era al buio, i collegamenti ferroviari interrotti, i controlli assenti. Camminammo sulle rotaie fino al ponte della linea per Torino, e restammo a distanza con operai che osservavano le oscillazioni. Appena sotto scorreva il fiume, scuro e veloce. Erano le sei di sera e non si vedeva altro che acqua.

Radio Gold ha messo online l’archivio audio delle trasmissioni del 6 novembre 1994, e un video.

Brainblogging › Sono passati dieci anni, 06/11/2004.

Lo stadio Giuseppe Moccagatta riaprí a gennaio per la partita contro la SPAL.

Nei trent’anni seguenti c’è stata una dozzina di altre alluvioni d’inferiore portata.

Il ponte Cittadella è stato abbattuto, ed è stato sostituito dal ponte detto Meier.
Le casse di espansione del Tanaro a monte della città non sono mai state costruite. Il secondo ponte sulla Bormida non è mai stato costruito.
La cementificazione delle aree golenali non si è mai fermata, a prescindere dal colore politico delle giunte comunali.

Oggi Il Piccolo, giornale locale, con il contributo di diversi finanziatori istituzionali, ha messo online un memoriale dell’alluvione del 1994.
RadioGold, radio valenzana che in quei giorni compí una meritoria opera d’informazione, ha pubblicato su Instagram una serie di reels.

Sul greto del fiume Tanaro in secca, sotto il vecchio ponte Cittadella.

Trust ·

[Drafted in a hotel room in Astana.]

Statue of a female figure in traditional kazakh clothes, with a typical string instrument in her hands.

“Astana” wearing a köylek and holding a dombra.

In front of this statue I thought of a woman whom I saw a few times during this year’s Swell Season.

The first time I asked her out, initially she seemed pleased, then other thoughts got into her head and she made quite a fuss about nothing, so I let it drop.
The second time I asked her out, after some time – I was acting on a hunch, as I was deep into the Swell Season – I was even surprised that she said yes. I ended up disappointing her by not following some cues about timetables and misunderstanding others, or something. After all I am a man, I need unambiguous directions from the woman on these matters.
The third time I asked her out, a few weeks later – towards the end of my Swell Season – I was again surprised that she said yes. I made up for her original disappointment and we had a nice evening together, at the end of which it was crystal clear that she has no interest in me at all. That’s fine. We exchanged a couple of good-night texts and that was the end of it.

That evening she expressed two conflicting desires: that of an “alpha man” who can dominate her, and that of “a man she can trust”. I say that they are conflicting because I would consider the “alpha man” to be selfish and undependable by definition. I told her with a straight face that I am a “gamma” at best (that was towards the end of the evening, when the lack of interest on her part was already clear). She laughed, then she responded that I am “a man she can trust” – which I found slightly demeaning.
«Ahah, you have been friendzoned!», my 2.5 readers will say. Not really: we are not friends, we barely know each other, and I don’t expect that we will engage in friendship in the future. It was more like that in my presence she didn’t feel the need to put up any emotional defence. Why?

S***** once told me: «You have too many female friends». She was speaking out of bitterness, but I took her remark as a badge of honour. After a while I got to understand the downsides. Still it is one of my favourite traits: I get along very well with the female gender.
But why would I inspire trust in someone who doesn’t know me on a personal level? Is it because I am not physically threatening? («Would you rather be stuck in the woods with a bear or with Massi?») Is it because I don’t make my intentions clear enough? («I find you attractive and I want to do unspeakable things to your body.») Or is it because of something else entirely?
I wonder, because in the past I mistreated other women the same way that other men have mistreated her. If she wants an alpha man and/or a trustworthy man, well I am neither.

– I gotta go, gonna think about that. // – She’s 50/50!

As an aside: I make her laugh a lot, although or because she doesn’t understand my humour. If that old cliché were true, that women like men who make them laugh, I would not just be Woody, I would be Rocco.

Kazakhstan /4 una Dubai della steppa ·

Sull’autobus verso l’aeroporto di Almaty, alla mia richiesta di «bilet ОҢАЙ» l’autista mi fa un segno e non prende i miei tenge; scendo.
Sull’autobus verso l’aeroporto di Almaty, alla mia richiesta di «bilet ОҢАЙ» l’autista prende i miei tenge e non stacca il biglietto; in periferia fa salire una donna che gli porge il pranzo. All’incrocio seguente una giovane veste una maglietta con i Quattro Mori e la scritta “Sardegna”.

All’aeroporto di Astana, l’autista del taxi concordato con l’albergo mi attende con questo cartello:

Foglio A4 dentro una busta trasparente perforata, appeso con tre chiodini colorati a una superficie in panno blu, con scritto: «Массимилиано Фаринетти».

Ora appeso in ufficio alla mia scrivania preferita, e guai a chi ci si siede.

Astana è una città in costruzione: grattacieli ricchi, grattacieli poveri, per chi poi? Le strade a cinque corsie vogliono dare un’idea di America, quella triste tutta asfalto e cemento. Stridono i cartelli pubblicitari dei Giochi Mondiali Nomadi che si terranno qui la settimana successiva.
Altro albergo, altre ragazzette che non capiscono l’inglese: se elbasy Nursultan Nazarbaev voleva mettere il Kazakhstan al centro del mondo, si è dimenticato di far insegnare la lingua franca mondiale ai suoi cittadini.

Ponte Atyrau visto dall’interno, con la copertura a scaglie a somiglianza di un pesce.

L’albergo è sul lungofiume, dove il fiume è l’Išim che confluisce nell’Irtyš che confluisce nell’Ob’ che si getta nel Mar Glaciale Artico, là dove finiranno le mie deiezioni. Mi par di capire che questo sia il nucleo della città, quando Akmolinsk Tselinograd Akmola Astana Nur-Sultan Astana non era ancora il parco giochi di un semi-dittatore. Fa freddo (è la seconda piú fredda capitale al mondo) e comincia a diluviare. Oltre il ponte-storione m’infilo in un ristorante che è l’epitome del premium mediocre: serve la prenotazione ma il locale è vuoto, mi squadrano e mi fanno sedere; una tavola è imbandita come per un banchetto nuziale; la filodiffusione suona una playlist di cover di canzoni anni Sessanta in chiave latina, e successi radiofonici moderni in arrangiamenti da discoteca commerciale. Could be anywhere. Il tè è eccellente.

Tavola imbandita con una teiera piena di liquido ambrato, fette di limone, foglie di menta e spezie in infusione; accanto, un bicchierino decorato e una zuccheriera.

Sul resto della città rimando a un reportage del 2012 sulla rivista National Geographic, e a un post del 2018 sul blog di viaggi Pain de Route.

Torre Bayterek vista dalla base.

Incontri internazionali: un gruppo di atleti -stani sul ponte Seruen, turisti in attesa dell’inizio dei Giochi; un ragazzino kirghizo di nome Rinat sotto il bandierone, volontario ai Giochi; uno sposalizio kazako-scozzese sotto la torre Baiterek; l’addetta al punto turistico dentro la torre che mi ha scattato una foto; due wannabe-influencers fuori dalla torre che mi hanno intervistato per promuovere un bubble tea che ho rifiutato.

Composizione di due vedute della città dalla torre Bayterek.

Scontro nazionale #1: all’area del palazzo presidenziale si accede passando per un checkpoint informale dove staziona un soldato; mi presento come turista, gli faccio capire che voglio fare fotografie, mi fa capire che non posso avvicinarmi piú di tanto alla cancellata del palazzo distante un centinaio di metri; mi fermo sulla linea gialla nella pavimentazione a metà dello spiazzo, mi volto a guardarlo, mi fa cenno che va bene; subito giunge un altro soldato che abbaiando m’intima di tornare indietro; per carità, chi se lo fila il vostro presidente.

Centro commerciale Khan Shatyr.

Il vero palazzo presidenziale di Astana è il centro commerciale Khan Shatyr disegnato da Foster and Partners.

Scontro nazionale #2: cammino lungo il marciapiede di un viale ad alto traffico; il marciapiede s’interrompe per una decina di metri all’uscita di un parcheggio; attraverso; un SUV bianco con tutti i vetri oscurati arriva, non si ferma anzi accelera, mi passa a un millimetro dalle scarpe, s’immette nel traffico; non ho finito d’insultare l’autista – o un governativo o un mafioso – che mi accorgo di aver impattato la prima nocca dell’anulare destro contro lo specchietto retrovisore; il dito non è rotto perché posso muoverlo e non fa male, il gonfiore passerà da sé dopo aver visitato due parafarmacie che non vendono ghiaccio secco (in ceco: led; in russo: лёд).

Na šikmé projekci linie projasnění v palm. porci base stř. článku 4 prstu,
dle rtg susp. abrupce, bez dislokace, v AP projekci bez zřetelné lomné linie v dané oblasti.
Jinak normální postavení kloubních členů zápěstí a ruky.
Kontury kloubních ploch jsou ostré, kl. štěrbiny bez zúžení.
Bez strukturálních změn na zobrazeném skeletu.

Vyšetření dei rentgen fatti al ritorno. Potevo rimanere seriamente offeso!

Parco cittadino dall’aspetto desolato sotto un opprimente cielo grigio: la vegetazione è abbandonata, le panchine sono rovinate, la pista ciclabile è impraticabile, il canale è in secca.

Ad Astana in due giorni dovrei aver camminato una maratona.
Ci dev’essere ancora del bello ad Astana, come quella fanciulla di etnia russa, bassina dal culo tondo in pantaloni blu, che mi ha sopravanzato sul lunghissimo ponte Arys, e poi si è fermata in un’aiuola di un viale sotto un viadotto in costruzione a raccogliere erbette pisciate dai cani e irrorate dal pulviscolo di ferro.
Ci dev’essere ancora del bello ad Astana: non le finte yurt, disseminate nei parchi cittadini, opposte ai grattacieli iperstanziali in edificazione, grattacieli miseramente vuoti e spenti all’ora del tramonto; né certamente la stazione ferroviaria, al limitare dei megaquartieri turbocapitalisti che si stanno mangiando la steppa.

La stazione Nurly Zhol alle prime luci della sera, dietro il viadotto in costruzione.

Internet explorer #40 ·

FC Zbrojovka Brno › Čestmír Vycpálek.

Il pallone racconta › Čestmír Vycpálek.

Progetto Repubblica Ceca › Vycpálek, il figlio adottivo del calcio italiano, di Alessandro De Felice.

Letterature Nordiche › Letteratura ceca in traduzione italiana, di Riccardo Marmugi.

The Guardian › Who keeps Europe’s wealthy west going? Underpaid, invisible migrants from its east […], by Saša Uhlová.
A series of articles depicting the Czech journalist’s undercover experience as a worker in low-skilled jobs in Western Europe. Earlier this year I watched the documentary on the same experience, directed by Apolena Rychlíková.

The Guardian › The shapeshifter: who is the real Giorgia Meloni?, by Alexander Stille.

The New York Times Magazine › The Deserter, by Sarah A. Topol, Elinor Carucci and Daria Mussienko. 🎁

The Diplomat › The Latinization of Kazakhstan: Language, Modernization and Geopolitics, by Aziz Berdiqulov.

The Astana Times › Turkic States Revive Latin-Based Alphabet to Preserve Linguistic Heritage, by Nagima Abuova.

The New York Times Magazine › Why France’s Most Controversial Novelist Is Also Its Most Celebrated, by Wyatt Mason. 🎁

Charity.wtf › How Hard Should Your Employer Work To Retain You?, by Charity Majors.
No, I don’t plan to leave my job any time soon. But how hard should I work to retain an employee who plans to leave?

Meditazioni estive ·

Václav Havel è per me un soggetto strano.

Come autore teatrale non lo conosco affatto. In politica è stato un teorico interessante, ma un dilettante nella pratica: eroe della transizione pacifica dal totalitarismo alla democrazia, piú amato all’estero che in patria, non ha lasciato né eredi né eredità.
Nelle Letní přemítání dell’agosto 1991 – il suo programma civile per la costruzione di uno Stato “spirituale” non-ideologico – ha scritto tutto e il suo contrario. In una pagina è liberale, nell’altra chiede poteri speciali per il presidente (lui medesimo); prima è democratico, poi si lamenta della dittatura dei partiti e invita a votare le persone concrete come un moderno grillino; qua si professa socialista, attento ai piú deboli, là prende gli Stati Uniti come modello. Molte idee, spesso confuse.
Utopista e visionario, dopo trent’anni ben poche delle sue utopie e visioni si sono compiute. Lo Stato cecoslovacco che presiedeva si è dissolto nel giro di qualche mese. Pravdoláskař è un bonario insulto, e quella attuale non è la Cechia di Václav Havel ma la Cechia di Václav Klaus.

Vabbè, in un’era in cui coloro che si candidano a cariche pubbliche sono scatole riempite secondo gli umori popolari del momento, nient’altro che vuoti a rendere, per un Václav Havel animato da puro spirito farei campagna elettorale porta a porta.

Ricopio due estratti dal libro, due brevi e semplici incisi in piú articolati pensieri, che però hanno ripreso rilevanza odierna.

Il primo, su un certo complesso provincial-periferico che per la Slovacchia valeva ieri nella Cecoslovacchia e vale oggi nell’Unione Europea, e che si dovrebbe tenere a mente quando si considerano gli equilibri di potere fra Stati-nazione (specie se minori) ed entità sovranazionali:

[S]i tratta di un’avversione abbastanza comprensibile da parte degli slovacchi che il governo sia situato altrove che non da loro. Infatti nel corso della loro storia il governo è sempre stato altrove (salvo l’eccezione nefasta del periodo dello Stato slovacco [•]). E via via acquistando coscienza della propria identità nazionale, il fatto ha cominciato a dar loro sempre più fastidio. […] Per molti di loro è meno importante se sono governati bene o male, con la loro partecipazione o senza di essa, con riguardo ai loro interessi o senza, che non il semplice fatto che il governo sia altrove. […]
Questo sentimento slovacco […] sarebbe probabilmente immutato nella sua sostanza anche se la capitale del potere centrale fosse Budapest, Varsavia oppure Bruxelles […].

  • Lo Stato clerical-fascista (1939-45) retto da monsignor Josef Tiso, creato sotto la protezione di Hitler dopo l’occupazione tedesca dei Sudeti.

Václav Havel – Meditazioni estive, 1991. Traduzione di Cristina Bongiorno e Martin Švehlík, Feltrinelli, Milano 1992.

Il secondo, su un tema in cronaca da due anni e mezzo…

[La NATO] non si sta preparando a invitare nessuno, tanto meno uno degli ex membri del Patto di Varsavia. In proposito ha i suoi buoni motivi tra cui anche quello di essere ben consapevole di come tuttora viene vista da molti politici sovietici e quale reazione potrebbe suscitare un suo avvicinamento alle frontiere sovietiche. (Dal punto di vista puramente strategico-militare questo tipo di ragionamento sovietico contiene anche una parte di logica: nessun Paese vedrebbe di buon occhio di essere accerchiato da un potente patto in cui esso non può entrare a far parte.)

Václav Havel – op. cit.

… per cui oggi finirebbe defenestrato dal Castello.

Kazakhstan /3 il posto delle mele ·

Sul volo Istanbul–Almaty faccio fatica a prendere sonno. Mi sveglio definitivamente passato il Caucaso, e mi metto a guardare dal finestrino le luci delle città delle cinque repubbliche-stan dell’Asia Centrale. Almaty è l’ultima ad apparire, giusto all’alba, là dove termina l’altipiano, cinta da una quinta di montagne innevate.
Sull’atlante di quando andavo a scuola, quando l’Unione Sovietica era non storia ma geografia, Almaty aveva ancora il toponimo di Alma-Ata. Nelle lingue turche alma significa “mela”, e in tutta l’area si trovano meleti selvatici che fanno pensare che pianta e frutto siano nati qui.

Installazione col simbolo della città: il nome in cirillico “Алматы” dentro una mela-cuore rossa su un prato verde.

All’aeroporto attendo invano il taxi che avevo concordato con l’albergo, albergo scelto per il servizio taxi dall’aeroporto. Il traffico mi ricorda quello di Città del Messico, non tanto per il volume quanto per la frenesia inutile; piú delle auto sono pericolosi i monopattini elettrici. Le case basse e mal tenute, con le inferriate alle finestre e i tetti di lamiera, contribuiscono ad associare nella mia mente le due metropoli. In albergo le tre receptionist che si avvicendano per me – unico cliente – parlano inglese come io parlo russo, e ora capisco le difficoltà di comunicazione che abbiamo avuto via e-mail.

Statua brutalista in cemento di una figura femminile a braccia alzate che tiene in mano una sciarpa e un uccello, con un drappo raffigurante una scena di scontri fra soldati e popolo che si dispiega ai suoi fianchi come due ali.

Timur Suleimenov – Tauelsizdik tany (“L’alba della libertà”), 2006, particolare.

Entro nella grande sede di una banca in piazza dell’Indipendenza, prendo il tagliandino e siedo come un bravo cliente. Quando è il mio turno vengo accolto nell’area VIP separata dalla plebaglia. Alla bancaria dietro il vetro spiego in inglese e in ceco che voglio cambiare euro in tenge, e prima che vada in tilt le porgo il passaporto e il contante. Si consulta con le colleghe, poi tramite Google Translate mi fa sapere gentilmente che devo aprire un conto con il manager della filiale. Mi profondo in accorati ringraziamenti e me ne vado a cercare un ufficio di cambio.

Sulla sinistra, un edificio con facciata in cemento e vetro, sormontato da un’insegna azzurra con il medesimo motivo grafico della bandiera nazionale. Sulla destra, una fontana a scalinata. Lontane sullo sfondo, una torre e delle montagne innevate.

La città è davvero grande e ha larghi viali alberati che non rimandano necessariamente alla tradizione sovietica. Il cielo è terso e c’è una luce da cartolina in technicolor che è sprecata a illuminare palazzi in sé poco appariscenti. La quinta di montagne innevate che cinge Almaty a est e a sud è ciò che la rende interessante al turista. Dalle montagne scendono torrenti intubati nel sottosuolo che riaffiorano qua e là come canali; le numerose fontane riprendono il tema dell’acqua, benché in forma urbanizzata.

Torrente d’acqua stretto in un canale largo pochi metri, dietro una ringhiera con decorazioni in ferro.

