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La narrazione di sé ·

Uno dei primi link di queste Virtualia? è a un breve saggio di un filosofo analitico (aridaje) di nome Galen Strawson. Il saggio si apre cosí:

‘Each of us constructs and lives a “narrative”,’ wrote the British neurologist Oliver Sacks, ‘this narrative is us’. Likewise the American cognitive psychologist Jerome Bruner: ‘Self is a perpetually rewritten story.’ And: ‘In the end, we become the autobiographical narratives by which we “tell about” our lives.’ Or a fellow American psychologist, Dan P McAdams: ‘We are all storytellers, and we are the stories we tell.’ And here’s the American moral philosopher J David Velleman: ‘We invent ourselves… but we really are the characters we invent.’ And, for good measure, another American philosopher, Daniel Dennett: ‘we are all virtuoso novelists, who find ourselves engaged in all sorts of behaviour… and we always put the best “faces” on it we can. We try to make all of our material cohere into a single good story. And that story is our autobiography. The chief fictional character at the centre of that autobiography is one’s self.’

So say the narrativists. We story ourselves and we are our stories. There’s a remarkably robust consensus about this claim, not only in the humanities but also in psychotherapy. It’s standardly linked with the idea that self-narration is a good thing, necessary for a full human life.

I think it’s false – false that everyone stories themselves, and false that it’s always a good thing.

Traduco:

«Ognuno di noi si costruisce e vive una “narrazione”», scrisse il neurologo britannico Oliver Sacks, «questa narrazione è noi.» Allo stesso modo lo psicologo cognitivo americano Jerome Bruner: «Il sé è una storia incessantemente riscritta.» E: «Alla fine, noi diventiamo le narrazioni autobiografiche attraverso cui “raccontiamo” le nostre vite.» O un altro psicologo americano, Dan P McAdams: «Tutti raccontiamo storie, e siamo le storie che raccontiamo.» E ancora il filosofo morale americano J David Velleman: «Noi inventiamo noi stessi […] ma siamo davvero i personaggi che inventiamo.» E, per abbondare, un altro filosofo americano, Daniel Dennett: «Siamo tutti abili romanzieri, che si trovano impegnati in ogni tipo di comportamento […] e ci “mostriamo” sempre al meglio che possiamo. Cerchiamo di fondere tutto il nostro materiale in un’unica bella storia. E quella storia è la nostra autobiografia. Il protagonista immaginario al centro di quell’autobiografia è il proprio

Cosí dicono i narrazionisti. Ci facciamo storia e siamo le nostre storie. C’è un consenso notevolmente solido circa questa affermazione, non soltanto negli studi umanistici ma anche in psicoterapia. Di norma è associata all’idea che l’autonarrazione sia una cosa buona, necessaria per una piena vita umana.

Io penso che sia falso – falso che tutti si facciano storia, e falso che sia sempre una cosa buona.

Tanta roba.

Io “non sono un filosofo, ma” mi permetto di credere in tre cose:

  1. Il sé è immutabile (a meno di traumi).
    Ovvero, la nostra personalità è definita. Ciò non significa che in circostanze simili non sappiamo comportarci in modo diverso; significa che l’istinto ci spinge ad agire secondo un canone stabilito, e che soltanto la conoscenza di sé (del proprio sé), l’educazione e l’istruzione (ricevute o autoimpartite), l’esperienza, la morale cui ci atteniamo, e gli altri elementi che costituiscono una nostra personale maturità, ci permettono di correggere la direzione delle nostre azioni.
  2. Sí, viviamo la narrazione che ci siamo costruiti.
    Tutti, piú o meno consapevolmente, agiamo secondo l’immagine di noi stessi che vogliamo proiettare all’esterno. Però quell’immagine viene percepita in tanti modi diversi quanti sono i soggetti che la percepiscono, come un libro è stampato in migliaia di copie identiche ma viene interpretato diversamente secondo la sensibilità del millesimo singolo lettore.
  3. Le persone sono fondamentalmente inconoscibili.
    O sono conoscibili soltanto asintoticamente.

Ispirata dal verso di una celebre canzone, Alessandra mi chiedeva se «sono le persone a cambiare, o cambia ciò che noi pensiamo di loro?»
Vent’anni dopo ho una risposta per lei: le persone non cambiano, ma con una diversa maturità possono comportarsi diversamente; invece ciò che noi pensiamo di loro può cambiare secondo come la nostra sensibilità del momento interpreta le loro azioni. Ammetto che non si tratta di una risposta soddisfacente per due adolescenti.

In parte devo questa visione del mondo a Uno, nessuno e centomila, l’atroce romanzo di Luigi Pirandello (sí, è un romanzo atroce).
Per il pensiero pirandelliano rimando a Wikipedia e alle antologie liceali. Il senso del libro è riassumibile in poche citazioni:

Mi si fissò invece il pensiero ch’io non ero per gli altri quel che finora, dentro di me, m’ero figurato d’essere.

Se per gli altri non ero quel che ora avevo creduto d’essere per me, chi ero io?

L’idea che gli altri vedevano in me uno che non ero io quale mi conoscevo; uno che essi soltanto potevano conoscere guardandomi da fuori con occhi che non erano i miei e che mi davano un aspetto destinato a restarmi sempre estraneo, pur essendo in me, pur essendo il mio per loro (un “mio” dunque che non era per me!); una vita nella quale, pur essendo la mia per loro, io non potevo penetrare, quest’idea non mi diede piú requie.

Riflessioni:
1ª - che io non ero per gli altri quel che finora avevo creduto di essere per me;
2ª - che non potevo vedermi vivere;
3ª - che non potendo vedermi vivere, restavo estraneo a me stesso, cioè uno che gli altri potevano vedere e conoscere; ciascuno a suo modo; e io no;
4ª - che era impossibile pormi davanti questo estraneo per vederlo e conoscerlo; io potevo vedermi, non già vederlo;
[…]

Siate sinceri: a voi non è mai passato per il capo di volervi veder vivere. Attendete a vivere per voi, e fate bene, senza darvi pensiero di ciò che intanto possiate essere per gli altri; non già perché dell’altrui giudizio non v’importi nulla, ché anzi ve ne importa moltissimo; ma perché siete nella beata illusione che gli altri, da fuori, vi debbano rappresentare in sé come voi a voi stessi vi rappresentate.

Sapete invece su che poggia tutto? Ve lo dico io. Su una presunzione che Dio vi conservi sempre. La presunzione che la realtà, qual è per voi, debba essere e sia ugualmente per tutti gli altri.

Tuttavia mi sforzerò di darvi, non dubitate, quella realtà che voi credete d’avere; cioè a dire, di volervi in me come voi vi volete. Non è possibile, ormai lo sappiamo bene, giacché, per quanti sforzi io faccia di rappresentarvi a modo vostro, sarà sempre “un modo vostro” soltanto per me, non “un modo vostro” per voi e per gli altri.
[…]
Non presumo che siate come vi rappresento io. Ho affermato già che non siete neppure quell’uno che vi rappresentate a voi stesso, ma tanti a un tempo, secondo tutte le vostre possibilità d’essere, e i casi, le relazioni e le circostanze. E dunque, che torto vi fo io? Me lo fate voi il torto, credendo ch’io non abbia o non possa avere altra realtà fuori di codesta che mi date voi; la quale è vostra soltanto, credete: una vostra idea, quella che vi siete fatta di me, una possibilità d’essere come voi la sentite, come a voi pare, come la riconoscete in voi possibile; giacché di ciò che possa essere io per me, non solo non potete saper nulla voi, ma nulla neppure io stesso.

Luigi Pirandello – Uno, nessuno e centomila, 1925. Garzanti, Milano 1993.

La soluzione pirandelliana alla beata illusione che un’univoca rappresentazione della propria identità sia possibile è la rinuncia all’identità: se allo stesso tempo siamo uno e centomila, allora tanto vale essere nessuno.
La mia idea è che se allo stesso tempo siamo uno e nessuno, allora possiamo consapevolmente essere centomila; ed è una questione di filtri.

Noi siamo noi stessi; e siamo anche figli, coniugi, genitori, cittadini, amici, colleghi, e molto altro.
Noi siamo sempre noi stessi; e siamo una persona sempre diversa come figli, coniugi, genitori, cittadini, amici, colleghi, ecc.

Pirandello ammonisce che per noi sarebbe folle pensare di conoscere come i nostri genitori, i nostri coniugi, i nostri figli, i nostri concittadini, i nostri amici, i nostri colleghi, o coloro che incontriamo per strada ci percepiscono. Ciò è (stoicamente) fuori dal nostro controllo.
A mio parere però ci comportiamo cosí da indirizzare e influenzare la rappresentazione della nostra identità nella mente di ciascuno di loro. Non sto scrivendo che siamo tutti falsi psicopatici. Sto scrivendo che davvero ci costruiamo una narrazione di noi stessi, basata sul nostro immutabile, e che viviamo e comunichiamo questa narrazione. Pirandello la definiva “maschera”, con accezione negativa e passiva; per me è un dato di fatto, e osservo che alla narrazione personale applichiamo filtri diversi in circostanze diverse, secondo coloro con cui interagiamo.

Io ho una buona conoscenza di me stesso, e negli anni ho costruito di me una narrazione come un individuo introverso, razionale e riflessivo. Però sono considerato un estroverso da molti locali, c’è chi mi dà del matto e chi pensa io agisca emotivamente. Mi comporto diversamente, cioè applico filtri diversi alla narrazione di me stesso, con i miei genitori e con i miei amici e con i membri della mia squadra di lavoro, e sarebbe sbagliato fare altrimenti, e comunque tutti mi percepiscono ogni volta in modo diverso secondo la loro sensibilità del momento.
Io non sono, ma appaio come un Massimiliano ogni volta diverso; e non sono pienamente conoscibile da nessuno che non sia al tempo stesso un mio genitore, un mio coniuge, un mio figlio, un mio concittadino, un mio amico, un mio collega… ovvero non sono pienamente conoscibile da nessuno.

Questa condizione è comune a ogni individuo.

Suoni e ultrasuoni del 2021 ·

E come l’anno scorso, e come l’anno prima, la colonna sonora del 2021 è stata gentilmente offerta dai canali alternativi delle radio pubbliche britannica e slovacca. Resto un poco fuori fase rispetto all’offerta pubblica e privata della radio ceca, e scrivendo questo post scopro che anche la Rai ha aperto una stazione che potrebbe interessarmi: mi propongo di variare le mie fonti nell’anno che verrà.

È lentamente ripresa la musica dal vivo:

Al concerto di Katarzia ho acquistato due suoi vecchi album:

  • Katarzia – Agnostika (2016, Slnko Records)
  • Katarzia – Antigona (2018, Slnko Records)

Nella cassetta delle lettere, dentro una busta ben imbottita (via Music Records):

  • Damon AlbarnThe Nearer the Fountain, More Pure the Stream Flows (2021, Transgressive)
    Contiene: auto-plagio, falsetti emozionali, nuotate esistenziali. Gli donerò sterline finché campo, ma non ha piú niente da dirmi.
  • ElbowFlying Dream 1 (2021, Polydor)
  • RöyksoppLost Tapes (2021, Dog Triumph)

Durante le ferie estive in Italia ho fatto un salto in centro a Genova da Disco Club per reperire gli irreperibili del 2020. Non li ho trovati, e per non uscire proprio a mani vuote ho preso fra l’usato:

  • BjörkTelegram (1996, One Little Indian)
    Raccolta di remix da Post; le foto del libretto hanno consolidato la di lei reputazione come improbabile sex symbol degli anni Novanta.
  • The FutureheadsThe Futureheads (2004, 679 Recordings)
  • We Are ScientistsWith Love and Squalor (2005, Virgin Records)

Agli irreperibili del 2020 aggiungo gli irreperibili del 2021:

La mia canzone dell’anno è Come Get Some di Fvlcrvm. Nel video qui sotto Pišta Kráľovič spiega come l’ha prodotta:

Letture e riletture del 2021 ·

Quest’anno sono tornato a essere un “lettore forte” come da definizione dell’Istituto nazionale (italiano) di statistica, forse perché non subisco piú la nefasta influenza di Andrea Pirlo (sono sicuro che quell’intellettuale di Massimiliano Allegri abbia un conto aperto all’Einaudi).
Di qualche libro ho già scritto su queste pagine, qualcuno l’ho citato per scrivere d’altro:

  • Franz KafkaRacconti (1904–1924)
    Si capisce perché l’autore voleva che molti di questi fossero distrutti, e perché invece Max Brod li abbia pubblicati. Da una veloce ricerca vedo che non sono l’unico a pensare che Dino Buzzati, ehm, mettiamola cosí, abbia tratto da alcuni di essi una profonda ispirazione.
  • Aziz Ansari & Eric Klinenberg – Modern Romance (2015)
  • Joshua Cohen – The Quorum (2005)
  • Gianni FarinettiLa bella sconosciuta (2019)
  • Giorgio Scerbanenco – I milanesi ammazzano al sabato (1969)
  • Gianni Farinetti – Doppio silenzio (2020)
  • Karen von KunesEverything You Wanted to Know About Czech and Were Afraid to Ask (1995)
    Raccolta di articoli per The Prague Post di una docente di lingua e letteratura ceca a Harvard e Yale.
  • Massimo Pigliucci – How to Be a Stoic (2017)
  • Lara Hogan – Resilient Management (2019)
  • Angelo Del BocaItaliani, brava gente? (2005)
    Il capitolo sulla lotta al brigantaggio dopo l’unità d’Italia, che minimizza il sostegno ai ribelli degli esuli borbonici e dello Stato Pontificio in chiave anti-sabauda, e paragona i soldati del Regno agli stragisti nazisti, mi ha mal disposto verso il resto del volume. Che si sviluppa come un dettagliato e documentato resoconto delle atrocità compiute dagli Italiani nelle colonie, e termina come un pamphlet politico contro… Silvio Berlusconi?
  • Luigi Pirandello – Uno, nessuno e centomila (1925)
  • Karel ČapekThe Absolute at Large (1922)

Ho letto anche qualche classico testo breve:

  • E. M. Forster – The Machine Stops (1909)
  • Shirley Jackson – The Lottery (1948)
    Per Valentina, che non sa di avermelo consigliato, è un racconto dell’orrore di essere moglie e madre.
  • Platone – Critone (IV secolo a.C.)

Resilient Management ·

Qualche mese fa ho cambiato posizione in azienda. Al netto delle sgrammaticature è andata piú o meno cosí:

Conversazione fra due utenti su Twitter. Nick Finck @nickf: «Reminder: a potential employer passing on you in a final round of interviews is nothing to be ashamed of. You simply where not the right fit for that role but you got to the final round! There is so much talent shifting around that this is statistically significant. Keep at it.» Brett Anderson @designerbrett: «Totally agree. It can still potentially led to a different role that is closer to your specific skill set. That’s what happened in my case. It was heart breaking at first to get denied but exciting to get a tailored role shortly after.»

@nickf: Promemoria: non c’è niente di cui vergognarsi se un potenziale datore di lavoro ti scarta all’ultimo colloquio. Semplicemente non eri il candidato giusto per quel ruolo ma sei arrivato in fondo! C’è cosí tanto talento in movimento che è un fatto statisticamente significativo. Continua cosí.
@designerbrett: Pienamente d’accordo. Potenzialmente può ancora portare a un diverso ruolo che è piú vicino alle tue specifiche capacità. È quel che è successo nel mio caso. All’inizio il rifiuto ha fatto male ma è stato emozionante ottenere un ruolo su misura subito dopo.

Ora ho la qualifica di manager: un po’ perché gestisco cose, un po’ perché gestisco persone.

I miei 2,5 lettori sanno che dedico parte del tempo libero alla scrittura e manutenzione di queste Virtualia?, compresa la parte grafica che poi non è altro che codice. Leggo un numero di siti dedicati al web design e ciò che scrivono i guru della disciplina, gente sconosciuta al di fuori del loro giro che però influenza l’esperienza quotidiana di tutti gli utenti di Internet.
Di link in link sono finito sul sito di Lara Hogan, un’ex-dirigente di Etsy e Kickstarter diventata coach e trainer per manager e aziende. Hogan tiene un blog ricco di consigli su come gestire un gruppo di lavoro: per esempio, come avviare il rapporto con un dipendente, come stabilirne gli obiettivi, come dargli feedback, come valutarne le prestazioni, come farlo crescere; e anche come comunicare le decisioni della dirigenza, come gestire il proprio tempo, come delegare le incombenze meno importanti.
Gran parte delle “lezioni” di Hogan è raccolta nel libro dal titolo un po’ modaiolo di Resilient Management. L’obiettivo del libro è la creazione di un team funzionale e stabile, inclusivo, fondato sulla fiducia fra i membri. L’autrice non è una psicologa del lavoro né una specialista delle risorse umane, ma una nerd che ha cominciato come front-end developer, perciò il volume è zeppo di esempi pratici e di esercizi basati sulla sua esperienza, e non c’è spazio per stronzate motivazionali. Una parola ricorrente è “hard”: fin dalla prefazione, management is a hard job.

Whether your title is “lead”, “manager”, or something else: if you’re responsible for supporting and leading a team of people, this book is for you.

Gestivo persone anche nei due anni precedenti, dopo essere diventato supervisore della squadra di amministrativi in cui ero stato assunto; ma ero poco piú di un primus inter pares che organizzava le mansioni e verificava che si svolgessero secondo decisioni prese piú in alto e processi definiti altrove. Nel tempo dimostravo buone doti analitiche, miglioravo le doti interpersonali, coordinavo progetti internazionali da remoto, frequentavo corsi di formazione per colmare le mie lacune, e ottenevo positive valutazioni finali.
Nella nuova posizione a definire i processi amministrativi siamo io e la mia squadra di analisti. Dicono che se sei la persona piú intelligente della stanza, allora sei nella stanza sbagliata; be’, adesso sono nella stanza giusta. Il mio team ne sa piú di me su quasi tutto, e il mio compito principale è far sí che renda al meglio, come individualità e come collettivo. L’esperienza accumulata finora e i modelli che seguo non bastano: devo smettere i panni del mentore con la soluzione in tasca, vestire quelli del coach / della levatrice, e lasciare che i miei collaboratori trovino da sé e in sé una loro soluzione. In altre parole, devo sviluppare una diversa professionalità. Ho già applicato qualche insegnamento del libro.

Growth is beautiful, growth is magnificent, growth is what we should be aiming for. But in actuality, growth is painful.

Ed è estenuante.

La pioggia da sotto ·

Storm Arwen, Caithness, 26 novembre 2021 (via Pamela Taylor).

Internet explorer #15 ·

Vera LackováAlica.

Nová hudba, ktorej verím #6 ·

How did I not realise before that Veronika Svorenčíková’s Nová hudba, ktorej veríme is itself a shout-out to Steve Lamacq’s legendary show, In New Music We Trust? She is carrying the torch of new good indie pop and rock to the airwaves of Central Europe.

Dubstar – Tectonic Plates

And why do I have to get to know about new Dubstar releases from Daniel Baláž and not from Lammo? What is the BBC good for nowadays?
Tectonic Plates is produced by Stephen Hague and you can hear it in the crisp sound of synths and guitars. Oh, that guitar riff in the middle!

Wet Leg – Wet Dream

Recently I read the proposal that it should be a crime to engage in solitary sexual fantasies without the express consent of the subject.
I am sure we are all both perpetrators and victims of this heinous thoughtcrime, and I bet Wet Leg would concur. Consider the lobster.

Tolstoys – Skin Hunger (We Are Human Beings)

Tolstoys are back early next year with their sophomore album and are releasing a string of videoclips that are shot by young visual artists.
The video for Skin Hunger is in portrait format because their primary audience lives on smartphones. Also their audience need touching.

Sui gesti anticonservativi ·

Il 7 novembre di ottantacinque anni fa, un sabato, a Ovada, Celestina si gettava nell’Orba lasciando quattro figli.
Ora che i quattro figli sono morti, il “gesto anticonservativo” di Celestina resta soltanto una nota nel registro parrocchiale. Qualunque cosa l’abbia attratta all’acqua, nessuno può piú ricordarlo. Le ragioni del suo gesto si sono perse nel tempo, le conseguenze si sono fatte intangibili.

Di recente due mie amiche hanno perso loro cari per suicidio.
Da come le mie amiche me li hanno descritti, i loro cari erano molto simili: burberi, umorali, passionali; in società non stavano granché bene, ma erano indispensabili per coloro che avevano intorno. Il perché del loro gesto non si è compreso. Alle mie amiche sono rimasti lo sconcerto e la rabbia, e una scalfittura all’anima. Ed è probabile che fra ottantacinque anni anche le mie amiche saranno morte, e il ricordo dei loro cari resterà soltanto negli archivi digitali dei giornali locali.

(“Gesto anticonservativo”, quale raccapricciante locuzione da giornale locale o da pretore di provincia!)

Nei giorni in cui cominciavo a prendere note per questo post, leggevo e mi appuntavo una citazione: nulla rende una determinata situazione piú intollerabile della consapevolezza che non possiamo cambiarla in nessun modo. Google non mi aiuta, ma mi pare di ricordare che fosse di un economista liberale e che fosse riferita al tema del lavoro.
Negli stessi giorni finivo di leggere quel libro sullo stoicismo. Gli stoici veneravano quei personaggi come Socrate, Catone Uticense e Seneca, che preferirono darsi la morte al perdere la propria virtú civile. A distanza di millenni noi posteri guardiamo con ammirazione a figure come Jan Palach e Irina Slavina, sacrificatisi per denunciare l’insostenibile situazione politica nel loro Paese, senza soffermarci a pensare al dolore di coloro che avevano intorno.

La filosofia stoica tratta anche il suicidio di persone comuni. Epitteto ricorre all’allegoria della “porta aperta”:

Ricorda che la porta è aperta. Non essere piú timido dei bambini, ma, come quelli, quando il gioco non è piú di loro gradimento, dicono «non gioco piú», cosí anche tu, quando le circostanze ti sembrano altrettanto spiacevoli, di’ «non gioco piú» e vattene; se rimani, però, non lamentarti.

Se la sofferenza non ti sta bene, la porta resta aperta. Se ti sta bene, sopportala. Ché la porta deve restare aperta in ogni caso, affinché noi non abbiamo preoccupazioni.

Epitteto – Diatribe, I 24.20, mio adattamento via Wikiquote; e II 1.19-20, mia traduzione via Massimo Pigliucci – How to Be a Stoic, 2017.

Nel suo libro Massimo Pigliucci spiega che per Epitteto la decisione di varcare la porta aperta è una questione di giudizio personale, relativo a situazioni specifiche: se la situazione è veramente intollerabile, allora la persona ha l’opzione di andarsene. Al tempo stesso, quella porta deve restare aperta affinché noi non abbiamo preoccupazioni: la possibilità di andarsene è ciò che ci permette di sopportare le condizioni avverse e i momenti piú difficili della nostra vita. Cosí come per gli stoici la morte dà significato alla vita, la possibilità di abbandonarla volontariamente ci permette di viverla con coraggio.

Ovviamente il gesto dev’essere frutto di una decisione razionale, da prendersi né per impeto né per tedio:

Un mio amico, senza alcun motivo, decise di lasciarsi morire di fame. Lo seppi quand’era già il terzo giorno che aveva cominciato il digiuno: andai da lui e gli chiesi che cosa fosse successo. «Ho deciso», disse. «Bene, ma che cosa ti ci ha spinto? Se la tua decisione è retta, ecco noi ti sediamo vicino e ti aiutiamo a uscir di vita; se illogica: mutala».

Epitteto – op. cit., II 15.4, citato in Alida Airaghi – Il suicidio nel pensiero greco, 1976.

E poiché il pensiero umano è immutabile, non sorprenda di leggere la medesima allegoria a distanza di millenni:

Qualcuno ha fatto del fumo in casa? Se non è troppo, resto. Se è troppo, me ne vado. Ché devi sempre ricordare e aver fede, che la porta è aperta.

The so-called ‘psychotically depressed’ person who tries to kill herself doesn’t do so out of quote ‘hopelessness’ or any abstract conviction that life’s assets and debits do not square. And surely not because death seems suddenly appealing. The person in whom Its invisible agony reaches a certain unendurable level will kill herself the same way a trapped person will eventually jump from the window of a burning high-rise. Make no mistake about people who leap from burning windows. Their terror of falling from a great height is still just as great as it would be for you or me standing speculatively at the same window just checking out the view; i.e. the fear of falling remains a constant. The variable here is the other terror, the fire’s flames: when the flames get close enough, falling to death becomes the slightly less terrible of two terrors. It’s not desiring the fall; it’s terror of the flames. And yet nobody down on the sidewalk, looking up and yelling ‘Don’t!’ and ‘Hang on!’, can understand the jump. Not really. You’d have to have personally been trapped and felt flames to really understand a terror way beyond falling.

Epitteto – op. cit., I 25.18, mia traduzione via Massimo Pigliucci – op. cit.; e David Foster WallaceInfinite Jest, 1996.

Per Wallace (che soffriva di depressione e, sí, si è suicidato) al di fuori del palazzo in fiamme non si può capire perché sia preferibile prendere la via della finestra aperta. Se Wallace ha ragione, e il gesto è al di là della nostra comprensione, per noi astanti non ha senso provare rabbia. Dunque, che fare?

[L]a civiltà di massa ha questo pregio, che ciascuno può annegare liberamente senza che gli altri gli diano fastidio nel tentativo di salvarlo. È in fondo una forma di delicatezza e di rispetto dell’opinione altrui di morire da sé.

Giorgio Scerbanenco – I milanesi ammazzano al sabato, 1969. Corriere della Sera, Milano 2013.

Sulla base di millenni di letteratura, filosofia e religione, suppongo che un focolaio di malessere sia acceso nella casa di ciascun individuo che abbia raggiunto l’età della ragione. Quanto il fumo e le fiamme siano sotto controllo, forse lo sa l’individuo; difficile è stimarlo dall’esterno, ancora piú difficile se si appartiene alla civiltà di massa su cui ironizza Scerbanenco.
Restando nell’allegoria usata da Epitteto e Wallace, per prevenire i gesti anticonservativi suicidi occorrerebbe installare segnalatori di fumo ed estintori di fiamme in ogni casa. Non penso che ciò sia fattibile dall’esterno; il controllo del proprio focolaio spetta a ciascun individuo. Quel che si può fare all’esterno è costruire scale antincendio che consentano agli individui in agonia di andare oltre la scelta fra soffocare o gettarsi. Se nulla rende una determinata situazione piú intollerabile della consapevolezza che non possiamo cambiarla in nessun modo, e l’unico cambiamento possibile appare la via della finestra aperta, offriamo alternative.
Nel frattempo controlliamo il nostro focolaio personale e verifichiamo l’agibilità della nostra scala antincendio.