Il Kök Töbe (“montagna verde”) è un parco naturale, trasformato in parco giochi per i piú abbienti della città. Si arriva in cima in sei minuti con una funicolí funicolà le cui cabine – dette gondola – sono state costruite in Italia. La vista sullo smog che sovrasta la città è spettacolare, le attrazioni sono quelle di un luna park, i bambini sono pochi. Non sono l’unico turista, non sono neanche l’unico turista occidentale, però non penso che radunati insieme riempiremmo un autobus. Nella fontana in bronzo in granito a forma di mela getto una moneta da 50 Kč. Non so quale desiderio esprimere.

Veduta del Kök Töbe da una cabina: la funicolare con i piloni, i cavi e le altre cabine, e la torre della televisione. Sullo sfondo, le montagne innevate.

Scendendo a valle, lungo i canali che gorgogliano nel traffico, si giunge al parco della Cattedrale dell’Ascensione. All’interno del parco si trova un trittico di opere imponenti, del genere che non avevo fatto in tempo a vedere a Berlino, dedicate ai caduti sovietici nel 1917–1920 (ehm…) e nel 1941–1945 (OK). Accanto c’è una statua ai soldati almatini caduti in Afghanistan negli anni Ottanta, il cui sacrificio – si legge sulla lapide – ha permesso alle loro nipotine di godere della libertà di filmare i balletti per TikTok sotto la statua stessa. Come a Gerusalemme, a Belgrado e a Costanza, anche ad Almaty la cattedrale (russo-)ortodossa ospita fedeli callipigie impegnate a baciare le icone. Qualcuno dica due paroline a Jorge Bergoglio perché cambi all’uopo la liturgia cattolica.

Facciata di una chiesa, decorata con multipli frontoni e altri elementi estetici in sovrappiú.

Il Kök Bazaar (“mercato verde”) è un mercato coperto che vale il Mercato Orientale di Brignole: il naso si riempie di odori e gli occhi di colori e la bocca di baursaki appena fritti. Non vado matto per le pietanze locali a base di carne, ma sui prodotti da forno io e i Kazaki ci intendiamo. Non per caso la Moschea Centrale si trova nei paraggi. Non mi azzardo a varcare la soglia e disturbare gli uomini in preghiera e sottomissione, chi piú chi meno vicino al mihrab i cui colori sono i medesimi della bandiera nazionale. Alle donne è riservato un ingresso secondario, perché Maometto e i suoi seguaci già conoscevano il potere distraente delle fedeli callipigie. Intorno alla moschea, i mendicanti accettano l’elemosina anche via codice QR. Allah veste la “L” e gli va giusta.

Facciata di una moschea con tre minareti visibili, con motivi decorativi ed elaborate iscrizioni in arabo.

Il resto è – scusami, Saltanat – il cosplaying di una metropoli occidentale senza una propria identità.
Il centro è una sequenza di bar e negozi, perlopiú catene, in tutto identici ad altri che si possono trovare ovunque. I corsi d’acqua che fluiscono lungo le strade alberate sono il suo segno distintivo, la connessione della città al suo ambiente naturale. Ma non mi sono levato l’impressione che la città stia tentando di modellarsi secondo uno stile di vita straniero, soltanto perché quello stile di vita appare ricco.
Quel che tiene viva Almaty è forse la ricca presenza studentesca (cfr. Brno). A ogni angolo, il visitatore che trovi piacere nelle figure femminili con zigomi alti e ampi, gli occhi a fessura, e quella che in piemontese viena detta buchéla, be’, quel visitatore sarà a ogni angolo soddisfatto. Ahimè, non questo visitatore.

Scritta nella fermata della metropolitana: «Байқоңыр бекеті».

«Ladies, guess where I am?»

Multilingualism in a global Web ·

Questo è il mio contributo al tema mensile dell’IndieWeb Carnival, suggerito da Riccardo Cazzin alias ZinRicky: “multilinguismo in un Web globale”.
Techies can skip the autobiography and just read the nerd stuff at the bottom of the article. Přeju vám příjemné čtení. Au revoir!

I was born in a bilingual family: between themselves, and in their home village, my parents speak Piedmontese; with me, and with strangers, they always speak Italian. At best I am a passive listener of our regional language, which is unlikely to survive past my generation.

When I attended primary school, no foreign languages were part of the curriculum. In third grade I had the lucky chance to be signed up for an optional English course, where the teacher was a cousin of my father’s. I learnt some basics, and at the end of that I remember performing in some kind of play in front of an audience.
When they enrolled me to middle school, citing that one course, my parents demanded that I joined a form with English, not useless French, as the second language. The teacher who took their request happened to be the English teacher of that school, my dearest of all.
Then I attended high school in the late ‘90s, which meant Cool Britannia, MTV, and the World Wide Web.

At the very end of 1999, on my 17th birthday, I published my first vanity website: Massimiliano sul Web.

Fast-forward twenty-five years: after a brief stint in Scotland, I am now an expat an economic migrant in the Czech Republic, where I work for an American company. I wake up and the thoughts in my head are mostly in Italian. I take the šalina surrounded by people talking in Czech. In the office I speak English with the locals, and in calls also with Malaysians, Indians, Europeans of all sorts, Brits, Mexicans, and Americans of all accents. I used to deal with French customers, mixing up their language I eventually learnt in high school with my familiar Piedmontese. Working in teams with lovely colleagues I have absorsed some Slovak and some Spanish, which in recent travels I pretended to understand.

I am quite proud of my language-juggling skills.

Since that first vanity website I have been a natural-born blogger, although intermittently.
In the two previous private “expat blogs” I kept, Cicely, Scotland and Moravian Like You, both on Blogspot, I wrote in Italian because Italian was my only readership: my parents, my friends, other people I had left behind. When I felt again the urge to have a public digital identity, back to my own domain, and I opened the Virtualia? you are now reading, it came natural to employ all the languages I know, all at once.

I tend to use each language based on the subject I am treating and on the ideal readership I am addressing. These pages are first and foremost a diary, and Italian is my mother tongue, therefore most content is in Italian. Commentary on entertainment media and on current events may be either in Italian or in English. This article is written for a global audience, that is why I am writing it all in English. The ongoing series about my recent travel to Kazakhstan is in Italian, with the exception of the open letter I wrote to some people I got to know there; the series about my old trip to Jerusalem is in English, because it has been a talking point with international friends I have here. Other random articles are in Czech or in French, as an exercise or to attract someone’s attention. Sometimes I quote words in languages other than the four I speak. Sometimes I employ different languages in the same paragraph or even in the same sentence, purely as means of personal expression.


So what is the language attribute of my Virtualia?

<html lang="mul">

Actually it was eo, the ISO 639-1 code for Esperanto, until a few minutes ago, as a joke because I just couldn’t choose which primary language to declare. it for Italian would cover most content, as I wrote above, but not everything. mul comes from ISO 639-2 and denotes instead that multiple languages are used, which sounds appropriate. Yet I assume that applying the mul code to documents has the same practical effect in browsers and in screen readers as not applying any.
Should I care? Is language still necessary information to provide? The dominant search engine uses algorithms to categorise documents based on their actual content. I don’t rely on the browsers’ features to generate the punctuation (e.g. hyphens and quotation marks) of my own text. I admit ignorance about screen readers, and I wonder to what extent they can adapt to different languages on the fly.
Also I am aware that the language attribute cascades, that I could apply a different one to any HTML element, and that I could wrap words in span tags where needed; but I have been typing all these bytes by hand, can you imagine the effort?

I can imagine the effort. One day I started to apply language attributes to my Virtualia? retroactively, then I went out and touched grass.

Screenshot from the W3C HTML Validator, with a warning message for my homepage: «This document appears to be written in English but the html start tag has lang="mul". Consider using lang="en" (or variant) instead.»

Today Riccardo published a round-up post about the twenty-two entries to the October carnival.
A note to my future self: the colours that he refers to are the ones on my light-mode palette.

¡Oh, Viena! ·

Terza gitarella a Vienna, a far da Instagram husband a Jessica e Karem; tre dei trecentomila visitatori della Lange Nacht der Museen.

Copricapo azteco dalle sgargianti piume verdi in una teca nera.

Weltmuseum: el Penacho de Moctezuma.
«¡Todos los Mexicanos en Europa están aquí!»

Dipinto di una donna dai tratti asiatici che tiene in mano una bara. La bara è un collage di fotografie di cadaveri. Lo sfondo è un collage di fototessere ritagliate dai passaporti dei morti.

Weltmuseum: Hit Man GurungMom Has a Tragic Story (I Have to Feed Myself, My Family and My Country… #1), 2013.

Graffiti e murali presso la navestazione Vienna City.

Semper, semper memento.

Piazzetta all’incrocio fra Tulpengasse e Wickenburggasse, alla luce dei lampioni.

Josefstadt bei Nacht.

Scritta nera su muro bianco panna: «AHA!»

Sigmund Freud Museum: Haim SteinbachAHA!, 1997.
To say ‘aha’ is to acknowledge ‘I hear you.’

Tourist ·

À Martine, qui va suivre son rêve européen.

There is an episode in the second season of Parks and Recreation (my fav comedy series) in which one main character describes a temporary love interest of the female protagonist in these words: He’s a tourist. He vacations in people’s lives, takes pictures, puts them in a scrapbook and moves on. All he’s interested in are stories. He goes on to say that the guy is selfish, and that is why she doesn’t like him.

Amy Poehler as Leslie Knope and Nick Offerman as Ron Swanson in an episode of Parks and Recreation, sitting at a table at a party in a sombre mood, with him speaking and caption: «He’s a tourist.»

Well, what if we all learnt a little how to be selfish altruistic tourists to other people?
Very few relationships last forever. People will always come and go, in and out of our lives, as if in revolving doors: schoolmates, colleagues, friends, lovers, spouses, sometimes even parents and children. They will come. We will form bonds. We will take from them the most we can; we will give to them the most we can. We will fall apart. They will go. Then we will start from scratch with others.

Accept impermanence. Don’t strive to “stay in touch”. Let them go.

Kazakhstan /2 VIE→IST (→BEY) ·

Sul breve volo Vienna–Istanbul siedono accanto a me due ragazzini che battibeccano come Cem e Yağmur in Türkisch für Anfänger. Parlano una lingua gutturale che può tranquillamente essere turco, con una curiosa inflessione che mi ricorda il francese. Durante rullaggio e decollo la femmina prega a mani giunte e unghie pittate.

Sono l’unico sull’aeromobile a indossare una mascherina. Il maschio mi chiede se ho la COVID, poi si mette a guardare ad altissimo volume un video animato in inglese che spiega come una certa ragazza non abbia un interesse affettivo verso un certo uomo. Piú tardi egli si rivolge allo steward turco in inglese. Incuriosito dalle discrepanze glottologiche, gli chiedo il permesso di fargli due domande. «Fammene tre!»
Che video stava guardando? Un riassunto di un libro che sta leggendo per la scuola, mi mostra il file PDF: è Fahrenheit 451 di Ray Bradbury, non gli piace, mi legge un passaggio che alle sue orecchie suona strano. Gli dico che è un romanzo degli anni Cinquanta del secolo scorso e che è scritto con una sensibilità diversa dalla nostra, c’è anche un film, può guardare quello, ci sono tutte le scene-chiave, ma è altrettanto lento, forse è meglio se resta su YouTube.
E da dove vengono, lui e sua sorella? «Dal Libano!» Ascolto con attenzione nel frastuono dei motori: non parlano una lingua mediorientale con una curiosa inflessione francese, parlano francese con consonanti gutturali!

All’atterraggio la femmina si fa piú volte il segno della croce.
Ramy e Sara, che la pace sia con voi e con la vostra terra.


All’aeroporto di Istanbul, suq contemporaneo, ci sono i cessi alla turca: il viaggio è omologato.

Cartello con l’icona di un uomo con un piede in un lavandino, sbarrata da un simbolo di divieto, e un’avvertenza in turco, in inglese e in arabo.

Per favore usate le stanze di preghiera per fare le abluzioni. Per favore non usate i bagni per fare le abluzioni.

Kazakhstan /7 mixed feelings ·

Avrei dovuto scrivere questo post, in italiano, al termine della serie sul viaggio in Kazakhstan, ma Gaukhar di Dostar Trips mi ha chiesto via e-mail perché ho “mixed feelings” sul suo Paese, quindi ecco il post in anticipo e in inglese. Sorry.

Dear Gaukhar and Katya, and Saltanat too,

before my journey I knew almost nothing about your country; not that I know too much about it now… Alexandre Vinokourov and the Astana cycling team. The Baikonur cosmodrome. The Aral sea. Alma-Ata as the capital of the Kazakh SSR (just the catchy name, a dot in the atlas).
I am old enough to have studied the Soviet Union at school – in Geography class, not History – and to have seen it dissolve, but I had never been to any of its constituent republics, nor to Central Asia in general. Kazakhstan was off my radar until Saltanat did a presentation at work, and I thought it would be an interesting destination for a long vacation (she deserves a recognition from your ministry of Tourism).

What were my expectations? Well, I am not sure I even had any. I was attracted by the country’s placement “off the beaten track” (apologies), despite being smack in the middle of the Eurasian landmass: «Where are you going???», everyone asked me. I like flat, barren landscapes. Also I had never been that far East.
I am more of a culture person than a nature person, so I was interested in seeing how local people had interacted with the local environment, and how muslim/nomadic/slavic societies had integrated, and what effect seventy years of Communism had on everything.

In Kazakhstan I spent twelve days: I visited Almaty and Astana, I crossed the steppe on a night train, and I had your trip in the South-East.

About Almaty, in my early notes I wrote quite a harsh sentence: the cosplaying of a Western metropolis without its own identity. Although I don’t agree with myself anymore, I remember where that came from: the city centre is a sequence of shops and coffee shops, mostly chains, the look and feel of which can be found anywhere. The water canals that flow along the tree-lined streets later stood out as an original feature, which connects the city with its natural environment. But I couldn’t shake off the impression that the city is trying to model itself according to a foreign lifestyle, just because that lifestyle looks rich.

Astana gave me the same impression, but overcharged. Along the river: cafés and ristobars, mostly chains, the epitome of premium mediocre; then shopping malls, skyscrapers, wide parks under messy renovations and with very few souls walking across. Away from the river: a sprawl of empty dark blocks of flats ending into dust and mud. Everywhere: the dominance of large cars, as if it were in the United States, because the city’s futuristic planning didn’t consider public transportation. I liked a few of its tacky buildings, including the infamous Khan Shatyr, but I wonder what the old town was like before it was taken over by turbocapitalism.

In both cities I observed the apparently peaceful coexistence of different ethnicities and religions, which is not a given in Europe nowadays, but in their streets I saw very few mixed couples, and few mixed groups of friends or students. In Almaty I noticed billboards inviting women to speak up against domestic violence. In rural areas I passed by rare spots of farming and shepherding: I assume that the youth are flocking from villages to cities. These are some topics I would like to discuss with Saltanat, if she is willing to.

I don’t remember a single negative interaction with people, although I don’t speak either Kazakh or Russian, and I barely understand Cyrillic. I went by with English when possible (in fewer occasions than I expected), and with my knowledge of common Slavic idioms through Czech. A few times I resorted to speaking Czech, so that perhaps my interlocutors would understand something: it got them confused, but it worked. I think that five times I was asked by elderly men and women either if I was Turk, or if I spoke Turkish or a Turkic language: telling them that I was Italian prompted smiles, as usual, but so did telling them I came from “Czechoslovakia”, perhaps because of old political ties?

Outside your trip, the most meaningful interaction I had was with the basic-English-speaking waitress of a café next to my hotel in Almaty: she was keen to chat about the traditional meals they offered (alongside club sandwiches and pizzas); then I misunderstood how to tip her. On the night train between Astana and Almaty my few attempts at conversations were dropped. Generally I failed to engage with locals.

I am well aware that twelve days are not enough to understand a country. What I perceived beyond all my biases is a society that is creating new connections with the world, taking advantage of its peculiar geographical position, and adapting fast to the way of living in the West. Yet I didn’t grasp what Kazakhstan’s soul is, something that is unique to its identity. Not sure I would accept beshbarmak or kokpar as answers. If/when I travel to your country again, I will visit Shymkent and Turkistan, to try and get a different view.

I wrote you already that your trip was the highlight of my journey. I was easily fascinated by the landscape, and I was surprised to find shrubs of dog rose on the trails around lakes Kaindy and Kolsay, that far East: because where there is dog rose, there is home for me.

Over-exposed selfie with a shrub of gratachí / rosa canina / dog rose / růže šípková.

Poločasová soutěž ·

Una domenica di metà agosto, in piena Swell Season, torno a casa dopo uno scialbo pareggio dello Zbrojovka Brno contro la squadra riserve dello Sparta Praga, che ha seguito una disgraziata disfatta contro il Varnsdorf, e trovo nella casella di posta un’e-mail che mi ha girato Evička:

Messaggio con il logo della società sportiva: «Vážený návštěvníku, rádi bychom Vám pogratulovali k výhře v poločasové soutěži! Rádi vám výhru předáme osobně po domluvě na e-mailové adrese ********@fczbrno.cz. Pokud to bude jen trochu možné, přizpůsobíme se vašim časovým možnostem. Vaše Zbrojovka».

Ho censurato il nome utente con asterischi.

L’e-mail è arrivata a lei perché la mia permanentka è ancora registrata con il suo indirizzo. Be’, ho vinto la lotteria dell’intervallo della partita! Devo soltanto rispondere all’indirizzo indicato, che è quello del responsabile marketing della società, per accordarci sul ritiro del premio.

Gli scrivo, poi io non posso andare, poi lui è in vacanza… intanto mi chiedo quale sia il premio. Una maglietta XXS? Un portachiavi col logo?
Infine vado a cercarlo in Srbská prima della comica sconfitta contro lo Zlín. Al fanshop mi dicono di uscire e di rientrare per una certa porta; sbaglio direzione, e una donna che fa la guardia agli spogliatoi mi ascolta paziente e si prende la briga di telefonargli. Lo incontro in strada, parla contemporaneamente con me e al cellulare come fosse Claudio Lotito, mi dice di tornare dopo il novantesimo perché non potrei entrare allo stadio col premio. Uh?
Al termine della partita mi consegna un sacchetto di plastica con una confezione di sei lattine di Starobrno Bitr e una bottiglia di vino italiano.