In morte di James Bond ·

Nell’ultima scena di Není čas zemřít (No Time to Die, non so come s’intitoli in italiano) Madeleine Swann (Léa Seydoux) guida l’Aston Martin color argento lungo una strada costiera con We Have All the Time in the World come colonna sonora. È un evidente rimando al funesto finale di On Her Majesty’s Secret Service, ma è un finale ribaltato, perché accanto a lei non c’è James Bond (Daniel Craig): egli si è sacrificato per salvare l’umanità (e la stessa Madeleine) (e la bambina dagli occhi azzurri che molto probabilmente è sua figlia) (i conti tornano).

Fra le fantasiose teorie che provano a spiegare razionalmente come Bond sia in giro da sessant’anni e come abbia avuto sei sembianze diverse, c’è quella per cui “James Bond” è un nome in codice, un’identità fittizia che può essere assunta da qualunque spia nell’élite dell’MI6: orfano di padre scozzese e madre svizzera, ammiraglio della Marina britannica, ecc. A prender per buona tale teoria, consegue che il Bond di Connery non è il medesimo Bond di Lazenby (this never happened to the other fella), che non è il medesimo Bond di Moore, che non è il medesimo Bond di Dalton, che non è il medesimo Bond di Brosnan, che non è il medesimo Bond di Craig.
Non sappiamo cosa sia successo agli altri, ma del Bond di Craig abbiamo assistito dall’esordio alla caduta in cinque film dalla forte serialità.

La componente seriale è insieme la forza e la debolezza di Není čas zemřít. A me è piaciuto come se fosse l’ultimo episodio di un telefilm non eccelso ai cui protagonisti mi ero affezionato per abitudine, e mi chiedo quanto possa piacere a un avventore casuale del multisala che non sa perché James Bond sia restio a fidarsi della donna al suo fianco, o che non ha visto Vesper Lynd morire annegata in Casino Royale e non può cogliere la sua e nostra frustrazione nel veder morire annegato Felix Leiter.
Visivamente è un bel film. Il regista Cary Joji Fukunaga va matto per gli interni con luci fredde al neon, ma le scene girate nel sole accecante di Gravina e Matera sono una splendida cartolina. La scalata alla sala-controllo ci immerge in un videogioco sparatutto in prima persona; e quell’inquadratura nella galleria di cemento, con Bond che si volta a sparare a un cattivo del quale noi spettatori abbiamo la soggettiva, come nelle celeberrime sequenze della canna della pistola? Genio!
La sceneggiatura di Neal Purvis e Robert Wade questa volta ha un senso logico lineare, con qualche omaggio-scopiazzatura ai film precedenti (la visita alla tomba dell’amata in For Your Eyes Only, la casa di campagna in Skyfall, l’isola-laboratorio da Dr. No in poi). Il felice contributo di Phoebe Waller-Bridge si può leggere nell’umorismo autoconsapevole che finora alle interpretazioni di Craig mancava, e nel personaggio della spia cubana semidilettante che tiene testa a un intero commando della SPECTRE e poi chiude Bond fuori dalla porta senza smancerie.

Ana de Armas nei panni della spia Paloma in una scena del film.

Ana de Armas, pigliami a calci.

(Fra parentesi, la cubana semidilettante sembra una spia migliore della nuova 007 Nomi, che non ha molto da fare e quando lo fa è in ritardo, che non ha molto da dire e quando lo dice non l’ascolta nessuno, e va bene che è donna, e va bene che è nera, ma non va bene che è culona, e l’attrice ha due espressioni, con gli occhialetti e senza, chiusa parentesi.)

Cosí come On Her Majesty’s Secret Service, anche No Time to Die in fondo è un dramma sentimentale: il triangolo amoroso fra James Bond, la dr.ssa Madeleine Swann “figlia della SPECTRE”, e la defunta doppiogiochista Vesper Lynd. Vesper Lynd era stato un vero colpo di fulmine per l’esordiente Bond di Craig, e da morta è un ideale irraggiungibile. Madeleine Swann è un’innamorata devota ma appare come un ripiego. Il ricorrente tema musicale di We Have All the Time in the World dovrebbe suggerire che lei sia la donna della vita di Bond, ma a me cultore della materia quelle note evocano la tragica figura di Tracy di Vicenzo, estendendo il triangolo sentimentale dell’era-Craig a un quadrilatero su tutta la filmografia. Il problema è che il binomio Madeleine Swann / Léa Seydoux non regge il confronto, per definizione del personaggio e per bravura o carisma dell’attrice, né con Vesper Lynd / Eva Green, né con Tracy di Vicenzo / Diana Rigg.
Capisco il metter su famiglia, ma farsi bersaglio di una batteria di missili per lei? No. Aveva fatto bene a imbarcarla sul primo Frecciarossa.

Internet explorer #14 ·

Lei suona il flauto traverso e lui la tromba ·

Mentre in Italia si dibatte su quanti spettatori sia possibile far accedere a eventi culturali e luoghi d’intrattenimento, con decisioni discutibili che tengono conto piú degli equilibri politici che della rerum natura, in Repubblica Ceca non ho piú idea di quali restrizioni siano in vigore perché o sono molto lasche o in pochi sembrano preoccuparsene. Allo stadio mi prendo gli sputazzi i droplets degli esagitati veterani delle file posteriori, nelle sale da concerto respiro la stessa aria di due o tre persone al metro quadro. In altri Paesi tali restrizioni sono state eliminate: qualcuno sta sbagliando, gli storici valuteranno chi.
La premessa è per scrivere che questa settimana sono andato a due concerti i cui biglietti avevo acquistato un anno e mezzo fa.

Erik Truffaz Quartet @ Sono Music Club, Brno, 19/03/2020 27/09/2020

(Certificati controllati: 1/3. Mascherine indossate: 10%.)

Erik Truffaz è un trombettista francese che somiglia terribilmente a Michel Houellebecq e ha una formazione classica ma suona jazz fusion. È uno dei tanti ospiti del ventennale Jazz Fest Brno, e nonostante io sia lontanissimo da quel mondo ne conoscevo il nome perché un suo pezzo è inserito in una compilation di Alessio Bertallot che ho consumato.
Sono entrato con Vojta ed Evička al Sono Music Club senza aspettative perché davvero non sapevo cosa aspettarmi. Né ho le basi per capire e giudicare quel che ho ascoltato, però so cosa mi è piaciuto. Se Marcello Giuliani torna a Brno per suonare al basso l’elenco telefonico mi trova in prima fila. Il giovane batterista Tao Ehrlich è stato lodato piú volte dal palco, ma mi è parso metterci troppa energia quando non richiesto. Ho apprezzato il tappeto elettronico steso dalle mille tastiere di Benoît Corboz, a eccezione di certe derive prog che stonavano.
Ed Erik Truffaz è un cool cat che cattura la simpatia del pubblico con pochi gesti e parole, e si prende la scena per lasciarla subito ai compari. Al termine di certi suoi assoli mi sono risvegliato in totale attenzione sul bordo dello sgabello. E quel soffio che si sentiva nel microfono, e che mi ha perplesso per tutta l’esibizione, Vojta mi ha spiegato che non era un problema tecnico, né incapacità, ma un personale vezzo artistico, una nota di colore. La sua blue note? Mi fido.

Siegfried non l’hanno suonata, altrimenti sarebbe suonata cosí.

Katarzia + Aid Kid @ Kabinet Múz, Brno, 09/11/2020 04/05/2021

(Certificati controllati: 0/1. Mascherine indossate: 1%.)

Arrivo al Kabinet Múz presto, troppo presto, e dal mio angolino sotto le luci di proiezione in fondo alla sala osservo il pubblico che sgocciola: in prevalenza femminile, parzialmente LGBT+, in età da università. Non sono il piú vecchio nel locale perché c’è qualcuno piú strano di me; sicuramente sono l’unico non ceco\slovacco.
Si presenta per primo Aid Kid, musicista elettronico e producer che ha lavorato con Katarzia a Celibát e che pensavo avrebbe tenuto un DJ set dopo il concerto. Smanetta sulla sua drum machine per un’oretta, cercando un flow a cassa dritta che appena trova si affretta a distruggere, lasciando vuoti di depressione. Si becca qualche compíto invito ad andarsene; se aveva il cómpito di scaldare l’atmosfera, non c’è riuscito.
Sul palco restano un microfono, una chitarra, e un ampio tavolo coperto di sintetizzatori. Sono curioso di sentire se Katarzia lascerà piú libera la propria anima folk o quella ‘tronica. Esce dal camerino sul retro insieme a Jonatán Pastirčák (Pjoni) e si mette a scherzare col pubblico sulle elezioni in corso. Indossa quel che sembra un anello di fidanzamento: il celibato è finito?

L’apertura è folk: Katarína Kubošiová pizzica le corde e percuote la cassa armonica della chitarra, aggiustando il suono con l’aiuto del tecnico dietro alla console. Blues o dešti è la seconda e ultima canzone per cui imbraccia il suo strumento; da Tristan a Izolda, Drag Queen e V noci prevalgono l’elettronica e non-so-quale effetto vocale che ha usato negli ultimi due dischi.
Si esibiscono come duo, ma entrambi fanno un gran lavoro a compensare l’assenza di altri musicisti. Con i suoi giocattoli Pjoni piazza basi, crea ritmi, estende suoni come il flauto traverso sequenziato dal vivo in Lepidlo. Katarzia riempie lo spazio diventando la cubista di se stessa sotto le strobo. Si meriterebbero spettatori piú partecipi, qualcuno che conosca le parole, che applauda o che lanci degli urli di soddisfazione quando le luci si spengono. Dobbiamo farlo io (Bonsai) e il beone alle mie spalle? Coppietta adolescente al mio fianco, come fate a pomiciare su Posledný tanec, de vobis písnička narratur! Giovani femministe, Hoří i voda è vostra, prosím un minimo d’entusiasmo!
Cupi rimbombi dai synth di Pjoni segnano una breve e sinistra versione di Milovať s hudbou che fluisce in Samota mi nevadí per la chiusura. Katarína ci sussurra nie som osamelá, e nel suo sguardo azzurro intravedo un lampo di malizia.

Z izby do izby non l’hanno suonata, altrimenti sarebbe suonata assai diversamente.
Tamagotchipikachutamagotchipikachutamagotchipikachutamagotchipikachutamagotchi.

Černá kočka ·

Ospalá černá kočka v hospodě.

Soft kitty, warm kitty, little ball of fur! Happy kitty, sleepy kitty, purr purr purr! @ The Encampment.

Atarassia, portami via ·

Fra i libri sparsi sui tavolini polverosi di Shakespeare a synové ho pescato anche How to Be a Stoic (“Come essere uno stoico”).
L’autore Massimo Pigliucci è un biologo evoluzionista romano che trent’anni fa si è trasferito negli Stati Uniti e là ha intrapreso una brillante carriera di filosofo della scienza. È estraneo ai circoletti intellettuali italiani ed è un saggista grafomane: fra articoli, conferenze, libri, podcast, e post su blog multipli mi pare che pubblichi qualcosa ogni due giorni.
How to Be a Stoic è un testo di pop philosophy scritto per lettori anglosassoni che avrebbero difficoltà a trovare Atene e Roma su una cartina. Un’introduzione delinea il percorso filosofico dell’autore e riassume la storia dello stoicismo da Zenone di Cizio all’Imperatore Marco Aurelio. Il corpo del libro trae spunto da episodi di vita quotidiana per spiegare come uno stoico moderno possa ispirarsi all’esempio degli antichi, e degna di nota è l’inclusione di passi dall’Enchiridion come in un fittizio dialogo fra l’allievo Pigliucci e il maestro Epitteto. Chiudono il volume dodici “esercizi pratici spirituali” come invito a migliorare se stessi seguendo la via degli stoici.

Il mio insegnante di filosofia del liceo era un ex-allievo della Scuola Normale e se ben ricordo aveva dedicato innumerevoli lezioni al concetto di λόγος; il resto delle mie reminiscenze sullo stoicismo deriva dalla lettura di Seneca nelle ore di letteratura latina. È noto il principio-cardine per cui il mondo si divide in ciò che possiamo e in ciò che non possiamo controllare: su ciò che possiamo controllare dobbiamo agire al meglio delle nostre capacità, il resto dobbiamo saperlo sopportare con pazienza (per l’appunto) stoica.
Il concetto che mi era rimasto piú impresso era invece quello dell’ἀταραξία: l’ordine interiore, lo stato dell’animo in assenza del turbamento causato dalle emozioni (cfr. Franco Battiato, emanciparmi dall’incubo delle passioni, in E ti vengo a cercare). Per gli epicurei l’atarassia era il fine, per gli stoici era il mezzo per raggiungere il bene supremo della virtú. Ma all’atarassia e alla sorella απάθεια Pigliucci fa riferimento soltanto due volte in tutto il testo, tante quante ne fa al modernissimo e abusatissimo concetto di resilienza.