Mentre ero in Kazakhstan, l’FC Zbrojovka Brno ha cambiato proprietà e gestione, con ambizioni piú alte della druhá liga. Bartoněk ven!

Strade dell’Est ·

Quest’anno ho dovuto rimandare le ferie lunghe a settembre causa Progetto Importante.

Le mie possibili destinazioni erano:

  • Balcani occidentali (dalla Stiria a… boh… Sarajevo?);
  • Galizia austroungarica (con transito a Leopoli);
  • Germania orientale (suggerito da Lenka; anche no);
  • Tour della Slovacchia (dlouho opožděné);
  • Transcanadese (per andare a trovare Betsy).

Un pomeriggio al lavoro due stimate colleghe, Ekaterina e Saltanat, hanno dato una presentazione del loro Paese di origine: il Kazakhstan.
Un tarlo ha cominciato a rodere. Sono abbastanza vecchio da aver studiato e ricordare l’Unione Sovietica integra, ma non so niente di niente delle giovani repubbliche centro-asiatiche. Del Kazakhstan conosco soltanto il ciclista Alexandre Vinokourov e il cosmodromo di Bajkonur: non è una meta turistica rinomata, ma sembra essere un posto interessante. L’attuale situazione politico-sociale è stabile, il governo italiano non sconsiglia i viaggi. Quindi, perché no?

SCAT Airlines ha voli diretti da Praga ad Astana due volte a settimana. Io invece ho acquistato da Turkish Airlines un biglietto A/R da Vienna ad Almaty con scalo a Istanbul, perché potevo pagarlo con i “punti Fragola” aziendali.
Esco di casa fra pochi minuti. Il piano di viaggio prevede due giorni ad Almaty, un volo da sud a nord con Air Astana, due giorni nella capitale, l’attraversamento da nord a sud della steppa e del deserto in treno, un giorno di riposo ad Almaty, e infine un’escursione guidata di tre giorni nella natura del sud-est. Tornerò a Brno nella tarda serata di venerdí 13.

Avrò con me il tablet su cui prenderò appunti, ma a differenza dell’anno scorso non penso di pubblicarli prima del ritorno. Ci leggiamo poi.

Lavoro, lavoro, lavoro… ·

Ho importato il terzo (3°) anno di Moravian Like You dopo aver fatto un’accurata pulizia del codice di Blogspot, e dopo aver allineato lo stile dei post alle Virtualia?. Ho recuperato le foto dai miei rullini digitali; se una foto era stata scattata col cellulare, l’unica copia oggi disponibile è quella in formato ridotto del backup. Molti link esterni puntano alle corrispondenti pagine salvate nell’Internet Archive. Alcuni paragrafi che preferisco tenere sotto chiave in una cartella del mio laptop sono indicati come {OMISSIS}; il taglio di singole frasi è indicato come {…}.

L’autocensura riguarda quei post che trattavano di clienti o di colleghi, talvolta in modo poco opportuno, benché usassi sempre pseudonimi geografici o convolute locuzioni anonimizzanti. Ho conservato quei paragrafi il cui soggetto ho trattato in seguito, o la cui assenza renderebbe meno comprensibile gli articoli seguenti. È rimasta la cronaca dell’anno in cui ho acquisito le prime rudimentali competenze per le mansioni che svolgo oggi. I miei futuri biografi potranno riesumare i testi originali dal suddetto laptop o dai server di Google.

Strejda Massi ·

Sono lo zio onorario (in ceco strýc, colloquiale strejda) di una ghenga di bambini dagli 0 ai 12 anni e di disparate nazionalità: Alba, Anežka, Davide, Edoardo, Filip, Jindřich, Klára, Martin, Matías, Mattia, Maximilian, Nela, Richard, Roberto, Vilém, Viola, e tanti altri ancora.
Sono quasi tutti COVID babies, ovvero sono nati poco prima o durante la pandemia; molti li ho sentiti chiedere attenzione e fare i capricci mentre parlavo coi loro genitori con cadenza settimanale su Skype o Teams o Zoom; alcuni non l’incontro da mesi e mi mancano.

Hanno tutti le loro piccole diverse personalità.
Anežka quando mi guarda di sbieco so che sta per combinare una marachella. Edoardo deve indossare gli occhiali, che non gli piacciono; quando la madre gli ha fatto notare che li indosso anch’io, si è rallegrato e ha voluto scambiare i suoi con i miei. Filip, detto “lo scorreggione”, a quattro anni capisce quattro lingue: quella della madre, quella del padre, il ceco dell’asilo, e un poco d’inglese; quando ha finito l’acqua per le bolle di sapone, e mi ha mostrato il tubetto vuoto, e mi ha detto «no water», mi è cascata a terra la mandibola. Klára è moja brambůrka. Matías mi ha chiesto quanti anni ho e ha detto che sono «viejo». Maximilian porta il mio nome perché l’ho suggerito io per scherzo alla madre il giorno che mi ha rivelato di essere incinta; quando vado a trovarlo mi prende per mano e mi mostra tutto. Richard doveva essere “Zdislava” ma nel viaggio ha cambiato idea; è arrivato sette giorni fa, e dorme beato.

Cuffietta per neonato con disegni abbozzati di un aquilone e di due uccellini.

Chi uccide il calcio ·

Oggi ricomincia la Serie A, e la Lega Serie A (la società che organizza il campionato) ha rilanciato la campagna di stampa contro la pirateria.

@SerieA: «La pirateria uccide il Calcio. #stopiracy»

“Sto piracy?” “Stop iracy?”

È la solita campagna dal 2019. Lo stadio diroccato che compare nella foto è il Za Lužánkami (“dietro a Lužánky”) di Brno, che a fine anni ‘90 fu vittima di una speculazione edilizia sull’area adiacente, e della cui ricostruzione in città si parla da tempo.
Su Shutterstock si trova un’immagine molto simile cui potrebbero essere stati aggiunti alcuni elementi con un software di ritocco: il bambino, i riflettori, la porta (che si trova in una posizione inusuale). La cosa buffa è che cinque anni fa lessi che l’autore della foto non era stato pagato dai creatori della campagna. Oggi non trovo riscontri: sono sicuro che tutti i diritti di utilizzo dell’immagine sono stati compiutamente assolti, la Lega Calcio (cosí come la FIGC) è guidata da figure di spiccata qualità legale e morale, certe voci sono soltanto ignobili calunnie.

Internet explorer #39 ·

Jeff Huang › This Page is Designed to Last.
A Manifesto for Preserving Content on the Web.

A Working Library › A unified theory of fucks, by Mandy Brown.
This is one of my answers to the question of, why give a fuck about work? Why love your work? It won’t, of course, love you back. It can’t. Work isn’t a thing that can love. It isn’t alive, it isn’t and won’t ever be living. And my answer is: don’t. Don’t give a fuck about your work. Give all your fucks to the living.

Figs in Winter › Practice like a Stoic: 15, Remind yourself of impermanence, by Massimo Pigliucci.

Il Manifesto › 1982, la coppa dei sogni, di Chiara Cruciati.

The New York Times › The 100 Best Books of the 21st Century, by Aliza Aufrichtig et al.
I have read, mostly in Italian translation: #94 (I don’t remember a single word), #59 (I loved it), #46, #31 (twice), #26 (an all-time favourite), #13, #5 (an all-time favourite). I have seen the TV series or film adaptation out of: #93, #74, #31, #26, #13. I don’t have any opinion about #1.

Esquire › The 75 Best Sci-Fi Books of All Time, by Adrienne Westenfeld.
I have read, mostly in Italian translation: #66 (I loved it), #45 (it has aged like fine milk), #42 (among the most overrated works of art ever), #14, #12, #1. I have seen the TV series or film adaptation out of: #66 (an all-time favourite), #31, #11, #10, #9, #1 (the parody, of course).

Escape Collective › Exclusive: Tour riders are inhaling carbon monoxide to optimise altitude training, by Ronan Mc Laughlin.
I don’t think it has been shouted loud enough: top stage-race cyclists poison themselves with CO2 to enhance their performance!

The Register › CrowdStrike file update bricks Windows machines around the world, by Simon Sharwood.

The Guardian › Northern Scotland’s Flow Country becomes world heritage site, by Severin Carrell and Lisa O’Carroll.

Alba sul Flow Country, con pale eoliche all’orizzonte.

Far North Line presso Forsinard, 21/12/2013.

UNESCOThe Flow Country.

Vista dal treno sul fiume Helmsdale.

Far North Line lungo lo Strath of Kildonan, 21/12/2013.

Tu vuo’ fa’ l’Americana ·

Immagine animata di Chiara Consonni, in divisa della Nazionale italiana, che ride incredula e fa le mani a pigna.

Io l’ho vista sullo streaming della Česká televize. Grazie ancora, ČT.

Infernòt ·

Due estati fa la celebre conduttrice televisiva Licia Colò arrivò con la troupe del suo programma a tema ambientale nel mio “paese pavesiano”. All’Orsera visitò il museo etnografico e alle Cassen-e un infernotto (infernòt in piemontese). Ricordo che un elicottero della produzione passò e ripassò sopra il paese per riprese scenografiche.
Un servizio su Acqui Terme è andato in onda l’anno scorso ed è visibile sul sito di La7 (da 1:36:32). Il servizio sull’infernotto è andato in onda pochi giorni fa (da 1:55:15), in coda a un servizio sul paese di Fontanile (un po’ piú telegenico di Orsara Bormida).

Gli infernotti sono cantine contadine, scavate nel tufo, dichiarate dall’UNESCO nel 2014 patrimonio culturale dell’umanità. L’infernòt visitato da Licia Colò è quello ‘d cui d’Ambrös. Anche la mia famiglia ne aveva uno, ben piú piccolo, sotto ra cà végia: è là dove si tenevano le bottiglie buone che poi andavano a male perché non le beveva nessuno.

La bella stagione ·

– I’ve never seen that many emotions expressed by you for the whole time I’ve known you.

Il palo di tenero bambú che ho preso in faccia dalla collega malese nubile in business trip che ha ridefinito il mio concetto di “donna ideale” mi ha risvegliato da un incanto piú adatto a un libro di Josef Škvorecký che a una settimana di management meetings.

Sí, e quel sax che suonava nell’aere dalle parti del Lidl dietro Vlněna?

L’oro del Kazakhstan ·

Bolletta di una scommessa presso la ricevitoria SNAI di Alessandria: «Vincente cicl. strada (M) VINOKO 50.00».

Alexandre Vinokourov è nella mia mente da quando, in occasione delle Olimpiadi di Sydney, io e Paqquente puntammo diecimila lire su Freire (10 a 1) e sul kazako (50 a 1), quali vincenti della corsa in linea: Vinokourov era ancora il fedele gregario di Jan Ullrich, e da fedele gregario arrivò secondo, facendo/lasciando vincere in volata il suo tedesco compagno di team. Quest’anno, capitano della Deutsche Telekom, ha vinto Parigi-Nizza, Amstel Gold Race ed è secondo al Tour. Accetto contratti per lanciare il prossimo vice-campione olimpico :D

Brainblogging, 14/07/2003.

Questo scrivevo al termine della tappa piú bella di sempre al Tour de France, nel 214° anniversario della Presa della Bastiglia, vinta appunto da Alexandre Vinokourov, dai piú ricordata per quando nella discesa verso Gap il basco Joseba Beloki si schiantò sull’asfalto “siolto” (cit.) e l’Astronauta prese una scorciatoia per i campi:

“I decided to do a bit of cyclo cross!” Lance Armstrong added.
“I was really scared. It was the reflexes of a survivor.”

L’estate seguente, in occasione delle Olimpiadi di Atene, scrivevo:

La formula della scommessa sul migliore della lista mi consente di sperare in una vittoria azzurra – tranne Paolo Bettini – e nell’argento di uno a scelta tra Alexandre Vinokourov (8,5 a 1) e George Hincapie (20 a 1), granduomo della US Postal Service che ha anche un weblog con foto imbarazzanti :) Go George!

Brainblogging › Bet Bet Bet / Win, 12/08/2004.

Vinse Bettini e ne fui entusiasta. Hincapie e Vinokourov arrivarono nel peloton.

Nel luglio del 2012 Alexandre Vinokourov andava per i 39 anni ed era a fine carriera, dopo una squalifica per autotrasfusione di sangue (eh), un primo ritiro, e l’accusa di aver comprato la vittoria di una Liegi–Bastogne–Liegi. Aveva disputato un buon Tour, era sempre il capitano della selezione kazaka, e la sua vittoria nella corsa in linea alle Olimpiadi di Londra era quotata 75 a 1. Alla ricevitoria di viale Teresa Michel puntai cinque euro sul suo nome, piú cinque euro sul favoritissimo Mark Cavendish (2 a 1) per coprire la giocata.
La corsa sembrava destinata a una volata di gruppo sul Mall. Ma a una cinquantina di chilometri dall’arrivo prese il largo una fuga di passisti, fra cui Vinokourov. Il gruppo attese che Team GB organizzasse la rincorsa, e la fuga prese un minuto di vantaggio. Alla periferia di Londra Rigoberto Urán, fra i fuggitivi forse il meno veloce a uno sprint, tentò di scappar via, seguito soltanto da Vinokourov. Salii in piedi sul divano. Non potevano farcela. All’ingresso del Mall Urán e Vinokourov avevano ancora un tranquillo vantaggio sul peloton. Urán si voltò a guardare, Vinokourov lanciò una volata lunghissima. Venti secondi che trascorsi a saltare sul divano, mentre Billi mi osservava spaventato.
Alexandre Vinokourov vinse l’oro a braccia alzate. Io vinsi trecentosettantacinque euro.

Always the bridesmaid ·

In altre ricorrenze significative del 20 luglio certamente non immaginavo la catena di eventi che stamattina mi ha portato al castello Belcredi di Líšeň per fare la damigella d’onore lo svědek a un matrimonio, quello di Evička e Vojta. Ma la sposa aspetta un figlio, e lui lo sa.

Modulo di autocertificazione di comprensione del ceco.

«… natolik blah blah blah nepotřebuji tlumočníka.»

Tirassegno ·

Attentatori quando sparano ai “buoni” (o a innocenti che passavano di là):

Scena di un film: un cecchino spara in uno scenario di guerra con visibilità ridotta e abbatte numerosi nemici.

Attentatori quando sparano ai “cattivi”:

Scena di un video: un soldato imperiale di Guerre stellari fa pratica di tiro nel deserto senza centrare il bersaglio.

Punti cardinali ·

Prendendo ispirazione dalla pagina Punti estremi del mondo di Wikipedia [cs/en/fr], elenco qui i miei estremi geografici (a livello del suolo).

Nord

John o’ Groats, Caithness, Scotland, 04/09/2013.
Quella mattina stessa ero atterrato a Cicely Wick. Alla sera andai coi nuovi colleghi al ricevimento in onore del padrone dell’azienda, cui era stato conferito il Queen’s Award for International Trade. Sono l’unico visitatore che non ha una foto (mossa) vicino al famoso palo che segna le distanze dalla civiltà, ma nel cortile di una struttura ricettiva (58.6438 N, 3.0704 W).

In giacca e cravatta a John o’ Groats.

Ovest

Nord America: Lincolnshire, Illinois, United States, 18/09/2022.
Vi trascorsi due settimane per lavoro, e smaltita la COVID-19 l’influenza l’esplorai in lungo e in largo. Una sera sconfinai nel vuoto parcheggio sul retro di un equivoco centro massaggi a Vernon Hills; un’altra volta giunsi nei pressi dell’opulenta all-American high school che bordeggia lo sprawl di Prairie View (42.1964 N, 87.9457 W).

Centro America: Chapultepec, Ciudad de México, México, 06/11/2022.
Al secondo viaggio, il giorno dopo la boda di Carolina, con Jessica nelle sale del palazzo presidenziale di Los Pinos (19.4156 N, 99.1912 W).

Sud America: Cucao, Chiloé, Chile, 21/02/2013.
All’interno del Parque Nacional, oltre i laghi Huillinco e Cucao, per sentieri battuti attraverso una vegetazione di arbusti ignoti, fra le vacche al pascolo, fino al Mirador de las Dunas, sulla riva di un río salmastro che costeggia assurdamente l’Oceano Pacifico (42.6208 S, 74.1225 W).

Sulle dune davanti al rio, con in mano una copia di Chiloé di Charles Darwin (edizione bilingue).

Sud

Quellón, Chiloé, Chile, 21/02/2013.
Vi arrivai a metà pomeriggio a bordo di una corriera piena di studenti, su cui salii a una fermata al centro dell’isola e il cui autista non mi fece pagare il biglietto. La radio andava, diceva (con due anni di anticipo) che il Bayern Monaco aveva comprato Arturo Vidal. Volevo raggiungere a piedi il termine della Ruta Panamericana, ma non sapevo bene quanto fosse distante. Dopo un po’ di cammino scesi per una scala fra le case e per una viuzza nella baia con la bassa marea, e là dichiarai concluso il mio viaggio (43.1179 S, 73.6303 W).

Selfie serio davanti alla baia; sullo sfondo, barche da pesca.

Scrivendo questo post osservo che il traguardo era a un’ora di strada, e che la baia di Quellón rientra verso nord, perciò l’estremità geografica la toccai al porto, fra il molo e l’osteria (43.1209 S, 73.6216 W).

Est

Europa: Sulina, Dobrogea, România, 24/05/2023.
Al termine di un viaggio di due settimane lungo il Danubio, fin là dove dorme il Delta, appena oltre la linea illusoria che unisce le estremità dei frangiflutti ai lati del canale, nell’ipotetico punto del dissolvimento nel Mar Nero (45.1452 N, 29.7678 E).

Selfie allo sbocco del Danubio nel Mar Nero; all’orizzonte, mercantili e petroliere.

Asia: Qasr al-Yahud, Iudaea, Yīsrā’ēl/Filasṭīn, 14/06/2013.
Guadando i campi minati del conflitto eterno, fra i torpedoni dei pellegrini che andavano a rinnovare una promessa di fede nelle stesse acque dove Giovanni il Battista praticava il suo rituale, con tre comuniste e mia madre (31.8370 N, 35.5464 E).

Basso

Kalya, Iudaea, Yīsrā’ēl/Filasṭīn, 14/06/2013.
È difficile stabilire il luogo esatto dal confronto fra le fotografie e le mappe satellitari: il complesso turistico coloniale abusivo è stato ampliato, e la superficie del Mar Morto si è ridotta, e il suo livello si è abbassato (-427 m).

Con i piedi a mollo nell’acqua giallastra e torbida.

Alto

Salar de Tara, Atacama, Chile, 15/02/2013.
Una lunghissima gita con partenza da San Pedro de Atacama, lungo la statale che fra i guanaco condurrebbe in Bolivia o in Argentina, se non si deviasse verso località lunari dove sole osano le viscacce. La vista dalle Catedrales de Tara sul Salar de Tara è la foto in testa alle Virtualia?: nejvyšší místo, kde jsem byl (~4350 m).

Ripreso seduto di spalle mentre guardo la salina verde-azzurra, la terra rossa, il cielo blu, le nuvole bianche.

Remoto

Santiago de Río Grande, Atacama, Chile, 17/02/2013.
Un’altra lunghissima gita con partenza da San Pedro de Atacama, verso altri luoghi lunari dove vegetano piante dei colori dell’arcobaleno, o dove dispersi andini lasciarono traccia di sé undicimila anni prima di Keith Haring. Nel mezzo, un villaggetto nascosto in un canyon di argilla scavato da un río, dove crescono rigogliosi l’ajo e le habas e pascolano i burritos, con una escuela básica dove Loreto potrebbe insegnare e una estación meteorológica dove Massi potrebbe fisicare; e dove la Google Street View Car non transita (22.6512 S, 68.1674 W).

Sotto al cartello della stazione meteorologica: «Río Grande / Alt. 3.250 m.s.n.m. / Area cuenca 1.417 Km²».

e forse quel che cerco neanche c’è.

Internet explorer #38 ·

The Paris Review › Paul Auster, The Art of Fiction No. 178, by Michael Wood.
I’m not just interested in the results of writing, but in the process, the act of putting words on a page. Don’t ask me why. It might have something to do with an early confusion on my part, an ignorance about the nature of fiction. As a young person, I would always ask myself, Where are the words coming from? Who’s saying this? The third-person narrative voice in the traditional novel is a strange device. We’re used to it now, we accept it, we don’t question it anymore. But when you stop and think about it, there’s an eerie, disembodied quality to that voice. It seems to come from nowhere and I found that disturbing.

Radio Prague International › In Kafka’s footsteps, by Magdalena Hrozínková, Martina Schneibergová, Ruth Fraňková et al.

Meridiano 13 › Ludmila Javorová, donna prete nella Cecoslovacchia comunista, di Maria Savigni.

East Journal › Repubblica Ceca: Il trionfo nel mondiale di hockey e il potere unificante dello sport, di Enrico Brutti.

John O’Groat Journal › New historic details revealed on the lives of Caithness cave dwellers, by David G. Scott.

The Observer › Scotland’s remote land of bogs and bugs in line for world heritage status, by Robin McKie.

The Cut › Welcome to the Millennial Midlife Crisis, by Amil Niazi.
Any single change in our jobs, homes, or health could upend our entire lives in ways that are just financially impossible. Not sure about it.

Aeon › Quantum dialectics, by Jim Baggott.
From Vladimir Lenin, via Niels Bohr vs Albert Einstein, to quantum computers.

Ars Technica › No physics? No problem. AI weather forecasting is already making huge strides., by Eric Berger.
It sounds to me like a deterministic approach in disguise, which means it is bound to fAIl every time the model’s initial conditions diverge even a tiny bit from reality.

Il Post › Cosa sono i confini del 1967, di Giovanni Fontana.

Distanti saluti › La mappa bugiarda su Israele e Palestina, di Giovanni Fontana.
Un vecchio debunking della mappa che circola ancora oggi sui social network; da leggere i commenti piccati con i debunking al debunking, e il seguente post piccato con il debunking ai debunking al debunking. Fontana è un operatore umanitario e ha lavorato un anno in Palestina, dove mi sembra abbia sviluppato una certa equidistanza fra le parti: probabilmente è l’unica posizione possibile.

Winnie Lim › when goodness is not so good.
I had asked her to elaborate on this sentence from a previous post: I believe the push to make humans being “good” has caused more harm than being net positive. She kindly responded with a long list of drawbacks to the pursuit of goodness. I haven’t given this much thought, but I feel humanity must have had a reason to invent ethics. I sense that the key is in the word “net”: a world without ethics may be much worse.

laV Comunicazione › Memoria dimenticata, di Alessandro Venticinque ed Enzo Governale.
Un documentario in sei parti sulla rivolta al carcere Don Soria di Alessandria il 9 e 10 maggio 1974. Mentre la Rai manda in onda l’agiografia di colui che decise l’irruzione dissennata, negli ultimi anni i media locali hanno provato a ricordare la vicenda dal punto di vista cittadino: è il turno dell’agenzia di comunicazione della Diocesi, l’istituzione con meno legami con le forze dell’ordine e la magistratura, e perciò piú libera di esprimere “l’altra verità”. Il tono enfatico alla Blu notte, senza l’asciuttezza di Carlo Lucarelli, mi piace poco, ma il materiale è importante.

Winnie Lim responded at length to my quick reply to her journal entry linked above, elaborating further on the topic of goodness. She wrote: If ethics worked we would have a more just world now. I still think that without ethics – which are a feature to many unrelated civilisations – the world may be much worse, but I accept her point that the enforcement of ethics may result in a vastly unequal distribution of power.

Seven Views of Jerusalem /7 ·

Tzedek, tzedek tirdof.

Devarim 16:20.

Shabbat. Eleven years to the day since that Shabbat when I met God.
What did I get from that short trip to Israel and Palestine?

  • One eye of Allah 🧿 that I found on the cobblestones in the Old City (… not far from a stand that sold such amulets), value = 1 shekel.
  • One empty box of dates that we bought under Zacchaeus’s sycamore in Jericho; I mean, it was a full box of dates when we bought it.
  • One rusty bolt that I found where our van ran out of fuel at the junction between the Kvish Ahat and the Kvish Arba-Ahat-Sheva.
  • Four empty jars of date jam; I mean, they were four full jars of date jam before we ate their content.
  • Two bookends (a blue one and a green one) that spell אהבה, “love”.
  • A better understanding of why the Occupied Territories are called the Occupied Territories.
  • The perception that Arabs and Jews hate each other, and the opinion that peace won’t be possible in my lifetime.

It may have been at the Turin Book Fair in 2008, when Israel was the guest of honour, that I walked to one of the Italian Jewish communities’ table and I asked if they had books on Zionism. Of course they had, and of course all books were fervidly partisan in tone, while I was looking for something balanced – what was I thinking? Then the two ladies behind the table started talking national politics, and criticising the party that I used to vote, which is sympathetic to the Jewish cause but also to the suffering of Palestinians. I put the books back, I greeted them and I walked away, unnoticed, while they were still talking politics between themselves.
(I understand that Italian Jews hold a grudge against the Left and the Centre, after the PLO terrorist attacks in the 1970s and in the 1980s, after seventy-five years of “equivicinity” policies towards Israelis and Palestinians, and after two millennia of Catholic antisemitism; but why are they bedfellows with the children and grandchildren of those who sent them to the slaughterhouses?)

It was three years ago when I read an essay by an Italian Jewish leftist intellectual that I used to follow on La Stampa, on the Jewish identity between Israel and the Diaspora, and I realised that she barely mentioned the Arabs who live in the same region. When she did, it was only to remark upon their opposition to the State of Israel, actors in a purely adversarial role, as if before 1948 they hadn’t had a national identity and their own historical reasons to the right of self-determination.
(Sure, I know that the Arabs who live in the same region failed multiple chances to establish their own State of Palestine.)

In the current circumstances, I read that negotiators are pushing again for the two-state solution. I remember my five-day trip to Jerusalem in a peaceful time, I look at some of the pictures I took, and I wonder if they are delusional or else.
In the past few years, even before the most recent war began, multiple human rights organisations [1][2][3] – both international and Israeli – have denounced the effective domination of one side over the other: not only in the territories where one side is legally sovereign, in a regime that these organisations call “apartheid”, but also in the territories that this one side illegally occupies. There is already effectively one State, they say, “from the river to the sea”: scholars call it the one-state reality.
A good idea about who controls a territory is given by whose forces police the territory: I saw Israeli civil and military squads everywhere in the West Bank – from the countless checkpoints, up to the perimetre of the Temple Mount / Haram ash-Sharif – except perhaps in Jericho (Area A), which anyway the IDF have no trouble accessing. Freedom of movement across the splintered territories under theoretical control of the Palestinian National Authority depends on what kind of plate your car shows [4].

Blocks of flats on top of a hill overlooking a highway. Panorama of Palestine with an Israeli settlement in the distance.

Ma’ale Adumim, and Har Homa as seen from Bethlehem.

The junction where our van ran out of fuel is overlooked by one of the largest Israeli settlements in the West Bank: Ma’ale Adumim. A total of 700,000 Israeli settlers are known to live in the Occupied Territories, 200,000 of which in East Jerusalem. My question to those who push the two-state solution would be: what is the plan to deal with these people? More than a million Italians live in direct danger of a volcano and there is no way to convince them to relocate to safer places; what would convince these settlers, who have political and religious motivations, and who often have military advantage over the surroundings, to relocate within the borders of 1948 in a peaceful way?
And before we even get to that, what actions will be taken to stop the low-intensity ethnic cleansing [5] that is ongoing in the Area C? The IDF-backed daily violence, the bulldozing of schools and of other civilian facilities. While in East Jerusalem and in the Old City the land-grabbing is operated through legal means, under the laws of the occupier.
Or, would the two-state solution maintain the same splintered Palestinian territories that dot the land today? I cannot see how such a State, without geographical unity, would be able to sustain itself and survive, let alone develop to decent standards of democracy and living.

In absolute naïvety, I hope that Israelis and Palestinians, supported by the whole world around them, stop thinking of Zionism and of Nakba, and focus on the future, to create and build together one secular State based on the principles of liberal democracy. “The only democracy in the Middle East”, expanded from the Jordan river to the Mediterranean sea, without any racial or religious discrimination, demilitarised but with full protection by the international community, and with free access for all to the holy sites.
Both parties must acknowledge the humanity of the other one, its equal needs and its equal rights. I am aware of the amount of compromise that the two parties would have to make, and of the problems that may arise from the differences in demographics; that is where John Rawls’s concept of the veil of ignorance would come in handy.

In relative pragmatism, as outsiders we must cease to support those who work against that vision of peaceful cohabitation: military hawks, religious fanatics of all sorts, xenophobes from both sides; whether the current geopolitical situation makes them our friends or our foes.
I am pessimistic and I don’t see peace as possible in my lifetime. Today on the dominant side there is a far-right government, favoured by more than half of its citizens, bent on war as survival tactics; on the submissive side there are a clerical-fascist faction that prospers on hatred, and a deeply corrupt authority that has been unable to provide the basics. As outsiders we keep supporting either side, depending on our own domestic benefit. It is a perpetual-motion machine of death that will spin until the end of this tragic siblings story.

An old black-and-tan dog with a white kippah on his head.

Rabbilli, שאלוהים יברך את נשמתו.

From an old post by an Italian humanitarian worker who volunteered in Palestine, who later founded an NGO that assists refugees in Europe, I have found a website – run by a Jewish-American advocacy group, close to the Democratic Party – that defines a possible two-state solution in details, including fairly recent proposals from both sides. Even this constructive attempt at peace aims at the physical separation of Israelis and Palestinians; as if it is unthinkable that they will ever get along.

  1. B’Tselem › A regime of Jewish supremacy from the Jordan River to the Mediterranean Sea: This is apartheid (2021).
  2. Human Rights Watch › A Threshold Crossed: Israeli Authorities and the Crimes of Apartheid and Persecution (2021).
  3. Amnesty International › Israel’s apartheid against Palestinians: Cruel system of domination and crime against humanity (2022).
  4. Car registration plates are often mentioned in the blog of an Italian physicist who lived in Jerusalem around the time I visited it.
  5. This is my shibboleth, tell me yours!

Vota e fai votare ·

A metà dei centocinquanta metri dal portone di casa all’ingresso dell’asilo, un bambinetto in un passeggino m’indica e grida: «Tata! Tata!»
«Nejsem», gli rispondo.

Al seggio 9003 dichiaro le generalità, consegno il passaporto e il certificato di residenza, e affermo di non essere cittadino ma di essere iscritto al registro dei votanti, suscitando un panico di breve durata fra le scrutatrici: il mio nome compare nell’elenco, con una lunga nota esplicativa. La piú vegliarda controlla la corrispondenza fra l’effigie sul passaporto e le mie sembianze, mi riconsegna i documenti e mi dice: «Bravo!»
Ho portato con me il bustone delle liste: prendo il foglio n° 23, lo infilo nella busta del voto, infilo la busta nello scatolone al centro dell’aula.

Cinque anni fa avevo votato un’alleanza europeista fra liberal-conservatori, liste civiche, e verdi, i cui tre eletti erano confluiti mio malgrado nel Partito Popolare Europeo (potevo informarmi meglio). A questo giro volevo votare il partito, non in tasca a Vladimir Putin o a Xi Jinping, i cui eletti confluissero nel gruppo piú progressista possibile, e che fossero favorevoli al Green Deal e contrari ai campi di concentramento per migranti in Albania, Libia o Ruanda.
Gli unici con un programma tradotto in inglese erano i liberal-conservatori europeisti di TOP 09 (EPP), in lista con i conservatori euroscettici dell’ODS che a Bruxelles stanno con i Fratelli della ‘Ndrangheta – anche no, grazie. I centristi delle liste civiche (RE) candidavano capolista l’ex-candidata brunense a presidente della Repubblica Ceca, il cui principale selling point è l’essere la fotocopia della presidentessa slovacca, e avevano vaghe politiche energetiche e migratorie. I Verdi (Greens/EFA) si presentavano da soli senza poter passare la soglia di sbarramento del 5%. I Pirati (Greens/EFA), che la volta scorsa avevo considerato e poi scartato perché grillini senza Casaleggio e il vuoto pneumatico, ricandidavano i tre europarlamentari uscenti cui forse qualcosa era entrato nel cervello; in patria tirano a sinistra la coalizione governativa, e a Bruxelles dovrebbero stare all’opposizione di un’eventuale Commissione filo-fascisti.
Un amico ceco era ugualmente indeciso. Ci siamo messi d’accordo: lui ha votato Civici, io ho votato Pirati, throwing up a little in my mouth.

Piú tardi accompagno una collega a votare al Consolato onorario in Výstaviště. Mentre l’attendo all’ombra di un tiglio, vedo entrare o uscire dall’edificio una madre con figlioletta, un gruppo di informatici trentenni fatti con lo stampino, due volti conosciuti, student* in Erasmus; accampati dentro l’edificio, altr* student* in Erasmus.
Un’impiegata dell’Ambasciata m’invita nella stanza del seggio, e cosí il console che si avvicina a parlarmi. È un uomo molto alto. Gli dico che non entro perché ho già votato nel mio quartiere, per qualche battuta mi sembra di capire che egli non sappia che non posso farlo due volte. Discorriamo per pochi minuti dei connazionali in Cechia e di Brno vs Praga, dove la collega sta per trasferirsi. Al termine mi fa male il collo.

Si fa sera, slaví deset let il Sesto Ramo: Klárka mi chiede subito dove sia Luca, tele penose (nel senso del pene) vengono esposte ed esaminate, il cosplayer di Damiano David fa coming out (no one was shocked), la bottiglia di Punt e Mes finisce. Brno is a village, etc. etc.

O čem Massi mlčí ·

Ho importato il secondo anno di Moravian Like You dopo aver fatto un’accurata pulizia del codice di Blogspot, e dopo aver allineato lo stile dei post alle Virtualia?. Ho recuperato le foto dai miei rullini digitali; se una foto era stata scattata col cellulare, l’unica copia oggi disponibile è quella in formato ridotto del backup. Molti link esterni puntano alle corrispondenti pagine salvate nell’Internet Archive. Alcuni paragrafi che preferisco tenere sotto chiave in una cartella del mio laptop sono indicati come {OMISSIS}; il taglio di singole frasi è indicato come {…}.

L’autocensura riguarda una ventina di post che trattavano di clienti o di colleghi, talvolta in modo poco opportuno, benché usassi sempre pseudonimi geografici o convolute locuzioni anonimizzanti. Ho conservato quei paragrafi il cui soggetto ho trattato in seguito, o la cui assenza renderebbe meno comprensibile gli articoli seguenti. E quei soggetti che ho trattato in seguito perché mi sono stati e mi sono ancora intorno ora hanno un nome, perché gli pseudonimi geografici e le convolute locuzioni anonimizzanti erano ostici da ricordare e seguire anche per me. I miei futuri biografi potranno riesumare i testi originali dal suddetto laptop o dai server di Google.

Brněnský komplex ·

Al Terminal 2 dell’aeroporto di Praha–Ruzyně „Václav Havel“ c’è un angolo dedicato a Havel con due installazioni artistiche: un suo ritratto che appare da un cumulo di oggetti quando lo si guarda da una certa prospettiva, e una cabina in cui sono proiettate sue citazioni citabili.

Una scritta in caratteri bianchi su sfondo nero, come da macchina da scrivere: «B R N Ě N S K Ý K O M P L E X». Poco sotto, un’altra scritta: «praha».

Brněnský komplex è una pagina di un’opera di Havel, Antikódy, una raccolta di testi brevi o brevissimi la cui componente visuale generata dalla spaziatura dei caratteri sulla stampa ha una rilevanza semantica uguale o superiore alla componente testuale. Un Václav Havel futurista, con un bagaglio ideologico diametralmente opposto.
Il “complesso brunense” è quello della città di provincia nei confronti della capitale: un misto indefinibile di ammirazione e di malcelato senso d’inferiorità, dovuto all’essere al primo posto in Moravia e al secondo nel Paese, e alla maggiore vicinanza geografica e culturale a Vienna.

Strain Rate @ Divadlo Lumos, Brno, 24/05/2024

È l’ultima esibizione con la cantante anima e trascinatrice (not) del complessino brunense. La saletta con palco nel retro del Lumos è vuota: tutti i possibili studenti-avventori sono o all’Animefest o al Pride o a entrambi gli eventi. Il soundcheck dura mezz’ora e il fonico fresco di liceo ha i modi di Steve Albini ma capacità non comparabili.
Suonano tutte e dieci le canzoni del loro repertorio, e bene, se s’ignorano un paio di voli pindarici con schianto del bassista. Al tastierista che si è appena aggregato è dato poco da fare: chissà se quel suono di glockenspiel elettronico indica un futuro indirizzo psichedelico?
La cantante anima e trascinatrice (not) lascia il locale mentre il resto del complessino brunense sta ancora smontando gli strumenti.