Un articolo sullo stoicismo dal taglio piú accademico è stato scritto dal professor Pigliucci per l’Internet Encyclopedia of Philosophy.
Seneca dà consigli a Sereno e a Battiato su come emanciparsi dall’incubo delle passioni nel dialogo Sulla tranquillità dell’animo.

Camille et Flora ·

Camille et Flora osservano desolate il tabellone luminoso del binario 3: il treno per Milano Centrale è in ritardo, questo lo capiscono bene, ma accanto al cartellino «Rit.» invece del numero di minuti è comparsa un’altra scritta «RIT» a negativo in LED gialli.
Venticinque minuti dopo l’orario previsto il treno regionale entra nella stazione di Voghera. Camille et Flora s’infilano nelle porte aperte da un passeggero che è sceso, abbastanze ampie da lasciar passare i loro pesanti backpacks senza acrobazie. Li lasciano cadere sulla piattaforma e restano lí in piedi senza accedere alle file dei sedili. Il bigliettaio dovrebbe aver detto loro che il primo tratto è breve, ma non sono sicure di dove dovranno scendere, preferiscono restare in allerta. Dalla piattaforma possono vedere che il vagone è praticamente vuoto: un giovane muscoloso e abbronzato sta urlando al telefono; un uomo quasi calvo è seduto scomposto e sta guardando fuori dal finestrino; un ragazzo con le cuffie sta lavorando su un Mac.

Passata «PAVIA» Camille si fa coraggio e punta decisa l’uomo, che la vede arrivare e sbuffa; ma le darà ascolto, è da quando aveva dodici anni che nessun maschio le rifiuta un favore se lei lo fissa coi suoi occhi verdi. Gli si rivolge nel suo miglior italiano:
– Scusi me, puoi mi dir-dicere where… dove è…
Gli mostra il biglietto e gli indica la misteriosa scritta «MI. LAMB.».
L’uomo sorride e le risponde qualcosa che lei non afferra insieme a una parola che suona come «Lambrate», poi prende il cellulare e le mostra l’orologio digitale, arriveranno alle venti e quarantacinque.
Camille ringrazia e corre da Flora.

Alle venti e quarantacinque il regionale per Milano Centrale è nuovamente fermo nel primo buio della campagna lombarda. Camille et Flora vedono lontano un intreccio di strade illuminate ma restano spaesate. Camille si fa ancora coraggio e ritorna dall’uomo:
– Ciao, puoi mi dire quando è Lamb-Lambrate?
L’uomo annuisce e risponde qualcosa mettendosi una mano sul petto, le par di capire che anche lui scenderà alla stessa fermata.

Il treno raggiunge una stazione che si chiama «MILANO ROGOREDO». Il giovane muscoloso e il ragazzo col Mac scendono. Il treno riparte e l’uomo avvicina Camille et Flora sulla piattaforma: indossa una t-shirt blu slavata e un paio di blue jeans senza cintura, sneakers scolorite; trascina un piccolo trolley.
– Do you speak English? Where are you from?
Camille et Flora parlano inglese con un inconfondibile accento francese. Gli spiegano che sono di Bordeaux, stanno viaggiando verso Vicenza dove le aspetta un amico di Camille. Sanno di aver già perso la coincidenza di sei minuti per Verona, e da lí anche l’ultimo treno per Vicenza. È sempre cosí con le ferrovie italiane? L’uomo (che accenna a parlare francese) chiede loro di seguirlo, forse c’è un’altra possibilità.

Il regionale ferma al binario 12 di «MILANO LAMBRATE». L’uomo apre le porte e conduce Camille et Flora lungo il sottopassaggio Sud fino all’atrio della stazione. La biglietteria ha chiuso alle venti e trenta, il tabellone delle partenze scrive che il prossimo treno per Verona sarà alle ventuno e trentatré. L’uomo deve prendere il notturno per Vienna delle ventuno e ventisette, dice che fermerà anche a Vicenza, potrà chiedere al capotreno se i biglietti di Camille et Flora sono validi. Nel frattempo indica loro i bagni che chiuderanno fra pochi minuti, le aspetterà fuori.
Camille et Flora entrano nei bagni con il loro carico di zaini e sacchi a pelo, ma un inserviente in divisa le blocca, sta chiedendo loro dei soldi. Un euro? Neanche a Parigi! L’inserviente sconta a cinquanta centesimi a testa «perché sono belle». Camille et Flora vedono arrivare l’uomo, lo sentono discutere con l’inserviente, lo vedono passargli delle monete, l’inserviente si fa da parte.

Camille si rinfresca il viso sotto l’acqua; pensa che Flora dovrebbe indossare il costume sotto quel top sudato in tessuto sintetico giallo senape.

L’inserviente comanda a tutti di uscire, la sala d’attesa chiude. L’uomo conduce Camille et Flora lungo il sottopassaggio Nord fino al binario 7. Non ci sono zanzare. Le Flèches Rouges in transito causano a Flora un po’ di apprensione.
Camille dice che è stata a Vienna il mese scorso con il suo ragazzo olandese, ma si sono lasciati. L’uomo precisa che non si fermerà a Vienna, proseguirà oltre, vive in Europa Centrale, e se vogliono un impiego la sua azienda sta cercando francofoni con un cervello, lui recentemente ha assunto un bretone, non importa se non parlano la lingua locale. Camille si appunta il nome dell’azienda, nel futuro vuole fare carriera; Flora non è interessata, in fondo sono ancora due studentesse.
L’uomo è incuriosito dai cartoncini che spuntano dallo zaino di Flora: sono cartelli scritti a pennarello che hanno usato per fare l’autostop, con i cuoricini disegnati intorno ai nomi delle città. Da Menton a Gênes le ha tirate su un camionista che ha offerto loro due birre. A Voghera le ha lasciate un automobilista di Alessandria con cui hanno fumato una sigaretta. Altri cartoncini serviranno al ritorno. Sono state fortunate a incontrare persone tanto gentili, afferma Camille. Sono state fortunate, pensa l’uomo.

Il sintetizzatore vocale annuncia l’arrivo dell’Euronotte per Vienna. L’uomo suggerisce a Camille et Flora di salire a bordo e tentare la fortuna: un biglietto in mano ce l’hanno, il controllore potrebbe chiudere un occhio, loro potrebbero fingere di non capire, anche nel caso le obbligasse a scendere si avvicinerebbero alla meta. No.
Il convoglio rallenta e arresta la corsa, il capotreno appare quattro carrozze piú avanti. Camille et Flora corrono scompostamente seguendo l’uomo mentre i pochi altri passeggeri mettono piede sui predellini. Alle sue spalle osservano la breve conversazione: un saluto, uno sguardo alle turiste, un tentativo di negoziazione, un diniego. L’uomo si volta verso Camille et Flora, scuote la testa, e spinge il suo trolley sul vagone nel tempo che la porta si chiude e il capotreno segnala al macchinista di partire.
Camille si sbraccia e grida:
– Have a nice trip!

Athena Parthenos, proteggile.

The Quorum ·

L’ultima tappa della mia gitarella a Malá Strana è stata presso Shakespeare a synové (“Shakespeare e figli”), nota e costosissima libreria che vende volumi in lingue straniere. La libreria si estende su due piani; e nel sotterraneo, fresco nell’impensabile canicola del maggio praghese, c’è un salottino davvero bohémien, con vecchie poltrone e libri sparsi che invitano alla lettura.
Da un tavolino impolverato ho preso un volumetto molto curato, edito nel 2005 da una casa editrice della capitale, Twisted Spoon Press.

Joshua Cohen’s entry on Wikipedia was created two years after this book was published. I understand he is now a rather famous novelist; at the time he lived in Prague working as an editor and a journalist. The Quorum is his first collection of fiction: 10 stories, 6 dreams, 1 rant. Ten is also the number of Jewish men who are required by the Talmud to perform rituals, and most stories of the book have roots in Judaism: my favourite, Proverbs of the Harem, is a tale narrated by one of King Solomon’s concubines in the style of the Old Testament. Surrealism is the other key of the book, as exemplified in the short six dreams, echoing visions of Escher.
The final rant takes up one third of the volume and is listed elsewhere as a separate publication, perhaps this one is a draft? Cadenza for the Schneidermann Violin Concerto is the ramble of the primo violino of a famous American orchestra, addressing the audience from the stage. It is a 60-page monologue, I guess in the style of David Foster Wallace (that I have never read), or in that of Greek philosophy: it’s probably from Socrates that I had this idea, the idea for this oration, last night, much like Plato’s report of Socrates’s final hours, his speechifying. And it may be brilliant, but it is also a boring slog that I am slowly advancing during toilet breaks.

Internet explorer #13 ·

Moving up ·

Adam Scott as Ben Wyatt and Amy Poehler as Leslie Knope in an episode of Parks and Recreation, entering an elevator before the doors close, with captions «You ready?» «Not at all. But that’s never stopped us before.»

The Encampment ·

Ogni anno il Brno Writers Group organizza un concorso letterario in lingua inglese. Quest’anno il tema del concorso era «Where I am local». Colto da ispirazione, ho scritto e inviato un racconto che probabilmente avrei pubblicato su queste pagine in altra forma. Non è niente di che, sono stati premiati testi migliori, ma mi sono divertito a buttar giú parole e a rifinirle ossessivamente per un mese e mezzo.
Ogni riferimento a ingegneri nucleari esistenti o a bettole realmente vissute è puramente casuale.

Everyone has a personal geography, and a personal toponymy that was drafted by the most diverse choices and experiences in life.
At times it may happen that various personal spatial planes intersect and collapse in one point: such points are the places where we are local.

Buona lettura! Přeju vám příjemné čtení!


There’s a hole in my neighbourhood down which of late I cannot help but fall.

It first happened on the very same day that I relocated to this faraway corner of the city. It was a late Sunday afternoon at the end of summer, and I had managed to lock myself out of the flat I had just moved in. The locksmith had told me on the phone that he would come in an hour, but I was hungry, and above all I needed a restorative beverage.
I had noticed before that the closest place to my set of renovated paneláky was this hospoda, an unpretentious pub like any other, sitting at the intersection of two minor streets on the opposite side of the Svratka. So I got out in the warm setting sun, I crossed the Harbour Bridge, and I hesitated for a moment in front of the signs above the door. The Encampment was the name of the hospoda, and a golden plaque explained that Oliver Cromwell himself had camped on that spot with his New Model Army, on his way to the conquer of Hradčany.

I pulled the door: the pub was bigger than it looked from the outside, but far less crowded than I expected. At separate tables three elderly gentlemen were drinking beer, glancing from time to time at the big screen mounted on the wall at the other end of the room. ČT Sport was broadcasting the derby match between Vysočina Jihlava and Ross County, but the volume was muted, the radio instead playing nondescript classic rock. One third into the room stood the bartender, a plump woman wearing a platinum mullet, surrounded by a circular laminate counter, washing mugs. She greeted me dobrý den and she paid me little attention. I greeted her back and I asked her if they served food. Only brambůrky, kešu and tyčinky, she replied. She also had desítka and dvanáctka on tap, Kofola, and two bottles of single malt whisky from the local distillery. As I was more thirsty than hungry I ordered a pint and I gulped it down in silence, then I hurried back to the flat, into which the locksmith broke without asking me for any proof that I was the legitimate tenant.


Weeks passed before I fell down that hole for a second time. Whenever I went out to meet friends it was in some glamorous place downtown, the kind that you can read of in the travel guides. But one Wednesday evening in the middle of autumn I found myself home after a miserable day at work, and I knew that I would be thinking of charts and figures until the next morning, and I needed to let my mind roam elsewhere. So I got out in the pervading mist that was exuding from the river, and I crossed the bridge, balancing my steps on the slippery cobblestones. The bright signs were on.

I pulled the door: the pub was dimly lit, and the number of guests had increased only slightly. At separate tables two elderly gentlemen were drinking beer, while at the counter a tall middle-aged man was leafing through a tabloid. A couple in their twenties were sitting quietly under the big screen at the other end of the room, with no glasses in front of them. As for the big screen, this time it was showing a Slunečná repeat, and again the volume was muted, although no sound was coming out of the radio speakers. The bartender had changed into a skinny brunette with a pale complexion and a large green tattoo over each of her bare collarbones. A pair of butterflies? I couldn’t tell. I hung my winter jacket and I ordered brambůrky and pivo, which I fetched to a table in the darkest corner.
The young couple left when I was half way down my makeshift dinner. As soon as the door had closed, the tall man sighed aloud, moved next to where the couple were sitting, and began throwing darts at a target. The bartender switched off the big screen. One of the elderly gentlemen went out for a cigarette.

I was so deep into my thoughts of charts and figures that I didn’t notice that the gentleman had come back in, and he had got another desítka, until he took a chair and sat opposite me, uninvited. I startled. He opened the conversation by asking
«Are you middle class or working class?»
I could understand the words but not their meaning, as I was too busy trying to process the situation. He asked again
«Are you middle class or working class?»
Still my brain couldn’t make any sense of what was happening. I must have looked helpless, because he felt the need to elaborate
«You sit in shitty bar in ******* but you wear kašmír svetr and have rich bunda, that is why I ask are you middle class or working class!»
«It’s… it’s not cashmere, it’s probably yak.»
«Jak what?»
«It’s an animal, its wool is cheaper than…»
«Animal! I am also animal, I am Yellow Dog! But I am called Honza, I am pleased to know you.»
He stretched his right hand across the table, his left hand keeping the mug firmly close to the chest.