Hudobný francúzsky paradox: la presenza scenica che diminuisce all’aumentare dell’esperienza dell’artista.

Tabule ·

Černá tabule na ulici, s písmem: „Krásný den, přejem všem“.

Seven views of Jerusalem /6 ·

In the early morning of the last day of our short trip to Jerusalem we packed our luggage, we left it at the hotel’s reception, and we went back to the Old City for one more attempt at entering the Holy Esplanade / the Temple Mount / Haram ash-Sharif. And this time we were lucky!

We queued for a few minutes in the gangway that leads to the Moors’ Gate – the only available entrance for tourists – and we got checked at the turnstiles by the IDF soldiers who controlled the access to the site, which is maintained by a Jordanian foundation.

Three young Muslim women walking on Haram ash-Sharif, talking with one another, with the Dome of the Rock in the background.

The Esplanade is a spotless place of white stone walls and Mediterranean trees. It instills quietness and, I guess, a sense of the Ineffable for those who are prone to that. We roamed freely among the few other tourists and the Muslim pilgrims who had been let in the sanctuary; many children gathered in circles in religious activities under supervision of adults, just like Christian kids do at Sunday school.
Gatekeepers denied us entrance to the Dome of the Rock, but the exterior octagonal walls of the shrine alone are a marvel of marble and tiles. And then there is the dome itself, the golden cap that shines in sharp contrast with the barren landscape of the Holy City.

The Dome of the Rock as seen among trees, with a child and an adult man in a white robe in the foreground.

Of course we didn’t even try to enter the al-Aqsa Mosque. It is a much more sober building with a rectangular plan, the sight of which is eased by a porch and by its own grey dome. Loads of women, dressed in all kinds of Muslim garments, took shelter from the sun in the shadows of its majestic walls.
On our way out, through the Ablution Gate, we stopped to have one last look in our earthly life at the Esplanade, and we asked something to one of the Israeli soldiers who were peacefully in charge of security. He replied to us in Italian, because he had been raised in… Naples.

Framed certificate, dating back to 1981, stating that a certain man had completed a course in Italian language at the Università per Stranieri di Perugia.

I returned to the Western Wall for a silly thing I had in mind. I took a free kippah from a box of the Heritage Foundation [1] and I got closer to the stones. There I was approached by a Jewish-American man who asked me to take his picture while leaving a message to G-d that had been written by his 12-year-old grand-daughter. I kindly obliged, and I asked him to return the favour while I placed mine.
Later that year my piece of paper must have been removed and then buried in the Jewish cemetery on the Mount of Olives. I don’t remember exactly what I wrote to G-d, something about peace on Earth? I hope that one day She will read it.

Placing a message to G-d in the cracks of the Western Wall.

I completed my tour to please the monotheistic G-ds with one final visit to the Holy Sepulchre. Outside there were as many soldiers – cadets, still teenagers, at lazy ease – as Christian pilgrims. I backed away and I walked towards our meeting point, out of the Damascus Gate.

Resting soldiers at the Basilica of the Holy Sepulcre.

It took us a while to find a taxi that would fetch us to the Ben Gurion airport near Tel Aviv: the driver was a kind Palestinian man.
We spent about three hours in line for security control. All five of us were asked if during the day we had ever lost sight of our luggage: I knew we had left it unguarded at the hotel’s reception, I knew this would cause further nuisance, therefore I had instructed my companions to lie. Two of them, including my mother’s colleague who was born in Cairo (not that Cairo) were asked anyway to open their luggage and explain the nature of its content. (How in 2022 an American family managed to take an unexploded artillery shell into the airport, without being shot to death on the spot, is beyond me.) In the end we safely boarded our uneventful El Al return flight to Milan Malpensa.

[To be continued…]

  1. During Shabbat and holidays their website is inaccessible and redirects to another website called Holy Clock, which counts down to sunset then redirects back to the original website. I am not making this up.

Vysavač ·

Midi Lidi + Koňe a Prase + Dukla @ Fléda, Brno, 25/04/2024

Avevo preso il biglietto per il concerto di Midi Lidi e Koňe a Prase al Fléda per la kapela di Valašské Meziříčí, di cui conoscevo una canzone. Alla serata era stata poi aggiunta una band della stessa etichetta. Inizio previsto alle 20:30: «Hmmm, non sarà un po’ tardi

I Dukla sono un trio di giuovini praghesi, con il loro bravo cappellino in testa, che suonano pop elettronico con influenze dal rap (il cantante) ai Joy Division (il bassista). Il loro punto di forza sono le basi registrate (del tastierista). Leggo ora che il loro ultimo disco è stato co-prodotto da Aid Kid e ha un featuring di Ela Tolstová, perché la Cechia\Slovacchia è piccola e la sua scena electro ancor di piú.

I Koňe a Prase salgono sul palco che sono quasi le 22, passano molto tempo a scherzare col pubblico, invitano a suonare con loro vari membri dei Midi Lidi… e dopo poche di canzoni dicono che si è fatto tardi e che devono concludere entro dieci minuti. Come siparietto finale chiedono di scegliere fra due loro pezzi, Žvýkačka e Vysavač, infine annunciano che suoneranno metà del primo e metà del secondo. Io boh.
Stěhovák dimostra come non sarebbero neanche male se non facessero gli scemi. Salutano con un ruffianissimo «Brno je lepší než Praha!»

I Midi Lidi, brunensi, mi sono stati suggeriti piú volte, ma quando passano per radio le mie orecchie non li registrano. Cinque minuti prima delle 23 stanno ancora montando gli strumenti e sistemando i MacBook. So già che finiranno a mezzanotte, quindi perderò il bus notturno, quindi arriverò a casa all’1…
«Are you leaving?!», mi chiede la guardarobiera mezza addormentata.

Korben Dallas @ Kabinet Múz, Brno, 30/04/2024

Korben Dallas è il personaggio di Bruce Willis nel Quinto elemento di Luc Besson.
I Korben Dallas sono un gruppo rock di Bratislava, nei canoni del gruppo rock melodico dalla faccia pulita alla Foo Fighters: c’è il chitarrista figaccione con la voce strappamutande (che nella vita vera ha uno studio di architettura), c’è il bassista timido e nerd, c’è il batterista giullare. Riempiono il Kabinet Múz con un 70% di slovacche/i della diaspora economica e tirano dritti un’ora e mezza, fra canzoni dell’ultimo disco e passati successi, fra ballate e derive metal. Sono sulla scena da quindici anni e si vede da come tengono in mano il pubblico, dagli aneddoti e dalle conversazioni che interpungono la scaletta, dai ritornelli sussurrati per lasciar cantare chi conosce ogni lirica. Effondono una positività malinconica, e mi dispiace non capire tutto quello che comunicano.

Corro e non so non so non so non so / dove.

Lana spettinata ·

È passata pressoché inosservata un’inchiesta di quei pericolosi comunisti di Bloomberg su come l’azienda tessile biellese Loro Piana (dal 2013 di proprietà del gruppo francese LVMH) compra a bassissimo prezzo in Perú la lana di vigogna che poi lavora in tessuti di nobilissimo pregio. Il Selezione dal Reader’s Digest de’ noantri riporta che l’inchiesta è stata del tutto ignorata dai media italiani; perché, aggiungo io, è sempre bene non dar fastidio agli inserzionisti.

Marcelo Rochabrun – The Brutal Cost of Quiet Luxury.

Ma io già sapevo come funziona il mercato della lana di vigogna, e come avviene la tosatura degli animali! L’aveva spiegato a me, Camilla, Claudia, Vito, e ad altri, un dirigente di Loro Piana in una saletta della Città Studi, intorno alla visione di questi due documentari aziendali:

Sí, prima o poi devo scrivere di quelle tre lollose settimane a Biella.
Intanto annoto che soltanto pochi anni fa si scriveva che il medesimo mercato aveva salvato la vigogna dall’estinzione per bracconaggio, e che i prodotti della medesima azienda tessile erano considerati “etici”. Dove passa il confine fra commercio e sfruttamento?

Internet explorer #37 ·

UCLA School of Education & Information Studies › How to help someone use a computer., by Phil Agre.

Brendan Gregg’s Blog › Brilliant Jerks in Engineering.
Also valid outside of engineering. As summarised by Reed Hastings: Do not tolerate brilliant jerks. The cost to teamwork is too high.

B’Tselem › A regime of Jewish supremacy from the Jordan River to the Mediterranean Sea: This is apartheid. [es/fr/it]
A useful recap from an Israeli NGO of which laws apply in the region to people of different ethnicity and of different residence.

Italy Segreta › For Your Eyes Only: The James Bond Guide to Italy, by Lorenzo Cibrario. [it]
The scene filmed at the train station in Sapri is the best thing from No Time to Die.

The Slovak Spectator › Slovak Matters: If it looks like Slovak and sounds like Slovak, it still may be Czech, by Tom Nicholson.
Funny that I can master all of the author’s “reminders”, and I am a foreigner too. I often joke that they are indeed the same tongue: I assume that living in the middle of this language continuum, surrounded by the Slovak economic diaspora, has helped me with passive bilinguism.

The Guardian › Slovakia’s brain drain ‘picks up pace’ under populist leader Robert Fico, by Ladka Bauerová.

The Slovak Spectator › On the Slovak-Ukrainian border, an American feels pessimism but also sees potential, by Jozef Ryník.

Meridiano 13 › “L’arte è bella. Il Partizan è eterno”. Con i GTR per le strade di Belgrado, di Gianni Galleri.
Avevo notato e fotografato questi murali nel centro di Belgrado, ma non avevo capito di cosa si trattasse. Erano stati realizzati da alcuni ultrà del Partizan – i Grobari, “becchini”, quei medesimi gravediggers cantati da Damon Albarn in Russian Strings – in onore di figure storiche della polisportiva. Gran parte di essi è stata cancellata da mano ignota all’inizio del mese.

Where’s Your Ed At › The Man Who Killed Google Search, by Edward Zitron.
On the enshittification of Google Search.

Goblin.band › offf, this story about how Google made google search into a pile of seagull shit hits me hard, by Javi A.
On the enshittification of WordPress (via Jamie Zawinski); because Matt Mullenweg is a techbro like any other techbro.

The New York Times › What Happened to the Joe Biden I Knew?, by Nicholas Kristof. 🎁
A close portrait of the current American president in light of his approach to Israel’s war on Gaza.

Politico › The Petty Feud Between the NYT and the White House, by Eli Stokols.
I understand the accusations of “bothsidesism” to the NYT, but here the Good Guys are behaving quite like the Baddies.

BBC News › The hidden village just metres from North Korea, by Jean Mackenzie.

RadioGold › Non porno più, di Tatiana Gagliano.
Video-intervista in quattro puntate al proprietario del fu Cristallo, il primo e unico cinema a luci rosse della provincia di Alessandria.

Seven views of Jerusalem /5 ·

Shabbat.

After a tiring day in the West Bank, we had it easy and we took a taxi to West Jerusalem to visit the Israel Museum, close to the Knesset.
The museum is inside a modernist building made of concrete and glass, lying within a botanical garden, and was organised chronologically from the Stone Age, through the Phoenician and Greek and Roman dominations, to the current era. A temporary exhibition was dedicated to Herod the Great [1]. Artifacts came from archaeological sites across the Levant, rather than from Eretz Yisrael only, and from the Diaspora, but went beyond a mere collection of Jewish-culture antiquities. Yet what struck me the most was a hall, where the interior of a synagogue was moved and reconstructed: it was the synagogue from Vittorio Veneto, Italy; for obvious reasons, in its original location this synagogue had become tragically useless.

A young woman observes a mosaic depicting a naval scene with Greek inscriptions.

In the late afternoon I parted ways from my companions, to soak up the atmosphere of the Old City, alone, in the golden hour. I strolled again near the Jaffa Gate, through the Armenian Quarter, along and inside the stone walls built by Suleiman the Magnificent. Out of the Zion Gate, I was walking eastwards, where the road turns left and downhill towards the Jewish Quarter: that is where I met God.
There was no one else around: other tourists were in their hotel rooms dressing up for dinner, merchants had closed their shops, Jews were home celebrating the end of their sacred day. I was approached by this man in his 40s, wearing casual clothes, heading in the same direction. We exchanged a few friendly words in English. I cannot remember our conversation, but I can remember distinctly how it ended: he told me that he came from the Czech Republic; I asked him if he was Czech; he shook his head, he said “No”, and he walked away. Befuddled, I looked up at the Mount of Olives; I looked back at him, but he had vanished.
Was he God? Was he Massi from the future? Was he a Shin Bet agent checking on me? I will never know.

The Mount of Olives at twilight as seen from the vicinity of the Zion Gate.

The sun finally set. Children in white shirts were allowed to play football at a yeshiva. I met again my companions at an Armenian restaurant overstuffed with decorations and showing the tallest samovar ever. At night the streets of the Old City were roamed by lean Hasidic youth growing pe’ot, and the stones shone magically black and gold.

The tallest samovar ever and a quite short samotář.

[To be continued…]

  1. Should I buy today the exhibition’s catalogue that I didn’t buy then?

Gli occhi dell’amore (marròn) ·

[H]o stirato camicie per le prossime due settimane ascoltando il Best Of della prima parte di carriera di Jana Kirschner.
«“Donna” non è un genere musicale!» diranno le mie 1,5 lettrici femministe, però siamo lí: una giovane che imbraccia una chitarra e impugna una penna, e che scrive bozze di canzoni autobiografiche che sviluppa insieme a una band di turnisti maschi. Quasi inevitabilmente la produzione della casa discografica major dà alle composizioni un’impronta blues-rock che fa tanto donna vissuta, perché questo tipo di dischi lo compra(va)no gli uomini. Insomma, fino a dieci anni fa Jana Kirschner cantava roba non male ma non originalissima: tracce derivative del cantautorato radiofonico americano dei Novanta o pezzi orecchiabili di quelli per puntare al podio di Sanremo senza vincerlo. Leggo su Wikipedia che in seguito ha conosciuto un tastierista inglese che ha lavorato con Moloko e Zero 7, Róisín Murphy e Sia, e che ha prodotto le sue uscite successive, piú mature e interessanti (infatti la casa discografica l’ha lasciata a spasso). Devo fare un giro al negozio dell’usato dell’Alfa Pasáž.

Píseň týdne: Jana Kirschner – Na čiernom koni (17. března ~09:15. Qui siamo in territorio “premio della critica”.)

Del florilegio della prima parte di carriera di Jana Kirschner avevo già scritto, e dalle casse del mio stereo suona molto piú ricco che dai miseri auricolari dell’iPod. Il libretto del disco – un racconto delle sessioni di registrazione, inframmezzato dai testi di canzoni escluse (?) dalla raccolta – è interamente in slovacco e mi compiaccio di capirci qualcosa.

Il suo disco successivo è anche l’ultimo pubblicato con la casa discografica importante, e si capisce perché già dal primo ascolto. La forma-canzonetta è abbandonata per composizioni piú rilassate, che si prendono tutto il tempo necessario; la durata media delle canzoni nel Best Of è tre minuti e mezzo, in Krajina rovina è sei minuti e mezzo. Immagino la reazione del dirigente della Universal quando il master è stato recapitato sulla sua scrivania: non c’è proprio niente di commerciale o radiofonico qui!
L’album è stato registrato nel piccolo teatro di una villa in Moravia, penso in presa diretta, ottenendo cosí un senso d’inquieta intimità. Gli arrangiamenti variano fra il jazz da camera e l’elettronica (con qualche eccesso, tipo l’onnipresente effetto “puntina saltata”).
Krajina rovina […] è anche il titolo dell’ultima canzone, una poesia in musica sul trovare rifugio e pace nella terra madre.

Cosí scrivevo cinque anni fa della moja obľúbená československá speváčka. Seguí l’acquisto dei suoi album piú sperimentali, Moruša biela e Moruša čierna, al pericoloso limitare del teatro-canzone che dà l’impronta al live Živá. Esclusa una raccolta di ninne-nanne, Jana Kirschner non ha piú pubblicato un album d’inediti fino al mese scorso, quando è uscito Obyčajnosti (“Cose ordinarie”).
In questi cinque anni Jana Kirschner è transitata per Brno un paio di volte, e io ero altrove. A promozione di Obyčajnosti è stato organizzato un breve tour di Slovacchia e Cechia, di cui ho ansiosamente preso un biglietto. La mia copia del disco è rimasta a lungo ferma in un deposito di Praga, per cui ho dovuto ascoltarlo su YouTube, ed è arrivata a Jundrov il giorno del concerto, con l’ufficio postale chiuso: niente autografo!

Jana Kirschner @ Fléda, Brno, 09/04/2024

Alle otto della sera la coda davanti al Fléda è lunga una ventina di minuti. La demografia del pubblico tende al femminile/maturo/slovacco – come Kirschner – ma ci sono anche giovani maschi stranieri, e coppie di anziani locali. Penso che molti avventori siano qui per la carriera pop di Kirschner e/o la conoscano come giudice in un talent show. Obyčajnosti è meno sperimentale delle Morušy ma non è un disco pop e non ha canzoni radiofoniche (a eccezione forse del singolo Struny, con una certa influenza hip-hop). Qualcuno uscirà annoiato e/o deluso. E io?

Sul palco salgono: un bassista, un chitarrista, un clarinettista, un batterista, un percussionista, una tastierista, due coriste; ed Eddie Stevens, il compagno e produttore, stasera appartato direttore d’orchestra. Jana Kirschner, con indosso una camicetta bianca, segue ultima sulle note del Prológ.
Apre la scaletta il banjo di A po nás, potopa (“Après nous, le déluge”). Ci metto un po’ a capire che la prima parte del concerto è interamente dedicata al nuovo album. Se tenessero fede all’atmosfera rarefatta e sussurrata del disco, assai adatta all’ascolto solitario notturno in cuffia in un tinello marròn, i dieci muzikanti ci manderebbero a nanna. E invece ne esaltano l’energia sottesa, il ritmo, abbandonandosi al parossismo.
Jana Kirschner è un’animala da palcoscenico: non sta ferma un secondo, sottolinea le frasi col corpo, gioca con le coriste, sbatte la distintiva chioma corvina, esalta gli assoli dei talentuosi polistrumentisti. A lei riesce quel che lo scorso novembre a Katarzia non è riuscito: coinvolgere il pubblico in materiale ancora sconosciuto alle orecchie dei piú. Al termine di Holubienka è esausta e si prende venti minuti di pausa.