Honza, alias the Yellow Dog, turned out to be much younger than I had assumed. He hadn’t yet reached retirement age, but his thin figure and curved posture made him look like a frail senior. The long face and a tuft of golden hair gave the final touch to a vague canine semblance. What stood out were his eyes: wide, and lazy, not just as in pointing but also as in moving to different directions at once, as if the extraocular muscles had lost control of the bulbs and these were bubbles floating in a lava lamp.
That evening he did most of the chat, and it took me a while to grasp his Gaelic accent. He didn’t get my name. He thought I was French (no) and, like everyone else, he was curious about how I had ended up there. I told him of Anička, our love story and our breakup. He replied that he hadn’t heard from his wife and daughter in five and a half years.
«I have drink problem»
he confessed with a smirk, before emptying the mug and offering me one of his Spartas. I declined and, out of sheer habit, I warned him that smoking was bad for his health. He got up from the chair and he laughed at me. I thought I deserved it.


«Yellow Dog? He was inženýr at nuclear electricity»
the skinny pale bartender explained three Wednesdays later. From my stool at the counter I could appreciate the details of her clavicle tattoos – now I could see that they were two tortoises – but I could hardly hear her, because the hospoda was packed. The place had been booked for the evening by the local committee in support to the autonomy referendum. The big screen was looping a promotional video, full of forests and lakes and meadows and cliffs and happy families. At the sides were two flags with a chequered eagle painted over a Saint Andrew’s cross. Four tables had been joined and covered with trays of chlebíčky and salmon rolls. Standing behind the tables were two lads, giving out fliers and gadgets, attempting to talk politics with the voracious customers. A woman with a distinctive pin badge tried to engage me in the debate, but I bounced her away politely.
«In Thursday is karaoke night, we have more fun.»
A loud thump made all the heads turn towards the tables. Two elderly gentlemen, regulars, were grabbing each other’s ties and were smearing greasy gouda on each other’s faces.


«Second floor! That is where the language students are! Go and find yourself a pretty Slovak»
the more talkative of the independentist lads advised me the following Wednesday. His pal giggled and shaped a female body in the air. In a fit of laughter I snorted foam out of my nose. Of course I had made again the mistake of bringing Anička up in the conversation. I was sure that she would have frowned upon this display of shallow camaraderie.
It took me some effort to get up and head to the loo. I perceived half-consciously, on a sensory basis, that the hospoda was empty and silent, and that the skinny pale bartender was staring at her smartphone, just waiting for the closing time. For a change I chose the urinal on the left, and I aimed at the sticker with green and white stripes. Was it Celtic or Bohemians? I could ask, they would know. They seemed nice folks. They must have been football or hockey fans. Rugby league, perhaps? I could invite them to a match. At least I should pay this round. Yeah, they were really nice to me. Had we run out of hand towels?
When I left the toilet, the bartender was sweeping the floor and the lads were already gone.


I hastily asked the driver to pull over in the middle of the bridge. It was likely against the law, but she complied, as no other car was in sight. No one in their right mind would get on the road in such a heavy snowfall. She was tired of it too, she had already spent forty-seven minutes driving me home from the airport in first, second, at times third gear. I tipped her over the full fare, I collected my trolley bag from the trunk, and I wished her a veselé Vánoce. As I had wasted hours in the airport lounge waiting for the last plane of the week to land, so that the plane could fly me South, I had resigned to the reality that I would spend my Christmas in this faraway corner of the world.
In the black waters of the river, which once was aptly named Švarcava, an otter, or a seal, or maybe a sea lion was swimming placidly towards the harbour and the openness. Under the bright signs of the hospoda Yellow Dog was puffing at his cigarette; he nodded me in.

I pulled the door: the Thursday night was in full swing. Surrounded by the circular laminate counter, the tall darts player was pulling pints and pouring drinks. The mullet-sporting woman was scrambling among the tables. All were occupied, mostly by groups of married couples with their kids tagging along. At the other end of the room a man in a grey suit was crooning a personal rendition of The Beer Barrel Polka.
I was still looking for a free seat when I saw the skinny pale lass, off-duty, waving at me and pointing at the tip of her bench. I took off my coat and I hid the trolley bag under the table, while she and her friends squeezed to their right. I introduced myself to the party and I understood that they called her Tessa. Eventually I caught the platinum mullet’s attention and I ordered a double whisky, not the one with the lighthouse on the label, the one with the crocodile – like I knew the difference. My new best mate shared with me a bag of herring-shaped gingerbreads that she had baked.
«Eat perníčky. Not be drunk.»
I took one. It was hard and tasteless. I took a few more.

Yellow Dog was the host. He was in control of everything: microphones, karaoke set, big screen, room temperature. I was amazed by how well he managed to prod the shy to the spotlight and to revive the audience after a bad performance. I realised that he wasn’t touching any alcohol. Soon he was at my side.
«Come and sing!»
I shook my head in terror. Tessa saved me by raising her hand enthusiastically. I gave her way and I saw her negotiate with her friends what she would pick. Titles by a certain Lewis Capaldi were booed without mercy. At the other tip of the bench a boy dressed in leather suggested Černí andělé, but she didn’t know the lyrics. By association she chose the karaoke staple, Angel. She squealed all the way through it.

And down waterfàáàll

Her friends and I looked at one another. She sat back happy and unaware. Yellow Dog rushed to call up a lady who intoned like a professional one klezmer-influenced song about riding a black horse in a night full of smells. A quartet of customers stood up and mimed fiddles. I ordered another double crocodile and I took the tumbler outside.

The snowfall had ceased and the sky was clearing up under the crescent moon. An idyllic image, indeed. It also meant that later I would have to skate home over icy pavements. A couple left the hospoda carrying a sleeping toddler. Yellow Dog slipped through the door behind them, opened his pack of Spartas, and lit one. He smoked it to the filter, then he lit another one. Only then did he tell me, or the otter in the river,
«Today I stopped.»
I had guessed it right: he had quit drinking! Such a clever man couldn’t waste himself that way! I was finding the words to congratulate him, when he continued
«Tomorrow I start again.»
I dropped my head and I chuckled at my own foolishness. He threw the cigarette in the snow and I followed him inside.

And then I followed Tessa to the big screen. She smiled and she browsed the “Duets” section of the karaoke software. At Felicità I pretended to walk away in shame. At Falling Slowly her friends cheered, but we were no Glen and Markéta. In the end she chose Empire State of Mind: before I could complain, I was barking of a concrete jungle I had never been to, and of rappers and ballers I had no idea they ever existed. At the chorus she locked her eyes into mine and she bellowed:

Now you are in Brnòóòóòóò
These streets will make you feel brand-new
Big lights will inspire yoùúùúùúù

I «yo, yo»-ed back to her.

At the end of the karaoke night the tall darts player rang the counter bell and the remaining audience hushed. Yellow Dog took centre stage, he made his eyes roll around the room, he winked so to make the audience cackle, and he opened the empty envelope.
«And winner is…»
I sipped the last of my crocodile whisky.
«Tessa and New Guy!»

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L’ultimo funerale prima del G8 ·

(Il 9, l’orale della maturità. Il 10, la consegna dei diplomi.)

Il pomeriggio di mercoledí 18 luglio 2001 accompagnai i miei genitori a Genova per il funerale del marito di una zia di mio padre.
La cerimonia si svolse in chiesa a un’ora tarda e insolita: qualcuno disse che era l’ultimo funerale autorizzato in città prima del G8.
Non si respirava per l’afa, e per raggiungere il cimitero di Staglieno la carovana di automobili dovette percorrere alcune vie nella “zona gialla”, qualcuna contromano; lo stretto accesso a una piazza nella “zona rossa” era sbarrato da un’alta cancellata e presidiato da una pattuglia.

La mattina di lunedí 23 mia madre tornò dal suo turno di lavoro all’ospedale civile di Alessandria: qualcuno le aveva detto che in un reparto (chirurgia maxillo-facciale? ortopedia?) erano state ricoverate quattro persone provenienti da Genova, e che i medici e il personale sanitario si erano rifiutati di permettere alla Polizia di identificarle.

Internet explorer #12 ·

Il Foglio › Gli inginocchiatori, di Daniele Rielli. Sharing ≠ endorsement.

… Vaccinato ·

Tagliandino di conferma dell’avvenuta doppia vaccinazione contro il COVID-19.

«Máte kartičku?»

Effetti collaterali della druhá dávka: febbre, nevralgia dell’arto, priapismo. Niente che una pastiglia di paracetamolo non possa alleviare.
Vorrei ringraziare: i milioni di impotenti che hanno permesso al sig. Pfizer di reinvestire i ricavi in centri di produzione; i dr. Uğur Şahin e Özlem Türeci; la dott.ssa che parla italiano e la dott.ssa che mi ha chiesto di pronunciare ad alta voce il mio nome per poter godere del suono; i volontari del Brněnské Výstaviště; e soprattutto le infermiere che mi hanno pazientemente inoculato.

Kolečko na Malé Straně ·

Ah già, a inizio maggio sono andato in gitarella a Praga.
A Praga ero stato vent’anni fa in viaggio d’istruzione: i cani poliziotto alla frontiera, piazza San Venceslao, le belle bionde, il cimitero ebraico, la birra a mille lire. Poi, in cinque anni di residenza in Repubblica Ceca, nella capitale ero soltanto transitato, in autobus da e per l’aeroporto: non volevo fare la figura del turista italiano.
Il pretesto è stato il rinnovo del passaporto. L’Ambasciata d’Italia ha sede in Nerudova, nel cuore di Malá Strana. È stata una gitarella a tema.

Facciata dell’albergo u Bílé Lilie con lo stemma dei tre gigli bianchi in campo blu.

Sedevo sotto il portico di legno dell’osteria Ai Tre Gigli, dalle parti della Porta di Strahov.

Scorcio della porta sul retro da cui s’intravede il cortile interno.

Talvolta, quando brillava un lampo piú chiaro, vedevo vicino al muro del cortile e su per il portico bianchi cumuli di ossa umane.
La bella fanciulla diede ancora una volta un’occhiata alle porte sul cortile, poi uscí dalle porte principali del salone.

A inizio maggio le restrizioni alla libera circolazione erano state allentate, ma il pernottamento in albergo era consentito soltanto per affari o altre necessità. La domanda di posti letto non doveva essere ampia, e il primo albergo non si è fatto scrupoli a cancellare la mia prenotazione, per mancanza di clienti. Ne ho scelto un secondo in fretta e un po’ a caso.
E a caso ho vagato senza mappa, seguendo i segnali stradali e i pochi ricordi della gita scolastica. Ho guadato la Moldava tre ponti piú a sud, fra la Tančící dům e la chiatta dello šéf. Ho risalito il fiume con il sole a picco sulla calvizie, fra le studentesse rosolate, fino al varco sorvegliato davanti all’ambasciata americana, equivalente iper-tecnologico delle porte medievali.
Volevo sedermi in una hospoda malostranská a osservare beoni baffuti, ma le prime aperture erano consentite soltanto di lí a una settimana. Però un posto aperto all’aperto l’ho trovato, e c’era una panca libera, e si servivano pivečko e klobása, e mi sono caduti calcinacci in testa.

Tagliere circolare con salsiccia grigliata, pane, senape, fette di cetriolo, un pomodorino ciliegia, e accanto birra in un bicchiere di plastica pieno a metà.

A un venditore di suveníry in Nerudova, che di turisti italiani deve averne visti a centinaia di migliaia, ho chiesto cartoline e francobolli. Cartoline sí ma francobolli non ne vendeva, mi ha detto, sarei dovuto andare l’indomani in posta, «vuole spedirle in Polonia?»

Bambino in spiaggia con un’espressione soddisfatta (il meme Success Kid) e la didascalia «Úspěch!»

Intorno al monumento a Milada Horáková ho giocato a nascondino con un border collie al primo estro di nome Freya; di lei non ho foto.

Čertovka e Velkopřevorský mlýn. Kampa e Střelecký ostrov.

Internet explorer #11 ·

Všechno v pořádku ·

Břeclav → HruškyMoravská Nová Ves → Mikulčice → Lužice → Hodonín, 24. června 2021.


Luigi Lupo, calciatore ·

Quand’ero bambino abitavo in Pista, un quartiere residenziale né ricco né povero nella prima periferia di una città di medie dimensioni con un luminoso futuro alle spalle. I miei vicini di pianerottolo erano una coppia anziana di fioristi in pensione: Luigi Lupo e Maria Meriggio. Non ricordo se lui fosse autenticamente mandrogno; lei era langarola di Cravanzana. Non avevano figli, ma lei aveva molte sorelle, ed erano molto legati a due loro nipoti. Ero stato educato a considerarli “zii”, ma ebbero per me il ruolo di “nonni adottivi”. Zia Maria mi raccontava le fiabe e mi passava le riviste con le storie dei reali d’Italia. Zio Gigi era stato egli stesso il personaggio di una fiaba: aveva giocato nell’Alessandria.
Nella sua stanza, lunga e stretta come la mia, era incorniciata la stampa ingrandita di una vecchia fotografia in cui indossava la maglia grigia. La foto doveva essere stata scattata nell’autunno del 1922, perché quella fu l’unica stagione sportiva e di calendario in cui giocò.

Nel 1922–1923 l’Alessandria era iscritta al girone C del campionato di Prima Divisione, ovvero quello che di lí a pochi anni sarebbe diventato la Serie A. Luigi Lupo aveva diciotto anni e copriva il ruolo di terzino metodista (in termini moderni, difensore centrale).
Museo Grigio ha una scheda biografica e tutte le informazioni sulla sua breve carriera. Esordí alla prima giornata in una vittoria sul campo della Novese, campione d’Italia FIGC (e fu elogiato sulla Gazzetta dello Sport). Alla terza giornata vinse a Novara, alla quarta a Savona (con elogio sulla Stampa). La sua prima partita al Campo degli Orti fu un’ampia vittoria sulla Lucchese. A Ferrara perse di misura contro la SPAL. Si rifece agli Orti contro il Livorno (con nuovo elogio sulla Stampa). La sua ultima partita fu un pareggio sul campo del Pastore a Torino.
È contro il Pastore che zio Gigi si fece male a un ginocchio? Non so, ma mi disse che suo padre dopo l’infortunio lo mandò a lavorare.

La stagione dell’Alessandria proseguí, e fu una delle migliori della sua storia. Fino alla fine fu un testa-a-testa con il Padova, che passò 1 a 0 sia agli Orti sia in Veneto. Alessandria e Padova terminarono a pari punti, e per decidere l’accesso alla fase finale fu necessario uno spareggio al Velodromo del Sempione a Milano: vinse ancora il Padova, 2 a 1 ai tempi supplementari. Il Genoa conquistò poi l’ottavo scudetto.

Senza l’infortunio quale sarebbe stata la carriera sportiva di Luigi Lupo? Il suo allenatore fu il leggendario Carlo Carcano (campione d’Italia con la Juventus per quattro volte consecutive, campione del Mondo nel 1934 come vice di Vittorio Pozzo). Il suo collega di reparto arretrato, Felice Costa, vinse la Coppa CONI e disputò la prima Serie A. Zio Gigi giocò insieme ad Adolfo Baloncieri, poi storico fantasista del Torino, e agli eroi locali Giuseppe Gandini, Elvio Banchero, Renato Cattaneo; l’anno dopo avrebbe esordito nei Grigi Giovanni Ferrari (otto scudetti, due Coppe del Mondo). Erano gli anni della “scuola alessandrina”, e Luigi Lupo era un difensore talentuoso.

Questa settimana il Padova e l’Alessandria s’incontrano nella doppia finale dei playoff di Serie C, che decide l’ultima promozione alla Serie B. L’Alessandria manca dal campionato cadetto dal 1975, e ha già perso una finale playoff nel 2017 dopo aver buttato via la promozione diretta. La rosa di quell’anno valeva molto piú di questa, ma domenica allo Stadio Euganeo è finita 0 a 0, e questo pomeriggio allo Stadio Moccagatta sarà come lanciare per aria una monetina.
E quando la monetina cade, sarebbe bello stappare una bottiglia di spumante con zio Gigi e zia Maria, come la sera dell’11 luglio 1982.

Era il primo rigore della mia carriera. Il mister mi ha detto: “Te la senti?” E io cosa potevo dirgli? Di no?

Beats Per Minute ·

Santino Fontana as Greg Serrano in an episode of Crazy Ex-Girlfriend, pointing his thumbs at himself, with caption «This guy.»

In a hierarchy, every employee tends to rise to his level of incompetence.

Nová hudba, ktorej verím #5 ·

Dephcut – Cinnamon Mustache

Another summer, another light funky tune from Dephcut. Kind of elevator-ish, he writes, but that is an elevator I would ride all day long.

Fvlcrvm, KeKe feat. Ivan Dorn – Come Get Some

«There were a Slovak, an Austrian and a Ukrainian», goes the joke. All three speaking in tongues and showing questionable aesthetics!
Come Get Some is a serious contender to become my song of the year, and yes, that is an audio/video reference to Benny Benassi.

Obligatne – ENC: PARTY! live session

Kristína Mindová alias Obligatne is a young Slovak guitarist who has teamed up with two other students at the Janáček Academy of Music to form this jazz-pop trio. They remind me of Daughter. When they manage to blend her songs with the rhythm section, and they begin playing as a band instead of as three separate talented musicians, they will be really interesting. At the Alterna next week, who is coming with me?

Internet explorer #10 ·

Adulto e… ·

Lunedí il governo Babiš ha aperto la registrazione per la vaccinazione alla popolazione residente fra i 35 e i 39 anni. Ho compilato il modulo in pausa pranzo, krok za krokem, munito di tessera sanitaria locale. L’e-mail di conferma annunciava che avrei ricevuto l’invito a prenotarmi in base al mio indice di priorità e alla disponibilità del vaccino nel centro di inoculazione da me scelto, di lí a giorni o forse a settimane. Invece l’SMS è arrivato già nel primo pomeriggio, e c’erano posti liberi già in quarantott’ore. Ho selezionato venerdí (ieri) dopo il lavoro, e il sistema mi ha riservato automaticamente un posto per la seconda dose il 9 luglio. Pfizer–BioNTech o Moderna?

Il Centro Fieristico di Brno è chiuso al pubblico dal marzo dell’anno scorso. Nei giorni piú bui è stato riconvertito a lazzaretto, oggi è il primo o il secondo centro vaccinale del Paese, in gestione all’ospedale universitario. L’ingresso secondario è di fronte allo studio del mio dentista ed è servito da una fermata della šalina.

All’entrata un volontario scagliona i pazienti, spiega brevemente le tappe del percorso obbligato, e invita a compilare un modulo cartaceo con i propri dati personali e un’anamnesi semplificata. Alcuni impiegati del centro controllano i moduli, aggiungono qualche nota («38, IT»), e misurano la temperatura dei pazienti con uno scanner («36,1°»). Altri impiegati identificano i pazienti nella lista dei prenotati, e assegnano un numero progressivo. Un’infermiera raccoglie i documenti dei pazienti e li consegna ai tavoli dove siedono un aiutante e un medico.
Finora con il mio ceco me l’ero cavata bene, ma avrei saputo discutere l’anamnesi con un dottore?

– Farinetti?
Ho alzato la mano e mi sono avvicinato. L’aiutante e la dottoressa ridevano.
– Tak… mluvíme česky, anglicky, italsky?
Ovviamente.
– Italsky?
– Buongiorno!
– Buongiorno!
– Let me speak English, I’m more comfortable.

Sono stato contrassegnato con la „A“ di “allergico” («kočky, králiky»).
Un volontario smista i pazienti fra i vari stand in base a questa lettera. Ogni stand ospita una fila di cinque pazienti che siedono di fronte ad altri cinque nello stand opposto. Quando entrambe le file sono occupate, due infermiere passano con il carrello dei vaccini e spiegano cosa sta per accadere, cosa fare in caso di malessere proprio o di un vicino, e quanto tempo occorre aspettare prima di andarsene.

– Vakcína je Pfizer.

Iniezione, cerotto.

Un’ultima volontaria consegna a ciascun paziente un tesserino che indica il lotto del vaccino e funge da promemoria per la seconda dose.
Seduto su una bianca sedia da ospedale, nel bianco stand C4-6 nel bianco padiglione G2 del Výstaviště, in attesa che trascorresse la mezz’ora di osservazione, ammiravo con commozione come tutti gli addetti del centro operassero con metodo, efficienza, e gentilezza.

Lustro ·

Schermata del boarding pass del volo Czech Airlines OK719 Milano–Praga del 23 maggio 2016.

Cinque anni fa oggi imparavo la mia prima parola di ceco: vítejte.
Volevo festeggiare questo anniversario speciale pubblicando una selezione di post dall’archivio di Moravian Like You, il blog da emigrato, ma la mia mono-pagina web aveva superato duemila linee e trecento kilobyte fra codice e parole, e ospitava un carico insostenibile di foto e video, e non era piú gestibile, non pensavo che avrei scritto cosí tanto in cosí poco tempo. Perciò l’ho fatta a pezzi.

Verba volant. Scripta manent. Virtualia? è sempre diviso in partes tres, ma ora in pagine distinte:

  • in About, l’invito a riprendersi Internet, spazio tecnologico che era nato libero;
  • in Bio, la presentazione di chi/cosa/dove/come/quando/perché sono;
  • in Blog, l’indice del blog, che ha perso il titolo ed è archiviato per anni (2021 e 2020).

La homepage è ora alleggerita all’essenziale: la testata, la barra di navigazione, qualche amenità, e i post piú recenti che sono accessibili anche via feed Atom. Nel fare a pezzi Virtualia? ho ristrutturato parte del markup, e ho ridefinito tutti i permalinks (sono quei cancelletti in fondo a ogni post), con la promessa che resteranno permanent. Il foglio di stile è un continuo work in progress, e c’è ancora da lavorare sul layout della barra di navigazione in cima a ogni pagina. Invece ho passato due intere mattine a rifare l’iconcina che identifica il sito nei bookmarks. Già, è una bacca di gratachí: dove c’è il gratachí, c’è 127.0.0.1.

Disegno di una bacca di rosa canina.

Era de maggio ·

Láska čo nebolí, nebola láskou pravou.

Sčítání ·

Dove mi trovavo nella notte fra il 26 e il 27 marzo 2021?
Be’, ero nel mio letto a Jundrov, in quale altro luogo avrei dovuto trovarmi? Sono stato molto ligio al coprifuoco (sigh).
La domanda non è oziosa ma è alla base del censimento organizzato dall’Ufficio Statistico della Repubblica ceca e in corso fino all’11 maggio.

Ovviamente un censimento della popolazione non ha soltanto valore statistico, ma anche storico e politico (in campagna in qualche scatola c’è il “foglio di famiglia” compilato per conto del mio bisnonno in linea paterna nel 1936, in piena era fascista). Qui in Moravia è un’occasione per i movimenti indipendentisti locali di farsi sentire, ma non se li fila nessuno. A Brno sono comparsi manifesti come quello qui sotto, firmato da un attivista rossobruno che faceva il primario d’ospedale ma che è stato demansionato per aver girato un video in reparto in cui minimizzava gli effetti del coronavirus.

Affisso di propaganda firmato Moravský Troll.

Di quale nazionalità sei? 1914 – austriaca. 1918 – cecoslovacca. 1939 – tedesca. 1969 – boema. 2004 – europea. 2021 – nessuna? Nazionalità morava!

Io ho partecipato al censimento come straniero residente. Gli addetti passano a consegnare i moduli cartacei casa per casa, ma a differenza del bisnonno ho compilato il mio online. Nei primi giorni il sito era andato in crash e non permetteva ai cittadini con vecchie carte d’identità di accedervi. Con me ha funzionato bene: mi sono registrato con il numero del documento del rodné číslo, e ho risposto a quasi tutto in lingua inglese (sono disponibili sette traduzioni, dallo slovacco al romaní).
La domanda sulla nazionalità era fra quelle facoltative, ed era possibile lasciare due risposte. La seconda opzione era probabilmente pensata per far esprimere i Moravané e le altre minoranze. Io e altri abbiamo avuto un’idea diversa.

Schermata del censimento con indicazione delle nazionalità italiana ed (evidenziata) europea.

Come detto, il censimento ha anche un valore politico. Qualcuno non l’ha presa bene:

[Europoslanec] Jan Zahradil z ODS dává najevo, že volbu evropské národnosti považuje spíš za směšnou. „Myslím, že jde o výraz jakéhosi intelektuálního snobismu určité části lidí, kteří se domnívají, že když si tam napíšou evropská národnost, tak je to cosi lepšího, že budou vypadat jako ta progresivní část společnosti, nějaký předvoj a že to bude působit dobře, že se jako zbavili nacionalismu 19. století,“ uvedl.

Disegno del profilo di un uomo con i capelli e la barba biondi e gli occhi azzurri (il meme Chad) con la didascalia «Yes.»

The Super League ·

Il calcio è di chi lo ama. I still love you, Harmsworth Park.

Romanticismo moderno ·

Con i “punti Fragola” aziendali di recente ho preso un lettore di e-book. Sono in ritardo di una decina d’anni, ma nell’impossibilità di reperire i libri che m’interessano in formato cartaceo ho deciso di abbandonare il feticismo dell’oggetto e di abbracciare la modernità tecnologica.
Per fare pratica con il nuovo aggeggio ho riletto l’unico e-book in mio possesso (illegale), Modern Romance di Aziz Ansari ed Eric Klinenberg.