Scaletta del concerto, diviso in due parti e un encore.

Jana Kirschner torna in scena con indosso una camicetta rossa, la chitarra acustica in mano, e il solo supporto della tastierista e delle coriste. È il momento intimista-karaoke: dal periodo pop intona Líška e Modrá, si alza il coro nazionale slovacco, le due giovani amanti al mio fianco si baciano e abbracciano (Mám, stále ťa mám, ma è un sogno). Dopo un discorsetto che capisco essere sulle recenti elezioni presidenziali, e che viene ben accolto dal pubblico progressista, rientrano tutti gli altri musicisti. Si riprende con Divná (la piú accessibile delle Morušy), e con il crescendo parossistico di Máj krásny Máj (da Krajina rovina) che è la mia canzone preferita delle sue e che riesce perfetta. Si continua con il klezmer gitano di Sama, con Láska neumiera (singolo che mi ero perso), e con Muzika! (l’altro pezzo facile delle Morušy) che evidenzia l’affiatamento con le coriste. Si chiude con Na čiernom koni che è la seconda mia canzone preferita delle sue e che riesce perfetta pure questa, e con Pokoj v duši che non scattano gli accendini soltanto perché siamo al chiuso. Mi manca Dunaj, la canzone che me l’ha fatta conoscere, ma va bene cosí.
Nell’encore un ukulele accompagna Jana Kirschner in un ringraziamento a musicisti e pubblico che sfuma in Unesená: è una versione diversa da quella eterea dell’album, sembra terminare in una coda alla Hey Jude, infine si spegne in uno zufolare collettivo diretto da Eddie Stevens.

Unesený e úplně uspokojený torno a casa nella notte piena di odori.

Gli occhi dell’amore (verdi) ·

Anna Vaverková + Kule @ Alterna, Brno, 21/02/2024

Lo scorso settembre non mi sono re-iscritto al corso di ceco, e non so come spendere le corone extra del welfare aziendale (i “punti Fragola”): cosmetici? massaggi? sport? Quindi ho cominciato a spenderli in prevendite di biglietti di concerti. Il primo concerto dell’anno doveva essere quello di Anna Vaverková e Kule all’Alterna, ma ero stanco e di cattivo umore e non sono andato ¯\_(ツ)_/¯.

Vltava @ Kabinet Múz, Brno, 20/03/2024

I Vltava sono stati una scelta casuale; poi Vojta mi ha ricordato che li avevamo già visti due anni fa al Ponava Fest in Lužánky e ce n’eravamo andati dopo due pezzi per la noia. E invece al Kabinet Múz il gruppo di Robert Nebřenský mi ha divertito, con il suo derivativissimo pop-rock imbastardito di reggae e di soul. Il pubblico canterino copriva due generazioni, io nel mezzo l’unico non-ceco/slovacco nostalgico. Sbirciato negli appunti del fonico: «kapacitu držet do 200 lidi (budou starší a potřebují komfort)».

Strain Rate + Franzie @ Stará Pekárna, Brno, 26/03/2024

Vojta’s band Strain Rate got their demo out of their first gig ever (once they cut off my fanboy screams). For their second public appearance, in that tiny basement with bad acoustics, they played roughly the same set, just swapping the crazy encore piece with an intimate song about break-up and beer. If Evička is counting correctly, these were the first sounds for Zdislava’s developing ears and musical taste.

Franzie’s soundcheck was promising, at least for the singer’s vocal tricks; when their set began, they shipwrecked in a sea of post-rock noise.

Playback on other websites has been disabled by the video owner, because Strain Rate are not the best self-promoters.

La globalizzazione è femminista? ·

L’azienda per cui lavoro ha programmi di tirocinio per studenti, attivi nelle nostre principali sedi: Chicago, Brno, Città del Messico, Penang.
Qui a Brno il programma copre i mesi di luglio e agosto. Io ho richiesto un tirocinante per un progetto che richiede idee fresche, e competenze che né io né la mia squadra abbiamo: è una cosa all’incrocio fra architettura dell’informazione e linguistica computazionale, con un possibile uso di IA generativa qualora funzionasse. Dall’ufficio del personale ho ricevuto una manciata di CV e videoclip (la Generazione Z è piú ad agio con la videocamera che con un foglio di testo) che ho vagliato con le due colleghe che formeranno il tirocinante e che lavoreranno con lui.
Le migliori candidature sono arrivate da tre giovani donne straniere, studentesse nelle università brunensi. Senza entrare in dettagli, vengono da quelli che fino a ieri chiamavamo il secondo e il terzo mondo. A parte l’inglese perfetto, possiedono le specifiche competenze richieste e/o un’attitudine comunicativa e/o una vivacità d’ingegno che si confanno al progetto. Sceglierò una di loro, e segnalerò le altre ad altri manager: l’obiettivo primario è scovare talenti, e c’è cosí tanto talento in movimento!

Due anni fa cercavo un analista dei processi aziendali da inserire in squadra. Le migliori candidature arrivarono da tre giovani donne indiane che percorsi differenti avevano portato in Cechia e nei dintorni. Avevano precedenti esperienze e avrebbero potuto trovare impiego in patria, in una delle centinaia di aziende di servizi di Bengaluru o di Mumbai, ma erano assai determinate a costruirsi una carriera in Europa.

Queste giovani donne talentuose avrebbero potuto far notare le proprie eccezionali qualità, prima che l’economia diventasse globale?

«La globalizzazione è femminista?» è una semplificazione; probabilmente vale la legge dei titoli di Betteridge. Voglio dire: la globalizzazione sta migliorando la condizione femminile su scala globale? Non ho una risposta, né sono certo che la domanda stessa sia corretta o sensata.
Cercare su Google “Is globalization feminist?” non fornisce alcun risultato esatto – nessuno ha mai posto la questione nei medesimi termini – ma rimanda a testi in cui le parole chiave sono rilevanti.

Il primo risultato è la voce Feminist Perspectives on Globalization della Stanford Encyclopedia of Philosophy, in cui le autrici Serena Parekh e Shelley Wilcox articolano i diversi possibili punti di vista. Un passaggio mi sembra suggerire che per alcune filosofe la domanda possa persino essere considerata offensiva:

Schutte insists that ostensibly universal feminist values and ideas are likely to embody the values of dominant cultures. This helps to explain why the voices of women from developing countries are often taken seriously only if they reflect the norms and values of the West and conform to Western expectations. Thus, Schutte insists that feminists must engage in methodological practices that de-center their habitual standpoints and foreground perspectives that challenge accepted ways of thinking (Schutte 2002). Khader extends this call, urging transnational feminists to reject the problematic variants of “Enlightenment liberal” values taken to be central to Western feminism, including individualism, autonomy, and gender-role eliminativism (Khader 2019, 3). Such values not only constitute cultural imperialism when imposed on cultural “others,” as Schutte argues, but also can serve to justify militarism, political domination, economic exploitation, and white supremacy in the name of advancing gender interests (Khader 2019).

Che schifo, i valori dell’illuminismo liberale!

Un paragrafo sulla giustizia economica evidenzia le contraddizioni che si sono create per le donne che sono rimaste nel Sud globale:

Proponents of globalization argue that the expansion of export processing has had positive consequences for women, providing jobs for thousands of otherwise unemployed women and offering new forms of agency. However, feminist political philosophers argue that jobs on the global assembly line tend to be difficult, insecure, and dangerous: working conditions are poor, hours are long, wages are low, and sexual harassment is widespread (Young 2007, 164–67). Thus, they contend, the results for women are contradictory at best. As Jaggar argues, while women’s increased economic power may provide them with some freedom within their families, they are also “super-exploited by foreign corporations with the collusion of their own governments. As employees, they often experience a type of labor control that is almost feudal in its requirement of subservience and dependence” (Jaggar 2001, 306).

La sezione sulla migrazione pone l’attenzione sulle lavoratrici domestiche e sulle “catene globali della cura”:

These chains, which link women across the world, are established through the transnational exchange of domestic services. Global care chains typically begin when relatively well-off northern or Western women enter the paid labor force and hire other women, usually poorer women from developing countries, to care for their children and other dependents. Migrant careworkers often must leave their own children behind in their home countries to be cared for by even poorer careworkers or family members who may already have care-giving responsibilities or be engaged with paid labor.

L’articolo non tratta le high-skilled workers, le giovani donne talentuose con cui ho piú spesso a che fare: è possibile che esse siano le uniche per cui la globalizzazione è un guadagno netto. Qui si può aprire il dibattito, non limitato al genere femminile, su low-skilled e high-skilled, ovvero i nuovi sommersi e salvati nella competizione capitalista; e ci si può chiedere se queste high skills siano state conseguite con fatica o con fortuna, per merito personale, o per privilegio di classe o familiare, ecc.

Like Leila Khaled said /4 ·

We weren’t stranded on that emergency lane for long; half an hour later we crossed further checkpoints and we reached Bethlehem.

Chaotic street as seen from inside the van, with twin minarets in the background.

Somewhere on the road to Bethlehem; it may be East Jerusalem, but I cannot find these twin minarets anywhere on the web.

Like Jericho, the town where Jesus was allegedly born also lies in the Area “A” of the Occupied Territories. When we arrived it was already mid-afternoon and the streets were chaotic with random vehicles: local cars, pilgrims’ coaches, yellow taxis, our white van among them.
We bowed our heads down and we entered the Basilica of the Nativity by its low-framed Door of Humility. A Palestinian Christian showed us around. The church had just been declared a World Heritage Site and was under extensive renovation, still its structural features were visible: the irregular stone floor, the wooden ceiling, the gold-decorated apse. The remains of the millennium-old mosaics were its most interesting artistic elements. Tourists were scarce, mainly gathering inside the crypt, better known as the Grotto, with an altar marking the place where Mary gave birth to Jesus (maintained by the Greek Orthodox), and with a separate spot where Mary laid Jesus in the manger (maintained by the Franciscans). No signs of veneration for the ox and the ass, nor for poor old Joseph who patiently witnessed all of that.
Walking out on the sunny square in front of the Basilica, we stopped to look at a tabby cat in the quiet, shaded garden of a Franciscan hostel. A friar came by, made it clear that we weren’t welcomed, and shut the gate.

Tabby cat in the quiet, shaded garden.

The streets of Bethlehem are lined with ugly buildings of naked cement bricks which host tourist traps facilities. We visited one souvenir shop for our mandatory purchases: postcards, rosaries. I was enthralled by a small statue of Saint Peter, carved in olive wood, seemingly genuine; it would have been a perfect gift to my father, but the price was quite high. I decided how much I would pay, and I kept that amount of shekels in my wallet, hiding the rest. I went to the salesman and I negotiated for my price, literally showing him that was all I had; he didn’t agree, so I waved goodbye and I walked out the shop. There I started counting seconds: only half a minute later he called me back in. I ended up paying 40% of the asking price, which means my statue was not worth half of that. I guess it is a game local merchants have played countless times.

Carved wooden statue of Saint Peter, with ruler showing a height of about twelve inches.

Today it can be yours for $539. Ships from Colorado because why not.

On the way back to Jerusalem the van drove us along the West Bank barrier, which Israel built mostly inside Palestinian territory. The section circling Bethlehem is the most famous: that is where Banksy painted his stencil figurines and later financed a hotel, where other artists show solidarity to the cause, where the local youth express their anger, all under Western tourists’ eyes. Approaching the Israeli exit checkpoint, passport at hand, I managed to snap some shots; but the van was going too fast when we passed by the mural depicting Leila Khaled.

Blurry shot of the mural depicting Leila Khaled, her name can barely be seen. Proper shot of the mural depicting Leila Khaled, a smiling woman wearing a keffiyeh and holding a Kalashnikov. The writing says: «Dont forget the struggle».

Wikipedia user Bluewind had a firmer hand than mine. © CC-BY-SA 3.0.

Leila Khaled is a former militant / terrorist / freedom fighter and national heroine, depending on whom you ask. In the late ‘60s / early ‘70s she became the charming poster woman of the Palestinian liberation struggle. She has had several works of art dedicated to her, including a quite sympathetic documentary that is available on Vimeo and on YouTube, and the song by The Teardrop Explodes that I will embed below. Imagine, nowadays, recording a love song to an anti-Zionist plane hijacker.

[To be continued…]

Nová hudba, ktorej verím #8 ·

Lael Neale – In Verona

(Via Daniel Baláž and Matthew Perpetua.)
In Verona, where we lay «… our scene!», my Shakespeare readers will instantly exclaim. As Perpetua puts it: The song moves at a brisk walking pace, with piano chords circling the center of the mix like a hypno-spiral. The accompaniment gets more soaring and dramatic, but there’s no rhythmic catharis. You steadily move ahead for eight minutes, passing through inclines, epiphanies, storms, and little moments of grace, and eventually you stop at some mysterious destination. Yet the destination of the song, and the setting of this tainted love (?) story between a friar and a nun, may not be Verona, Italy, but rather Verona, California.

Trinket – New Hobby

(Via Steve Lamacq.)
Earlier this week, in an interview with Lammo from SXSW, their singer said something like Trinket had never been outside of NYC before. They must have spent their lives in their tiny Brooklyn bedrooms, listening to C86 compilations all summers long.

Anna Erhard – 170

Annə, exotropic, very_british, aus Berlin. Lidl shoes. Siegessäule!

(Via Nika Svorenčíková and Huw Stephens.)
As a 5′6″-tall man I feel personally attacked.

Yungatita – Pick at Your Face

(Via Matthew Perpetua.)
Valentina Zapata aka Yungatita is a visual and music artist from San Gabriel Valley with a clear taste for indie-rock from the ‘90s, good songs, and an awesome backing band. After an EP that she couldn’t promote during pandemic times, with its lead song about abortion, in January she released her debut album, Shoelace & a Knot. Also she has issues with Joe Biden.

Internet explorer #36 ·

Aeon › This granular life, by Carlo Rovelli.

Antidote Zine › Same/Different, by Andrea Glioti.
A Comparative Study of Kurdish-Led Rojava and Opposition-Held Syria.

SGMOIKYouth Cooperatives: An Emergent Model for a Palestinian Resistance Economy, by Faiq Mari.
Through brute force, taxation and other policies, Israel gradually suffocated Palestine’s productive sectors, as a consequence of which most Palestinians became wage workers. While I ignore what Palestine’s productive sectors were in the past, and I am sceptical that its economy can – one future day – be re-started from agriculture, I realise that the economics of the occupation are never a subject in the neverending Western debate over Zionism. Also from the article: the Palestinian Social Fund, a non-profit organisation registered in Canada that supports cooperative farms (via Antidote Zine).

Transitions › Promises Unfulfilled, by Charlotte Robertson.
“The [Czechoslovak] state committed the crime [of forced sterilisation]. The [Romani] victim has to prove that the crime was done.”

Transitions › Are There Too Many Stay-At-Home Czech Moms?, by Isabel Ames.
No, but these prolonged career breaks contribute to the prevailing gender inequality in the Czech Republic.

Aeon › Liberal socialism now, by Matthew McManus.
The case for liberal socialism in the 21st century. I must re-read Carlo Rosselli.

Antinomie › La fabbrichetta di Kafka, di Riccardo Venturi.
Franz Kafka come un inconsapevole Stephan Schmidheiny.

Road & Track › Behind F1’s Velvet Curtain, by Kate Wagner.
The funny case of a car magazine who sent a self-described “card-carrying socialist” writer to a Formula 1 race, then published her benevolent but critical article online, then deleted the article from its website like no one had noticed and saved an archive copy of that masterpiece.

Lavoce › Tutti i rischi della cittadinanza a punti, di Vitalba Azzollini.
Liberali italiani 🤝 comunisti cinesi.

The New York Times › Automakers Are Sharing Consumers’ Driving Behavior With Insurance Companies, by Kashmir Hill. 🎁
Good rule of thumb: If your car has a CD player, it is protecting your privacy (via Pluralistic).

When I landed on the article above, which is behind a paywall like most New York Times articles, and is written by the same tech journalist as the first article that I bookmarked in this series, a prompt offered me a 1-year subscription to the Times for only 20 €. I subscribed. Not only do I have access now to a firehose of content, but I can share this content with non-subscribers as ten “gift articles” per calendar month (links expire after thirty days). So keep an eye out for the gift emoji 🎁 and feel free to ask me for gift links to NYT articles that may interest you.

Internet explorer #35 ·

The Paris Review › Divorce Does Funny Things, by Tabitha Lasley.
I wrote that I found Tabitha Lasley’s prose sloppy…

Granta › One Day It Will all Make Sense, by Tabitha Lasley.
… but I sensed it was the Italian translator’s fault, and indeed it may be the case.

The Telegraph › Walking, wine, castles and cuisine make Alto Monferrato the perfect piece of Piedmont, by Sarah Lane.
«Gavi is in Oltregiogo!», my little readers will instantly exclaim. Also, Strevi as a tourist destination? Seriously?

The Observer › [A] deadly attack on a Slovakian gay bar – and its link to a fast-spreading racist ideology, by Jason Burke.

UnHerd › The male baldness industrial complex, by Nicholas Harris.

Financial Times › ‘Enshittification’ is coming for absolutely everything, by Cory Doctorow.

RSFRSF dissipe les idées reçues dans l’affaire Julian Assange / RSF dispels common misconceptions in the case against Julian Assange.

The Guardian › A train through Ukraine: a journey into the stories of two years of war, by Shaun Walker and Kasia Stręk.

East Journal › L’Occidente tradirà l’Ucraina? L’amaro bilancio dopo due anni di guerra, di Matteo Zola.

Mastodon.uno › Le elezioni europee spiegate in modo puccioso, di Stefano Tartarotti.

With English subtitles / avec doublage français auf Arte.tv (via Jon Worth).

Seven views of Jerusalem /3 ·

In the third and central day of our short trip we visited the Occupied Territories / the West Bank.