Modern Romance è un’analisi sociologica in chiave umoristica di come nascono le coppie eterosessuali nell’America contemporanea. Penso che la sociologia ce l’abbia messa Klinenberg, ma la narrazione e il blando umorismo sono di Ansari (Parks and Recreation, Master of None) o di un suo ghostwriter. Potete leggere un estratto sul sito di Time.
Il tema principale del saggio è che la modernità tecnologica di cui sopra ci permette di espandere la ricerca di un partner oltre i nostri limiti geografici e sociali. Come conseguenza abbiamo smesso di “accontentarci” della vicina di casa, della compagna di università, della collega di lavoro, dell’amica di amici, della sconosciuta imposta dai genitori, e abbiamo cominciato a cercare il meglio possibile. Lo strumento di ricerca perfetto l’abbiamo in tasca: è il nostro cellulare, per mezzo del quale possiamo accedere a milioni di potenziali partner grazie alle applicazioni di online dating.
La relativa facilità con cui possiamo trovare (o cambiare) l’anima gemella ha reso le relazioni piú soddisfacenti nell’immediato, ma piú deboli nel medio termine: quando la fase dell’amore passionale finisce, abbiamo meno interesse a continuare a investire nel legame esistente, perché pensiamo di poter trovare facilmente un’alternativa. Se per mancanza d’impegno o altri motivi non avviene la transizione all’amore affettivo, la coppia scoppia.

Nel resto del libro Ansari fa battute sulle sue passioni (cibo e rap), e dà consigli su come sviluppare una relazione nata dalle nuove tecnologie. Questa parte non è invecchiata bene: tre anni dopo la pubblicazione, Ansari sarà accusato di condotta sessuale inappropriata da una giovane donna conosciuta a una festa.
A Klinenberg chiederei invece se abbia mai letto Estensione del dominio della lotta di Michel Houellebecq.

Breve applauso. Intorno a Jean-Yves Fréhaut si crea un certo movimento; lui gira lentamente su se stesso, con aria soddisfatta. Questo ragazzo lo conosco un po’; siamo entrati in azienda contemporaneamente, tre anni fa; stiamo nello stesso ufficio. Una volta abbiamo discusso di civilizzazione. Lui sosteneva – e per certi versi ci credeva davvero – che l’aumento del flusso di informazione all’interno della società sia di per sé una bella cosa. E che la libertà non sia altro che la possibilità di stabilire diverse interconnessioni tra individui, progetti, organismi, servizi. Secondo lui il massimo di libertà coinciderebbe con il massimo delle scelte possibili. Servendosi di una metafora basata sulla meccanica dei solidi, queste scelte le chiamava gradi di libertà.
Ricordo che eravamo seduti vicino all’unità centrale. Il climatizzatore emetteva un leggero ronzio. Lui paragonava la società a un cervello e gli individui a cellule cerebrali, per le quali in effetti è auspicabile stabilire il massimo delle interconnessioni. Ma l’analogia si fermava lì. Perché lui, essendo un liberale, non si spingeva a denunciare ciò che davvero manca al cervello: un progetto di unificazione.
[…]
Non avrei mai più rivisto Jean-Yves Fréhaut; e perché avrei dovuto rivederlo? In fondo non avevamo realmente simpatizzato. Comunque, al giorno d’oggi ci si rivede poco, anche quando la relazione goda di un’atmosfera di entusiasmo. Talvolta hanno luogo conversazioni affannose che trattano gli aspetti generali della vita; e talvolta si produce un’intesa carnale. Certo, ci si scambia il numero di telefono, ma in genere ci si richiama poco. E anche qualora ci si richiami, e ci si riveda, la delusione e il disincanto prendono rapidamente il posto dell’entusiasmo iniziale. Credete a me, che la vita la conosco: le cose vanno esattamente così.
Questo progressivo sbiadire delle relazioni umane non manca di porre qualche problema al romanzo. Come si potrà, infatti, perseguire la narrazione di passioni focose, sviluppate lungo svariati anni e talvolta in grado di far sentire i propri effetti su diverse generazioni? Il meno che si possa dire è che siamo lontani da Cime Tempestose. La forma romanzesca non è concepita per ritrarre l’indifferenza, né il nulla; occorrerà inventare un’articolazione più piatta, più concisa e più dimessa. Se le relazioni umane diventano progressivamente impossibili, ciò avviene chiaramente per via di quella moltiplicazione dei gradi di libertà di cui Jean-Yves Fréhaut si dichiarava profeta entusiasta. Sono certo che egli stesso non avesse conosciuto alcun legame; il suo stato di libertà era estremo. Lo dico senza acrimonia. Si trattava, come ho già detto, di un uomo felice; detto questo, non invidio la sua felicità.

Michel Houellebecq – Estensione del dominio della lotta, 1994. Traduzione di Sergio Claudio Perroni, Bompiani, Milano 2001.
Dall’archivio di Scartari, perché la mia copia cartacea è a un migliaio di chilometri di distanza.

Nová hudba, ktorej verím #4 ·

Amelie Siba – Warm Burning Cheeks

In terms of teenage girls with something to say, Italy has Madame, and Czechia has Amelie Siba. I much prefer the latter.
At age 18 she has already released an album and a second EP that show both her immaturity and raw potential. She is one to watch.

Koňe a Prase – Vysavač

Mám doma spoustu věcí, co nepotřebuju.

Last weekend my fairly-new vacuum cleaner died, merely days after I first heard Vysavač by the discopunk band, Koňe a Prase.
The song is three years old but leads their debut album which was released last summer, so it still qualifies as “nová hudba”, OK?

Sofia Kourtesis – La Perla

(Evička, this one is for you.)

Sofia Kourtesis is a Berlin-based, Greek-Peruvian electronic musician and DJ who likes alpacas, because who doesn’t like alpacas?
La Perla is a deep-house track that takes inspiration from the death of her father and blossoms through her voice into layers of colours.

Moto carbonaro ·

Questa mattina sono andato all’ufficio delle tasse a consegnare la dichiarazione dei redditi: un solo sportello era aperto, ma ero il solo utente, sono entrato e uscito nel tempo di due timbri. Fuori c’erano il sole, e il cielo azzurro, e il vento freddo di inizio primavera, e non avevo niente da fare e pensavo che lí intorno doveva abitare kolegyňe, non eravamo molto lontano quando mi urlò nell’orecchio «My flat is five minutes from here!», chissà come sta, l’ultima volta che l’ho vista si stava infrattando sotto un cespuglio dietro l’Accademia Janáček per fare pipí.
All’angolo dell’isolato di fronte si è aperta la porta a vetro smerigliato di un centro estetico. Una donna ha guardato furtivamente in strada e ha fatto cenno ad altre due di uscire. Centri estetici, barbieri e parrucchieri sono chiusi per decreto: le sole acconciature che si notano in giro sono i capelli squadrati con la macchinetta per gli uomini sposati e la coda di cavallo per le donne. Io mi ero rassegnato a lasciarmi crescere un mullet – ma forse c’era ancora speranza.

La šalina mi ha sceso davanti alla galleria commerciale dove da cinque anni mi faccio tosare: è un salone alla buona, la cui gestione ricorda quella di una casa di appuntamenti. Una matrona accoglie all’ingresso i clienti, che si accomodano su un divano in finta pelle e attendono che una ragazza si liberi. Le ragazze dimostrano appena l’età minima legale per quel lavoro, e sono rudi e sbrigative, ma fanno quel che devono.

Stamattina il salone aveva le tende tirate e l’aria dimessa. Stavo per girare i tacchi, quando la matrona ha aperto la porta impugnando il tubo di un aspirapolvere acceso. Mi sono avvicinato e ho domandato se fosse chiuso. «Ha bisogno di un taglio?» «Sí.» «Venga, venga.» All’interno non c’era nessuno, a parte una vecchia sprofondata in silenzio nella sua sedia mentre una tintura arancione le colorava la chioma assai rada.
La matrona mi ha portato in un angolo nascosto, mi ha fatto togliere la mascherina, e mi ha chiesto quale servizio desiderassi. «Una rasatura da otto millimetri su tutta la testa, per favore.» Da anni siede dietro il bancone all’ingresso, e comunica coi clienti soltanto per offrire un caffè e per incassare il pagamento della prestazione delle ragazze, ma con gli strumenti del mestiere ci sa ancora fare, e si è premurata di darmi anche un’accorciata alle lunghe sopracciglia.
Mi sono alzato dalla poltrona uspokojený. La vecchia attendeva sempre immobile che la tintura arancione le restituisse un’idea di gioventú. La matrona ha aperto la porta quel tanto che bastava perché potessi uscire, e mi ha augurato buona salute, ché quando c’è la salute c’è tutto. Sono scivolato lungo la galleria con aria colpevole, io stesso essendo il corpo del reato, immaginando come sarebbe stato finire a Špilberk per un taglio di capelli.

Lo stato di emergenza in Cechia termina domenica; la riapertura di barbieri e parrucchieri non è ancora prevista.

Internet explorer #9 ·

Messaggio cifrato ·

Se visualizzate questo sito su un browser moderno e aggiornato, da venerdí nella barra accanto all’indirizzo potete vedere un lucchetto chiuso: significa che la comunicazione fra sito e browser è crittata con protocollo HTTPS. In queste pagine non c’è niente di segreto da nascondere, è una questione di protezione reciproca da possibili (ma improbabili) attacchi informatici, e culturale.
Non sono servite conoscenze da sistemista: ho chiesto al mio provider brunense di attivare un certificato TLS gratuito fornito da Let’s Encrypt e sei minuti dopo ho ricevuto via e-mail la conferma dell’attivazione. Poi sono bastate due linee in piú nel file .htaccess per indirizzare tutto il traffico nel canale crittato.

E ho nuovamente registrato il dominio massitwosteps.net, perché mi piangeva il cuore a vederlo in mano ai domain squatters.

Mi sono rotto la bolla ·

Sono a mio agio a vivere da solo ma non sto facendo l’eremita, non piú del solito. Nei primi due mesi del 2021 sono andato in visita da amici e ho ricevuto ospiti: alcuni avevano un certificato di salute fresco di stampa, alcuni mi hanno accolto nella propria calda intatta bolla familiare. Quale miglior segno di fiducia reciproca?
Ho pianificato le uscite, dall’ufficio delle tasse al cantiere della nuova sede aziendale, e ho preso le misure di sicurezza possibili e necessarie. «Noste roušky!» «Dodržujte rozestupy!» «Dezinfikujte si ruce!»

Insegne del locale Fléda con il messaggio «We are your friends / You’ll never be alone again / PF 2021».

È una citazione colta.

Lunedí mi svegliavo con un occhio rosso e coperto di muco, chiedendomi oziosamente se la congiuntivite fosse un sintomo conosciuto: lo è. Poche ore dopo la specialista EHS mi avvertiva in chat che forse al cantiere della nuova sede aziendale ero entrato in contatto con un positivo. Una collega? La guida dalla mascherina allentata? Uno dei tanti operai senza protezioni?
Non avevo né febbre né difficoltà respiratorie, ma da protocolli sanitari dovevo considerarmi in isolamento fiduciario. In serata conversavo via e-mail con la doktorka della mutua, prenotavo il test in una clinica di Královo Pole, e con il frigorifero piangente facevo la spesa online.
Giovedí mi presentavo puntuale nella clinica semideserta, dove un’impiegata controllava la mia impegnativa e un’infermiera penetrava i miei orifizi nasali con l’efficienza acquisita in un anno di pratica. In tre minuti ero fuori nell’aria tiepida di questa primavera anticipata. Al ritorno infrangevo le regole e mi fermavo al chiosco sulla Svratka per una birretta consolatoria che consumavo a debita distanza dagli altri beoni.

Fiume Svratka in luce grigiastra con il sole riflesso sulla superficie.

Sitting on the dock of the loděnice.

Venerdí è arrivata la conferma via SMS: la mia naturale negatività ha ucciso il virus!

Vysledek pro: M.F. nar. 1982
Vas vysledek vysetreni COVID-19 PCR je negativni

E da domani la Cechia è nuovamente in karanténa stretta.

Esperanto ·

In una notte di fine febbraio del 2013 sorvolavo Amazzonia e Atlantico seduto accanto a un anziano alsaziano, e a luci già spente conversavo con lui di esperanto in un français cassé che si mescolava a brandelli di castillano imparato in Cile.
Questo giovedí mattina ho tenuto una téléconférence di un’ora con clienti parigini che mi hanno ascoltato con estrema pazienza, specialmente quando scivolavo in intercalari cechi: «Pouvez-vous répéter, prosím?»
Alessandra, tu sapevi che studiavo francese soltanto per i crediti extra alla maturità, ma t’immaginavi che mi sarebbe mai servito a qualcosa?

Už jsem vyprávěl o prvním čase, kdy jsem šel na poštu v Jundrově (ze všech míst), a úřednice prečetla můj pas, a odpověděla mi italsky.
Také už jsem vyprávěl o čase, kdy jsem vstoupil do obchodu s oblečením ve Vaňkovce, a prodavačka byla napůl italská (benátská).
Toto úterý jsem doprovázel Ivana na pátrání po zdravé výživě v náměstí Svobody. Hledali jsme kvalitní chlebovou mouku, když krásná holka, která fotila regály na Instagram, tak nás oslovila: «Cercate la farina?»

I always talk about my 70-year-old neighbour who one day came to check my leaking radiator and, when I told him I couldn’t follow anymore what he was saying, switched instantly to a very good English. Later I checked the public registry, he really isn’t a former StB spy.
And there is also that time when I was looking for a Christmas present for my parents at the vánoční veletrhy, and I stopped in awe at a stand with marvellous rocking chairs to hang in the garden, and the lady who sold the chairs turned out to be a retired teacher of English.