The previous morning I had asked the concierge to tip us to a local travel agency who would take us around; he had answered that the hotel could arrange a tour, others were interested. We got grouped with a married couple and with a pair of French-Algerian mother and daughter. In the white van were the driver and a young guide who spoke broken English.
There were traffic jams at the checkpoints leaving Jerusalem. The journey eastward, down the immaculate tarmac of the Kvish Ahat, revealed to us the bare nature of Judaea: scattered trees, rocky hills; and only desert, below the sea level. There is an altitude drop of more than 1 km from Jerusalem to the Dead Sea.

View from the van: a sign in English, Hebrew and Arabic tells the travellers that they are at sea level.

The first stop was at a barren, empty resort on the coast. The water glimmered of a quiet shade of blue, the Jordan hills stood beyond heated haze in the distance. You could see, smell, taste, touch the salt. I got my shoes off and I dipped my feet in the sea: I would have tried and float, had I brought trunks. From the loudspeakers a voice sent a warning that sounded for me only, indeed it stopped when I got out of the water.
On the way back to the van I passed by two middle-aged men, smoking placidly in the shade, a cigarette and a shisha. I digged into my fifteen lessons of Arabic and I greeted them «salam alaykum»; they gave me a certain look. Then I noticed that only Israeli flags were flying above us. It occurred to me that perhaps those two men would have preferred to be greeted «shalom aleichem».

The two men, relaxing on plastic chairs, fully clothed but with their shoes off, smoking.

Jericho lies in the Area “A” of the Occupied Territories, under full (theoretical) control of the Palestinian National Authority. It is a sister city of my hometown – also thanks to the pious work of my former parish’s former priest [1] – although no signs of twinship could be found during our visit. Instead, Jericho was littered with archaeological excavations, trying to connect its desolate present with its illustrious past, and with references to episodes of the Gospel: under a wonderful tree that was claimed to be Zacchaeus’s sycamore we bought a box of delicious dates.
A cable car (!) took us to the Greek Orthodox monastery which is built/carved into stone half-way up the Mount of Temptation; there we stole a twig of basil, with a strong scent and with dark-green/purple leaves, the seeds of which my father would later plant in his vegetable garden. And from the monastery it was quite a sight, down from the red mountain to the lush vegetation of the plain: I am glad to read that years later the Jericho Oasis Archaeological Park was established with Italian public funds.

The Greek Orthodox monastery, as seen from the cable car.

The van drove us among marked minefields to a slow stream of yellowish water flowing between close banks covered in palms: River Jordan. On the West side, under the Star of David, Qasr al-Yahud; on the East side, under the pan-Arab colours, al-Maghtas, the one “Bethany” where the Gospel of John reports that Jesus was baptised. The reason why so many pilgrims flock there is to bathe in the very same waters where John the Baptist practiced his ritual; ideally, to renew their Christian vow. I am not sure that my companions understood the significance of their carefree refreshments; I did, and that is why I refused to “bathe in the Jordan”.
A burst of laughter: a herd of Eastern Orthodox nuns, covered from head to toes in black robes, had entered knee-deep in the river, shrieking and splashing one another, crying in pure joy, teaching me happiness.

The herd of Eastern Orthodox nuns, bathing in the yellowish waters of River Jordan.

On the road to Bethlehem, at the foot of a hill colonised by Israeli settlers, two hundred metres before the junction between the Kvish Ahat and the Kvish Arba-Ahat-Sheva, the van stopped. The driver and the guide exchanged a few words, then they told us: we had run out of fuel!

Stranded on the highway: road signs for Ma’ale Adumim (417, ahead) and Jerusalem (1, right).

[To be continued…]

  1. In 2016 the municipality named a garden after him; may he burn in hell.

Just a casual, casual, easy blog ·

Nel maggio del ‘16 venni a lavorare e a vivere a Brno. L’aneddoto è arcinoto: avevo caricato il mio CV sul sito dell’EURES, un tale mi spammò un’offerta di lavoro presso la sua azienda, senza che io acconsentissi il tale girò i miei dati al suo ufficio del personale, l’ufficio del personale m’invitò a un colloquio via Skype, ecc. Quando dicono che le occasioni non bussano alla porta: be’, talvolta bussano.

Ancor prima di volare da Milano a Praga, ancor prima del secondo colloquio, come avevo fatto nell’agosto del ‘13 prima di volare in Iscozia, aprii un blog su Blogspot: il titolo era Moravian Like You, con (ovvio) riferimento alla canzone dei Dandy Warhols. Il blog era sí pubblico ma non era indicizzato; ne diedi l’indirizzo moravianlikeyou.blogspot.cz a famiglia e amici.

La versione nudista del videoclip, con un diverso montaggio, è disponibile su Vimeo e su YouTube.

Ho importato (il primo anno di) Moravian Like You dopo aver fatto un’accurata pulizia del codice di Blogspot, e dopo aver allineato lo stile dei post alle Virtualia?. Ho recuperato le foto dai miei rullini digitali; se una foto era stata scattata col cellulare, l’unica copia oggi disponibile è quella in formato ridotto del backup. Molti link esterni puntano alle corrispondenti pagine salvate nell’Internet Archive. Alcuni paragrafi che preferisco tenere sotto chiave in una cartella del mio laptop sono indicati come {OMISSIS}; il taglio di singole frasi è indicato come {…}.

L’autocensura riguarda una dozzina di post che trattavano di clienti o di colleghi, talvolta in modo poco opportuno, benché usassi sempre pseudonimi geografici o convolute locuzioni anonimizzanti. Ho conservato quei paragrafi il cui soggetto ho trattato in seguito, o la cui assenza renderebbe meno comprensibile gli articoli seguenti. Scopo di Moravian Like You era raccontare a famiglia e amici le mie storie di emigrato, l’impiego che mi ero trovato che mi aveva trovato, le persone che incontravo. Uno scopo delle Virtualia? è tenere traccia di un percorso, e non c’è piú bisogno di ritrattini caustici. I miei futuri biografi potranno riesumare i testi originali dal suddetto laptop o dai server di Google.

Harmonogram, come dicono da queste parti:

Buona lettura!

Signal Failure ·

Cet article ici est dédié à Martine, ma traductrice de “Monbió” préférée.

Quand j’ai abandonné les “boulots à la con” de David Graeber, j’ai découvert ce livre dans le catalogue de ma liseuse électronique. Au début, j’ai cherché et trouvé une copie pirate; lorsque j’avais lu la moitié, je l’ai acheté comme il faut.

La clé est dans son titre: Signal Failure est l’histoire d’un échec, comme Mer agitée de Tabitha Lasley ou La Vie aigre de Luciano Bianciardi. À la difference de ces livres, l’échec est le point de départ pour une introspection qui développe le sujet plus profondément.
L’auteur, Tom Jeffreys, est un écrivain sur l’art et la culture, et un artiste lui-même. Dans novembre 2014, il parti de Londres à pied, direction Birmingham, sur le parcourse proposé pour la ligne de chemin de fer à grande vitesse HS2. Il voulait raconter comment la ligne – et avant d’elle, sa construction – aurait changé l’espace physique, naturel et social entre les deux villes. C’est une approche à la marche qui s’appelle psychogéographie, et qui s’inscrit dans une résurgence du nature writing. L’échec de Jeffreys fut double: il ne connaissait pas la nature dans laquelle il marchait, et il dut s’arrêter à la moitié du chemin à cause d’une blessure. Le juillet suivant, il reprit et termina sa marche; après ça, il écrivit son mémoire.

Son mémoire est plein de réflexions philosophiques, que je ne sais pas commenter, et de références aux œuvres célèbres d’autres écrivain(e)s de nature writing, que je ne connais pas sauf George Monbiot et Rebecca Solnit. Aussi, je sais rien au sujet du HS2. Mais je peux lire ce livre politiquement: Tom Jeffreys vient de la middle class, et il parle avec personnes de la même classe, d’où son seul point de vue. L’opposition à la ligne, de laquelle il prend note sur son chemin, est toujours pour un motif: la construction ira perturber leur style de vie. [T]he reason why many people actually choose to live in the country: ‘peace and quiet’ are the words that crop up again and again along the route. Les raisons économiques en faveur ou contre ne sont pas traitées. Jeffreys se plaint que les personnes ne sont pas envisagées par les rédacteurs du projet; mais, en omettant la dimension économique, dans laquelle les personnes vivent leurs vies, il commet la même erreur.

I ask a man with a dog if I’m going the right way, but I can’t understand his accent. I nod and pick up my pace to avoid having to walk together.

Ceci est son troisième échec.

Seven views of Jerusalem /2 ·

A muezzin at the Sheikh Jarrah mosque (or perhaps a tape recording blasted from loudspeakers) woke my mother and me up at dawn, 04:30.

Hours later we strolled along Salah ad-Din Street, a road busy with people and with commercial enterprises of the most disparate kinds: a soft landing onto another world, looking differently but whose mechanisms we could recognise. We entered the Old Town through Herod’s Gate, which was teeming with women and children and old men visiting the local grocery markets and shops. We roamed around the narrow roads of the Muslim Quarter, beneath arched underpasses and up steep stairs; a mix of the ancient and the modern, but with a battered demeanor, corrugated iron and scattered garbage opposed to the magnificent gardens within white stone walls. We wanted to access the Holy Esplanade / the Temple Mount / Haram ash-Sharif, but every portal was closed shut; down one dead-end lane, a child threw a stone at us.
Inside a small and otherwise quiet church we saw a young Western man dressed in a white robe, praying with unmatched intensity, suffering with the Jerusalem syndrome. We would encounter him again later, doing the rounds among Christian landmark sites.

At-Takiyyah Ascent: above the dark street with open shops selling clothes and food, a metal grill; above the grill, the sunny upper half of the buildings.

We took up the Via Dolorosa and turned south to the at-Takiyyah Ascent, where a metal grill seven metres above ground protected merchants and passers-by from unfriendly neighbours: something I had already seen on TV, but I thought pertained only to settlements like Hebron.
At the end of the road we got to an armed checkpoint, where bored IDF soldiers acted as both security guards and touring guides. They spoke English: I referred to one of them as “sir”, which prompted some mocking by his mate. Past the weapon detectors we got to the sunny square in front of the Western Wall: a unique mix of a holy site and a tourist trap, with soup kitchens next to fancy restaurants, and toilet facilities under seats of rich foreign foundations. Lots of families with kids celebrating their bar and bat mitzvah; lots of Americans. It was definitely not the right place to shout «Allahu Akbar», like an Israeli man would do a week later.

On the foreground of the Western Wall, a family of neatly-dressed Orthodox Jews: father, mother, five children aged about six to thirteen; an uncle overlooks, a man takes their picture.

The approach to the Wall was divided by a light fence between men on the left/north and women on the right/south. It was mostly men who prayed beside the Wall, either in communal rituals or in pious contemplation of the Scriptures; some were dressed in plain summer clothes, some in serious dark garments. Women and children had a more relaxed behaviour, as either less interested or not required to participate.
The only allowed entry to the Esplanade was temporarily unavailable. After lunch we returned to the armed checkpoint and we went down to the tunnels, which take visitors closer to where the core of the Temple was once located, and therefore are of significant religious relevance. Their excavation is also extremely controversial, as the Arabs see them as a way for the Jews to sneak beneath Haram ash-Sharif.

Two elderly Orthodox Jews pray in front of the Western Wall: one standing with his forehead and his right palm pressed against it, the other sitting on a plastic chair and reading a secret text.

It must have been in Gerusalemme by Franco Cardini [1] that I read that all Christian pilgrimage sites in the Old City, around and including the Basilica of the Holy Sepulchre, are essentially fake: they were built on top of ruins of old temples which in turn had been built on the spot where someone thought that centuries before something may have happened. Yet the stratification of history is fascinating; the petty quarrels among various denominations are amusing; and the sincere devotion of pilgrims is moving, especially so if the faithful are delicate Orthodox ladies in mystical and sensual rapture.

Hundreds of Templar crosses carved in brown stones.

In the Christian Quarter I was more impressed by the relatively modern and surprisingly quiet agora/bazaar complex of Suq Aftimos.
During that short trip to Jerusalem and surroundings I mostly talked with shopkeepers. The one who sold me the «Let there be light» t-shirt that I still wear, who asked me where I was from, told me he was an admirer of Del Piero and Mussolini, and said they didn’t need democracy. The one sitting on a chair near the Jaffa Gate, who lured me into his boutique and wasted short of half an hour trying to sell me silver trinkets that I had no intention to buy. The one where I stopped for a fresh beverage to go, who resolutely made me sit at one of his deserted tables, in a psychological move to capture the interest of other tourists. Just brief encounters, glimpses of the levantine spirit.

Two children playing football in the market, in sight of a security camera.

[To be continued…]

  1. Obligatory disclaimer for my Italian readers: I don’t subscribe to his political views.

Internet explorer #34 ·

The Paris Review › E. M. Forster, The Art of Fiction No. 1, by P. N. Furbank & F. J. H. Haskell.
A useful trick is to look back upon such a person with half-closed eyes, fully describing certain characteristics. I am left with about two-thirds of a human being and can get to work. A likeness isn’t aimed at, and couldn’t be obtained, because a man’s only himself amid the particular circumstances of his life and not amid other circumstances. [1] […] When all goes well, the original material soon disappears, and a character who belongs to the book and nowhere else emerges.

The Paris Review › Christopher Isherwood, The Art of Fiction No. 49, by W. I. Scobie.
It happens through the process of thinking of them in their eternal, magic, symbolic aspects: It’s rather the way you feel when you fall in love with somebody and that person ceases to be just another face in the crowd. The difference is that in art, almost by definition, everybody is quite extraordinary if only you can see them as such. When you’re writing a book, you ask yourself: What is it that so intrigues me about this person—be it good or bad, that’s neither here nor there, art knows nothing of such words. Having discovered what it is you really consider to be the essence of the interest you feel in this person, you then set about heightening it. The individuals themselves aren’t quite up to this vision you have of them. Therefore you start trying to create a fiction character that is quintessentially what you see as interesting in the individual, without all the contradictions that are inseparable from a human being, aspects that don’t seem exciting or marvelous or beautiful. The last thing you’re trying to do is get an overall picture of somebody, since then you’d end up with nothing.

Granta › A Kidnapped West or Culture Bows Out, by Milan Kundera.
The same text as in The Tragedy of Central Europe, but with legible footnotes.

Granta › Somewhere Behind, by Milan Kundera.
Kundera on totalitarianism, by way of Josef Škvorecký and Franz Kafka and Jan Skácel; I read it also as an oblique response to Václav Havel.

Granta › An Interview with Milan Kundera, by Ian McEwan.

The Paris Review › Milan Kundera, The Art of Fiction No. 81, by Christian Salmon.

Granta › Failed Saxophonist, by Josef Škvorecký.
A short and sweet autobiography: through no fault or credit of mine, I was apparently walking some strange sort of tightrope which neither the political Right nor the political Left approved.

The New York Review of Books › Jamming the Jazz Section, by Josef Škvorecký.
Counterculture in the years of Normalisation.

The Paris Review › Josef Skvorecky, The Art of Fiction No. 112, by John Glusman.
[W]e’ve received letters from people—particularly during the summer, when many Czechs go to Yugoslavia for vacation—telling us about our books, though the letters are unsigned. Whoever owns a copy really operates as a lending library, maintaining lists of subscribers, and restricting loans to forty-eight hours. The one complaint we’ve had is that our books should be published in hardcover since they tend to fall apart after 300 people or so have read a copy. But the books are also copied—though not xeroxed, since access to reproduction machines in the ministries and public libraries is closely guarded. So our books are retyped, and carbon copies are made. Ironically, they’re more intensively read in Czechoslovakia than in exile; access to books here seems to reduce interest in them. […] In 1968, when censorship relaxed, there was a sharp drop in book sales in Czechoslovakia because the daily papers and magazines were full of real news. Now, however, there’s real interest in books from abroad in Czechoslovakia, because the information they contain can’t be gotten elsewhere.

Granta › Feminine Mystique, by Josef Škvorecký.
An autobiographical story that was later included in When Eve Was Naked.

Granta › The State of Europe: Christmas Eve 1989, by Josef Škvorecký, Ivan Klíma, Stephen Spender, et al.
What a time to be an intellectual, the end of 1989 must have been! Here I liked the contributions from George Steiner and Werner Krätschell.

Granta › A Childhood in Terezin, by Ivan Klíma.
When you live with death, you must, consciously or unconsciously, develop a kind of resolution. The knowledge that you can be murdered tomorrow evokes a longing to live intensively; the knowledge that the person you are talking to can be murdered tomorrow, someone you may be fond of, leads to a fear of intimacy. You build in yourself a kind of wall behind which you conceal what is fragile of yourself: your deepest feelings, your relationship to other people, especially to those closest to you. This is the only way to bear the repeated, despairing and inevitable partings. // If you construct such an inner wall when you are still a child, you must then spend the rest of your life tearing it down, and the question is, can you ever manage to destroy it completely?

The Paris Review › Michel Houellebecq, The Art of Fiction No. 206, by Susannah Hunnewell.
“An old Calvinist pain-in-the-ass”: I tend to think that good and evil exist and that the quantity in each of us is unchangeable. The moral character of people is set, fixed until death. This resembles the Calvinist notion of predestination, in which people are born saved or damned, without being able to do a thing about it. And I am a curmudgeonly pain in the ass because I refuse to diverge from the scientific method or to believe there is a truth beyond science.

  1. It seemed to me an error in reasoning for a man to isolate a woman he loves from all the circumstances in which he met her and in which she lives, etc.

Lavori del cazzo ·

Ho abbandonato Bullshit Jobs di David Graeber al termine del secondo capitolo.
Lavori del cazzo è probabilmente il saggio anticapitalista del decennio scorso. Nacque su una rivista anarchica britannica come un articolo che ebbe un’immediata risonanza nel mondo anglosassone, e l’autore (antropologo americano) fu convinto a svilupparne il tema in un libro.

È un saggio rigoroso quanto un rutto in birreria.
L’idea di partenza è che abbiamo raggiunto un livello tecnologico che dovrebbe permetterci di lavorare poche ore alla settimana (è appunto una sua idea, al cui sostegno non è fornita alcuna fonte); se questo non accade è perché molti di noi sono occupati in impieghi inutili. Graeber deriva una definizione di bullshit jobs dalle testimonianze raccolte dopo la pubblicazione dell’articolo, e sollecitate in seguito via social media:

[A] form of paid employment that is so completely pointless, unnecessary, or pernicious that even the employee cannot justify its existence even though, as part of the conditions of employment, the employee feels obliged to pretend that this is not the case.

Traduco:

Un tipo d’impiego retribuito che è cosí totalmente senza senso, inutile, o dannoso che persino il lavoratore non può giustificarne l’esistenza benché, come parte delle condizioni dell’impiego, il lavoratore si senta tenuto a fingere che la situazione sia diversa.

Graeber si chiede perché gli impieghi inutili esistano in una società capitalista, quando il capitalismo ambisce a eliminare gli sprechi ovunque. Sulla base delle medesime testimonianze di lettori occidentali, l’autore individua poi cinque categorie di bullshit jobs (senza fare distinzione alcuna fra pubblico e privato); ma sono cosí vaghe che egli stesso ammette come non rappresentino adeguatamente i vari esempi proposti.
Alla fine, se un lavoratore dice che il suo lavoro è un lavoro del cazzo, allora il suo lavoro è un lavoro del cazzo, chi può saperlo meglio di lui? Una tautologia populista, convalidata da un sondaggio [1] secondo cui il 37% dei britannici pensa che il proprio impiego non dia un contributo significativo alla società; se agli scontenti si aggiunge chi fornisce servizi utili a chi fa lavori inutili, allora metà della popolazione è impiegata in bullshit jobs. Qui ho smesso di leggere.

I miei 2,5 lettori sanno che da 2,5 anni faccio il gestore dei processi aziendali. Ovvero, io e la mia squadra forniamo supporto (settore terziario avanzato) ai colleghi dei servizi amministrativi (settore terziario) che elaborano ordini per prodotti industriali (settore secondario) costruiti con materie estratte da qualche parte nel sud del mondo (settore primario). A dirla con Luciano Bianciardi, sono la vaselina negli ingranaggi del capitalismo. A dirla con Carlo Marx, sono un servo dal cui sudore cervello i padroni estraggono plusvalore. A dirla con David Graeber, sono un duct-taper, talvolta un box-ticker, certamente un taskmaster: tre mansioni senza valore per la società (se non forse, indirettamente, per i clienti dell’azienda); eppure ricevo uno stipendio ogni quindici del mese.
Many duct-taper jobs are the result of a glitch in the system that no one has bothered to correct—tasks that could easily be automated, for instance, but haven’t been either because no one has gotten around to it, or because the manager wants to maintain as many subordinates as possible, or because of some structural confusion, or because of some combination of the three. Quello “easily” mi manda in bestia, offende me e le decine di colleghi con cui sono in call ogni giorno per risolvere problemi, e dimostra come l’autore – un antropologo! – non abbia idea della moderna complessità tecnologica; e l’opinione che l’automazione non avvenga perché un manager vuole avere piú subordinati possibile – in un mondo in cui si è robotizzata persino la creatività – è ridicola.
Quanto all’avversione di Graeber per chi organizza il lavoro altrui, mi chiedo se egli abbia mai notato la tendenza delle persone a scansarlo – com’è naturale! – o se abbia mai avuto a che fare con organizzazioni da piú di quindici dipendenti. This job can be considered bullshit if the taskmaster herself believes that there is no need for her intervention, and that if she were not there, underlings would be perfectly capable of carrying on by themselves. O una mansione è eternamente identica e svolta in totale isolamento, oppure chiunque ha bisogno di direttive, istruzioni, obiettivi, e di coordinamento con i suoi colleghi, fosse soltanto per avere una divisa pulita o per decidere chi prende ferie a Natale. Nella multinazionale che mi paga il salario siamo diecimila: dovremmo tutti essere onniscienti, in assoluta autonomia e senza gerarchie?

Le mie mansioni ricadono fra le categorie di bullshit jobs individuate da David Graeber, e il mio impiego non costituisce un contributo significativo alla società, però esso sfugge alla definizione di lavoro del cazzo perché io non lo ritengo tale. È un’incongruenza che presumo verrà risolta quando il mio costo nei libri contabili supererà il plusvalore che gli azionisti spremono dalle mie fatiche; ed è un’incongruenza che m’invita a non perdere tempo con un libro che ha l’ambizione di cambiare la società contemporanea sulla base di premesse cosí fragili.

  1. So not only has the hypothesis been confirmed by public reaction, it has now been overwhelmingly confirmed by statistical research. Nella prossima vita studierò antropologia.

Seven views of Jerusalem /1 ·

In the spring of 2013 I was unemployed I had a lot of time on my hands.
My mother and three of her colleagues at the trade union – three dyed-in-the-wool communists – had purchased an old-style travel package to a quite peculiar destination: Israel and Palestine; or the Holy Land, if you will. Shamelessly I asked her if I could join them. For a long time I have cultivated a mild interest in Judaism, and anyway didn’t they need someone who spoke English with the locals?
That year was the most quiet of this century in the territories “between the river and the sea”. Violence and deaths fell to a relative low; while we were visiting, Israel even hosted the UEFA Euro Under-21 football championship. It was the perfect time for tourism unrelated to ethnicity or religion. What follows is a “recollection in tranquility” of that short trip, supported only by a folder of pictures and by fading memories.

A black trolley lying on floor tiles. On top of that: an Italian passport, a copy of a touring guide of Jerusalem, and the books “Gerusalemme” by Franco Cardini and “Primavera araba” by Domenico Quirico.

We flew from Malpensa airport on Wednesday, 12th June. Before we boarded our El Al flight to Tel Aviv, two agents gave us the third degree: they couldn’t believe that my mother had paid for my ticket; they were also suspicious of one of my mother’s colleagues’ identity card, which said she was born in Cairo, but not that Cairo, you know.
On the plane I fell in love with one of the attendants: olive skin, green eyes, pointy features.
At passport control inside Ben Gurion airport I asked for mine not to be stamped, as it was customary back then to avoid problems if visiting other Middle Eastern countries; instead I got a slip of paper that I still treasure among the expired pages. When we finally broke free from security checks, in the late afternoon, almost all service shops in the arrivals lobby were closed, including the private bus company that should have fetched us to Jerusalem. The travel agency in Italy couldn’t do anything; I scrambled through the lobby to find a replacement, in the end I called the hotel and they found us a driver.

We made our acquaintance with police checkpoints right outside the airport. Then the van climbed up to Judaea, and we arrived in Jerusalem in the early night. Our hotel was situated about a kilometre north of the Damascus Gate, towards the Sheikh Jarrah neighbourhood, opposite the American Colony. More significantly, it lay on the East side of the 1949 border, where the armistice lines drawn on paper by the Israelis and by the Jordanians didn’t match, thus creating a geographical oddity known as “no man’s land”.
For dinner we dragged ourselves to a garden restaurant down the road, where large TV screens flashed a pan-Arabic talent show: Arab Idol? By then, cultural globalisation was already an established fact.

[To be continued…]

Internet explorer #33 ·

The New Yorker › Eichmann in Jerusalem—I & —II, by Hannah Arendt.

The New York Review of Books › The Tragedy of Central Europe, by Milan Kundera.
Central Europe as a family of small nations has its own vision of the world, a vision based on a deep distrust of history. History, that goddess of Hegel and Marx, that incarnation of reason that judges us and arbitrates our fate—that is the history of conquerors. The people of Central Europe are not conquerors. They cannot be separated from European history; they cannot exist outside it; but they represent the wrong side of this history; they are its victims and outsiders. It’s this disabused view of history that is the source of their culture, of their wisdom, of the “nonserious spirit” that mocks grandeur and glory. “Never forget that only in opposing History as such can we resist the history of our own day.” I would love to engrave this sentence by Witold Gombrowicz above the entry gate to Central Europe.

SIRCPassport to the Pub, by Kate Fox.
I am afraid I broke so many rules during my brief time in Scotland

The Washington Post › What if gun owners had to pass a test? Czech Republic offers an answer., by Chico Harlan and Ladka Bauerová.
No, still not enough.

Pietní místo před Karolínem a filozofickou fakultou.

Praha, 23.12.2023. © Milan Jaroš, Respekt.

Politico Europe › The visionary legacy of Jacques Delors, by Alberto Alemanno.

Telex › You can hide from war propaganda, but it will still find you anyway, by Zsolt Hanula.
A hilarious piece on the amount of political crap we you are fed by social media (via Transitions).

Radio Prague International › Czechast: Why the Name Is Czechia, by Vít Pohanka.

iRozhlas › Básníka Ivana Blatného dnes známe i díky jeho anglické ošetřovatelce v blázinci, naznačuje historik, od Ivany Chmel Denčevové.

The London Dead › Quite Decent, Mr Kozderka - the astonishing life of Ivan Blatný (1919-1990), by David Bingham.

Jon Worth › The future of long distance train services through the Channel Tunnel.

Il Post › Storia tossica della letteratura italiana, di Lorenza Pieri e Michela Volante.
Excursus simplicistico sulla misoginia che viene insegnata a scuola. Segnalo un passaggio che mi ha fatto sorridere: Dei poeti nelle antologie Giovanni Pascoli è forse il più cringe […] con quella relazione semi incestuosa con le sorelle, tutta “nidi che fremono”. Le due fanciulle della Digitale purpurea ricordano proprio le sorelle di Pascoli – Maria, “semplice di gesti e di sguardi” e Rachele, mora dallo sguardo ardente (aridaje con il dualismo donna angelo/donna demonio) e si vagheggia sui morbosi ricordi di quella delle due che ha provato la traumatizzante e dolce esperienza del fiore velenoso, simbolo dell’esperienza sessuale. Quando all’esame orale della maturità affermai che Giovanni Pascoli era un pervertito, il presidente esterno di commissione (un ill.ssimo prof. della Facoltà di Lettere dell’Università di Torino) ebbe una sincope; fui invitato a proseguire.

My first spam e-mail ·

A few nights ago I received the following e-mail:

Screenshot of the e-mail received on Thursday, 11 January 2024 at 00:41. «Hello there , I’m sorry I don’t speak Italian but I think this can be helpful. I was using the picture compressor tool you mentioned on your page here: massimiliano.farinetti.eu/blog/2020/ (sorry for the email in English, it's easier for me to read than write in Italian). While gimp.org does a good job, I just wanted to share about another tool, that I think looks better. After some exploring I found this other tool and I wanted to suggest you show it along that one. [url] This tools allows you to compress both jpeg and png files and each picture can be up to 50 MB in size! In hope I helped back, [signature]»

Although it looks legitimate, I am fairly sure it is a pre-composed spam e-mail.

  • The e-mail subject reports my website’s bare URL, which is not human behaviour.
  • The sender’s e-mail handle – her supposed name and surname – doesn’t match the signature.
  • A Google search doesn’t return anyone in the world having that full name, even misspelled.
  • That surname is Indian; it was about 5 a.m. in India; not that there aren’t many Indians around the world…
  • … but the IP address of origin is geo-located in Caracas, Venezuela, which is not home to a large Indian community.
  • In the salutation, the space before the comma indicates that a script didn’t manage to parse my name.
  • The linked website is one of those with 100s of automated tools, a panoply of AI-generated content and bot-generated comments.

What I think happened is that the owners of that website are fishing for external links to boost their SEO. Using a web scraper they noticed that an article of mine mentions GIMP, so they targeted me to ask promote their alternative tool (it doesn’t matter that I referenced to GIMP as an image processor, not as an image compressor). Most websites are generated with a CMS like WordPress, where basic information about an entry (author, title) is standardised; which is not the case for Virtualia?, that is why the salutation fails to address me by name. I know that robots and scrapers are able to identify a text’s language, regardless of the HTML lang attribute that is assigned to it, hence the apologies for not writing to me in Italian.
What I am concerned about is, how did the scraper get my e-mail address right? Was it able to parse my JavaScript code? Did it just add up subdomain and domain? Perhaps a human had to write that manually? I checked my server’s basic logs and I couldn’t find anything relevant. Surprisingly, neither the link nor the e-mail itself contain any tracker that would allow the spammers to confirm that I read their message and that my e-mail address is valid. You can do better, “Amelia”.

Libertà è non partecipazione ·

Claudio Giunta ha pubblicato sul proprio sito un suo saggio, già incluso in un libro leggi-e-getta edito da Einaudi sulle “cose sopravvalutate”. Il tema è la partecipazione, intesa come contributo attivo alla società, e lo spunto è la predica politica [1] di Giorgio Gaber dal titolo La libertà.
Nel saggio di Giunta ci sono due passaggi che spiegano all’incirca la mia reticenza a partecipare a iniziative socio-politiche o a manifestazioni di massa, e quel certo fastidio per le imprese collettive, specie per quelle che si presentano con la faccia della virtù:

Dire noi mi è diventato quasi sempre insopportabile, ho cominciato a reagire con una smorfia a tutte le dichiarazioni fatte a nome di un gruppo che in teoria poteva contarmi tra i suoi membri: […]. Per non parlare dei gruppi a cui non potevo appartenere: […]. E allora? E perché mai la partecipazione a un solo carattere, la condivisione di una sola esperienza dovrebbe essere condizione sufficiente a formare un gruppo, a dire noi, quest’odiosissimo pronome? Ogni compagnia non conosciuta e non scelta, individuo per individuo, amico per amico, mi fa subito pensare alla Psicologia della folla di Le Bon, a Massa e potere di Canetti, alla Volksgemeinschaft nazista, a Piazza Venezia il 10 giugno del 1940. Quando in Che cosa credo di Forster ho letto: «se dovessi scegliere fra tradire la mia patria e tradire i miei amici spero che avrei il fegato di tradire la mia patria», ho pensato ma certo!, che si fottano le associazioni a cui mi sono trovato iscritto senza saperlo, a tradimento.

[S]ì, va bene partecipare e interagire, ma mi pare che a scuola bisognerebbe insegnare anche la verità complementare, che libertà può voler dire non partecipare, astenersi dall’azione e dal discorso se si crede che il proprio contributo sia inadeguato, o poco significativo, o se proprio non se ne ha voglia. Nella ‘educazione alla socialità e allo stare insieme’ mi piacerebbe che l’invito a dire la propria venisse temperato, ogni tanto, dall’invito a non dirla, e a prestare attenzione piuttosto a ciò che hanno detto e, soprattutto, scritto gli altri. Ascoltare, non parlare, è il verbo che ricorre più spesso nella pagina di Sulla libertà in cui Mill disegna il profilo della persona di giudizio: «questa persona ha tenuto la mente aperta alla critica delle proprie opinioni e della propria condotta; ha prestato ascolto a tutto ciò che poteva essere detto contro di sé; ha compreso che l’unico modo in cui un uomo può tentare di conoscere un argomento nella sua completezza, è quello di ascoltare quanto può essere detto su di esso da sostenitori di ogni tipo di opinione».

Ho scritto “all’incirca” perché Giunta non sviluppa il discorso sulla delega in bianco che si dà con la propria partecipazione a chi organizza quelle esperienze e poi rilascia le dichiarazioni a nome di quel gruppo, una delega in bianco che fatico a dare persino con l’esercizio del voto. Io potrei partecipare a un evento in sostegno a un tema A, ma essere in disaccordo su un tema B, e finire contato fra i favorevoli al tema B; sarebbe davvero insopportabile.
E poi non ho letto né Gustave Le Bon né Elias Canetti né John Stuart Mill. Ho letto Michel Houellebecq, che su questo punto dissentirebbe:

Non è questa libertà di fare ma soprattutto di non fare, di non partecipare, non è l’assenza di costrizioni il nucleo, l’essenza della più bella di tutte le invenzioni, la libertà dei moderni?

Oltretutto ammiro coloro che si dedicano anima e corpo a una Causa; ne avessi mai trovata una, mi ci sarei dedicato anch’io.
Un contributo personale alla società, il piú possible conforme ai miei ideali, provo a darlo per mezzo delle mie azioni quotidiane.


La forte e impegnativa citazione da E. M. Forster è tratta dal saggio What I Believe del 1938: le riflessioni di un individualista e liberale.
In un’era in cui le fedi politiche stanno sconquassando il mondo, Forster afferma di non averne alcuna. Egli crede nelle relazioni personali [2], benché la psicologia a lui contemporanea abbia frantumato l’idea di “persona” e la conoscenza di noi stessi e degli altri sia impossibile; questo è il suo atto di fede. Le relazioni personali vengono prima della fedeltà allo Stato; e fra le forme di governo, la democrazia è la meno odiosa, perché consente l’espressione dell’individuo e permette la critica. Egli crede anche in un’aristocrazia non di potere, ma dei sensibili, cortesi e impavidi, la cui natura privata ne impedisce comunque l’organizzazione pubblica. Non è chiaro come quest’aristocrazia delle affinità elettive si concili con la democrazia; d’altra parte Forster non era un politologo, ma un romanziere e umanista.

  1. Aborro il teatro-canzone quanto il rap sputacchiato.
  2. Only connect! da Howards End si riferisce ad altro, vuol dire mettere in relazione la razionalità e l’emotività che vivono in noi stessi. Live in fragments no longer.

La leggenda del corvo ·

A long time ago, the raven looked down from the sky and saw that the people of the world were living in darkness.
The ball of light was kept hidden by a selfish old chief.
So the raven turned himself into a spruce needle and floated on the river where the chief’s daughter came for water.
She drank the spruce needle.
She became pregnant and gave birth to a boy, who was the raven in disguise.
The baby cried and cried until the chief gave him the ball of light to play with.
As soon as he had the light, the raven turned back into himself.
The raven carried the light into the sky.
From then on, we no longer lived in darkness.

Tanto tempo fa, il corvo guardò in basso dal cielo e vide che le persone nel mondo vivevano nell’oscurità.
Il globo di luce era tenuto nascosto da un vecchio capotribú egoista.
Cosí il corvo mutò se stesso in un ago di abete e galleggiò sul fiume dove la figlia del capotribú prendeva l’acqua.
Ella bevve l’ago di abete.
Restò incinta e mise al mondo un bambino che era il corvo in incognito.
Il bambino pianse e pianse finché il capotribú gli diede il globo di luce con cui giocare.
Appena ebbe la luce, il corvo mutò di nuovo in se stesso.
Il corvo portò la luce su nel cielo.
Da allora non viviamo piú nell’oscurità.

Elaine Miles (Marilyn), Northern Exposure S03E10, Seoul Mates.