Un soir froid de l’août dernier j’étais en Moravské náměstí avec Eliška, une amie d’elle, et un mec italién qui était nouveau à Brno. On parlait de son approche à la langue, et je faisais des exemples à voix haute, quand un(e) jeune sans-abri vint vers nous et demanda d’argent. Je dis stupidement que je ne parlais pas le tchèque. Il me cria et il me cracha dessus, heureusement elle ne visa pas bien.
Une journée chaude à la fin de juin j’allais à Mariánské údolí pour la fête d’anniversaire de Romča. Je devais changer de bus en Stará osada, mais je ne savais pas où exactement, et je le ratai. Je m’assis sur un banc à côté d’un vieil homme, nous échangeâmes des mots sur la météo, et il me demanda le numéro d’un bus qui était arrivé. «Čtyricetčtyri», je répondis, car je n’avais pas de salive pour prononcer la „ř“.
– Nejste Čech.
– Nejsem.
– Jste Slovák?

Enfant sur la plage avec une expression satisfaite (le mème Success Kid) et la légende «Úspěch!»

Sedici personalità ·

Majka mi ha invitato a fare un test di personalità online del genere junghiano / Myers-Briggs.
Pensava che sarei risultato un “logista” ISTJ: a dominanza di introversione, sensazione, pensiero, giudizio.
Invece sono risultato un “architetto” INTJ: a dominanza di introversione, intuizione, pensiero, giudizio; e di variante turbolenta.

Schermata del profilo Architect sul sito 16 Personalities.

Alle elementari non sapevo mai cosa scrivere, nelle composizioni a tema autodescrittivo. Da allora ho acquisito un po’ di consapevolezza di sé, eppure sempre mi è piú facile definirmi in negativo: codesto solo oggi possiamo dirti, ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.
Il profilo INTJ-T nella pagina del test è lusinghiero e “ci prende” abbastanza, in particolare nel descrivere il mio approccio alla socialità. Ma ciò avviene perché il questionario è curato e scientificamente valido, o perché semplifica la complessità umana in dicotomie astratte, e come un oroscopo è stato redatto in termini generici per adulare il lettore?

Secoli fa inviai il mio curriculum a un’azienda sudafricana che cercava una figura specializzata nel mio settore di studi. Mi rispose un’agenzia che mi sottopose un questionario Myers-Briggs. Non ricevetti né il risultato, che giacerà per sempre in un server dove non si applica la GDPR, né alcuna comunicazione da parte dell’ufficio del personale, dove forse non amavano gli Architetti. Da un aneddoto non si può estrapolare una verità generale, ma dubiterei della serietà di chi si affida a questi test in fase di selezione.

Non sono totalmente scettico sull’utilità dei questionari psicologici: dipende dall’uso che se ne fa.
Tre anni fa l’azienda in cui lavoro mi iscrisse a un (costoso) programma di sviluppo professionale gestito da una società esterna di consulenza. Come attività preliminare mi fu chiesto di rispondere alle quaranta domande del test Insights Discovery®. Indirizzai un poco le mie risposte verso il risultato desiderato, e ottenni un bel Cool Blue.
La società di consulenza mi spedí un profilo di diciotto pagine, circa possibili punti di forza e lati deboli, comunicazione efficace e blind spots, su cui non sono stato giudicato ma su cui da allora ho potuto lavorare, in un processo personale di continuous improvement.

Grafico di Insights Discovery®.

Coordinating Observer.

C’è anche quella volta in cui fui giudicato sulla base di un’analisi grafologica commissionata da un circolo di quei “capitani dell’industria” che tutto il mondo all’Italia invidia, magari quando smetto di ridere ne scrivo.

Nová hudba, ktorej verím #3 ·

When he is not in Bruxelles or Strasbourg interviewing high dignitaries of the European Union, my cousin Davide “Boris” acts as the manager of his university’s radio station and is my proxy to the music listened by post-Millennials. I loathe most of what he plays – with exceptions.

Miblu – Footprints

Miblu is a jeweller and the owner of a jewellery shop in the heart of Vienna (no kidding), who moonlights as a pop singer.
Footprints is her latest single and a departure from the electronic R&B sound that made her name in Austrian clubs.

Sevdaliza – Rhode

Sevdaliza is an Iranian-Dutch singer-songwriter who would be a sensation as a superospite internazionale at Festival di Sanremo.
She sounds a bit too much industrial to my ears, but I would like to see her live, perhaps in a double bill with De Staat.

Subtlety and sobriety.

Logo – Rompompom

Davide recommended Logo as in a “Piemonte quota”, but she probably embodies everything I despise about Milan and its creative scene.
Yet I like the song below, the main strength of which is its apparent simplicity, and which went straight to my synapses. I hate you, Logo.

Phoebe Bridgers – Savior Complex

I am not interested in Phoebe Bridgers, who became known for a #metoo case and is a rising star in the US with four Grammy nominations under her belt. But she still needs to break through in the UK, so she released this lovely video starring Paul Mescal of Normal People fame, plus a very good chihuahua, and directed by Phoebe Waller-Bridge, which is the perfect combo to reach out to potential British listeners.

Hrozba ·

Kresba obří skály na vrcholu kopce, která ohrožuje vesnici v údolí.

Zdroj?

Jsem zemědělec.
Každé ráno se budím, vstávám, otevírám okna, a dívám se na Velkou Skalku nad Starou Horou. Zavírám oči, a děkuji Bohu, aby Ona nepustila Velkou Skalku na naši zbožnou vesnici. Pamatuji si vesnici na konci údolí, kde lidi byly bezbožný, nad kterou jejich Skalka spadla na podzim, bylo to dávno.
Potom si beru svoje nástroje a chodím na pole. Moje pole je přímo po Skalkou, a jsem šťastný, protože zem je tam bohatší, a dělá chutnější potraviny. Někdo říká, že někdy naše Velká Skalka spadne, a všechno ztratím. Neposlouchám je. Věřím Bohu, aby mně a moje pole chránila.

[Pokračování příště?]

Duch kanceláře ·

Ieri sono tornato in ufficio.

Non alla mia scrivania regolare, che ho abbandonato il 16 marzo, né alla scrivania temporanea, quella di agosto. Non esistono piú: in autunno le ho ripulite entrambe, ho svuotato i cassetti, ho macinato due sacchi di vecchi documenti, poi qualcun altro le ha smontate e imballate, e qualcun altro ancora ha disdetto l’affitto degli open spaces.
(Perché non ho fatto un viaggio in piú, e non mi sono portato a casa anche l’altro schermo e la tastiera? Quanto ho amato quella tastiera!)
Avevo bisogno di stampare una foresta di papíry per ottenere una detrazione fiscale, cosí ho prenotato una postazione nell’edificio principale, molto vicino alla fotocopiatrice, e poco distante dalla mia primissima scrivania, che ora è ingombra della cancelleria di un qualche collega che non le vuole bene.

All’ingresso ho disinfettato le mani, ho appoggiato la fronte al termoscanner (36,4° C), ho letto il tesserino, ho salutato la receptionist dietro un muro di plexiglass. Per accedere alla mia postazione ho aggirato un divano giallo messo lí dove capita, il divano giallo che era in reception e su cui il primissimo giorno ho conosciuto Nicola. («Sei della Valtellina? Lo sai che la carne per la bresaola la importate dall’Argentina?»)
Ho indossato la rouška monocroma tutto il tempo, ma non penso che fra i due piani fossimo piú di dieci dipendenti.
La mensa aziendale opera ancora, ma a regime minimo, e soltanto per i vicini di capannone. Per pranzo ho comprato due tramezzini farciti e una bottiglietta di acqua sporca alla prodejní automat. Mentre masticavo è passato Giuseppe, abbiamo scambiato due parole, si è sorpreso che non sono piú stato in Italia.
L’area degli informatici era disseminata di scatole, scatoline e scatoloni, perché in primavera ci trasferiremo in una sede unica in centro città. Hat Guy è venuto a scusarsi che i traslocatori avrebbero fatto molto rumore. I traslocatori hanno fatto davvero molto rumore per dieci minuti, poi devono essersi accorti che era venerdí pomeriggio, e sono scomparsi.

Spento il portatile e rastrellata la foresta ho fatto un giretto per il parco tecnologico. Il ristorante dal pessimo customer service aveva qualche luce accesa intorno alla finestra dell’asporto. Il ristorante greco dove festeggiavamo i compleanni era chiuso, o ha chiuso. Il ristorante sul lago ha cambiato gestione ed era chiuso. Il take-away della pizza all’ananas e il negozietto costoso della catena da stazione hanno chiuso. La filiale della banca ha chiuso da mo’, ora vado a Komín, o a Královo Pole, o in Veveří.
Le campane dei Salesiani invitavano i fedeli alla Messa, ma i fedeli sono tornati in Slovacchia.
I due Billa di Žabiny sono a corto di cestini per la spesa: è una controversa misura igienica o una trovata commerciale? Anche il Lidl di Bystrc costringe all’uso dei carrelli. Per la prima volta ho chiesto alla cassiera una scatola di respirátory FFP2 (3 unità, prezzo di listino 119,90 Kč, scontato a 79,90 Kč, ovvero 1 € al pezzo), nel caso in cui il governo introduca l’obbligo di indossarle nei negozi e sui mezzi pubblici.

Dal mezzo pubblico che andava al capolinea ho guatato le insegne spente sulla hospoda di Jundrov. Quando riaprirà? Quando riapriremo?

Internet explorer #8 ·

[A] brief overview of how the Oxford/AstraZeneca viral vector vaccines against SARS-CoV-2 work, by Rob Swanda.

Previously, on The Americans ·

Manifestante pro-Trump al Campidoglio porta via il leggio del presidente della Camera e saluta il fotografo.

Poche settimane dopo l’insediamento del 45° presidente degli Stati Uniti d’America, Alessandra Daniele suggeriva perché i media tradizionali mostrassero aperta repulsione verso Donald Trump:

Fin dal secondo dopoguerra, il default mode dei media mainstream occidentali verso il presidente degli Stati Uniti era sempre stato il classico servo encomio. In diverse gradazioni, con qualche eccezione per i più sputtanati, e punte d’idolatria per i più fotogenici. L’attuale unanime costernato disprezzo verso Trump è quindi particolarmente inedito e interessante.
[…]
L’impressione è che chi controlla i media sia molto preoccupato che Trump possa diventare per gli USA una sorta di equivalente speculare di Gorbaciov per l’URSS: il liquidatore dell’Impero a cominciare dall’immagine.
[…]
L’orrido, arcigno, becero Donald Trump sta defacciando l’America. L’impatto simbolico delle sue prime azioni di governo come delle sue dichiarazioni fuori dai denti sta definitivamente strappando agli USA la maschera di benevolo e accogliente protettore del mondo, sta distruggendo la narrazione falsa e paternalista che è sempre stata uno dei pilastri principali del colonialismo USA. L’impresentabile Donald Trump sta ritirando gli USA dai territori dell’immaginario collettivo.

Il reciproco rabbioso disprezzo fra Donald Trump e i media mainstream, dal New York Times a Hollywood, segna una frattura epocale che attraversa il cuore stesso dell’egemonia USA, perché separa il trono dalla propaganda. Senza la maschera intessuta dai media embedded, il Re è nudo in tutta la sua orrida sembianza […].

Ci ripensavo l’altra sera guardando in diretta streaming le immagini della sedizione farsesca di un manipolo di hillbillies al Campidoglio, che ha distolto l’attenzione dal ben piú grave tentativo dei Repubblicani di sovvertire il voto democratico per via procedurale.
Nei suoi quattro anni di presidenza Donald Trump ha picconato alle fondamenta il mito dell’eccezionalismo americano, e ha grattato lo stucco via dalle crepe profonde nella democrazia liberale statunitense. Un sistema elettorale bizantino e immutato dai tempi della trazione a cavallo, con limitazioni al suffragio universale. Disuguaglianze che passano per linee razziali prima ancora che di classe. Abitanti delle aree rurali che sono emarginati dalla vita sociale e vivono in una realtà parallela in cui i brogli contro Trump sono stati organizzati… da Matteo Renzi! E poi il declino internazionale, dove l’influenza residua si fonda sulla potenza militare.
Il re ha svergognato l’intero reame, ed è sembrato compiacersene.

I media tradizionali sono tornati in modalità “servo encomio” con l’elezione del suo successore, nonostante qualche sottaciuta affinità in tema di conflitti d’interesse familiari e molestie sessuali.

In questo […] scontro epocale fra Imperialismo morente e Nazionalismo rianimato non ci sono Good Guys.

Seguo con piacere una sitcom poliziesca che s’intitola Brooklyn Nine-Nine: è prodotta dalla NBC (il network televisivo piú liberal d’America) ed è considerata all’avanguardia per diversità del cast e approccio alle tematiche sociali; ma fa anche ridere. In un episodio recente la trama verteva sull’incontro fra un personaggio principale (un detective insicuro della propria mascolinità) e il padre biologico del suo figlio adottivo (un seducente compagnone). Il potenziale conflitto fra padri veniva risolto, senz’alcun rimorso da parte dell’allegra brigata, con la pretestuosa deportazione di quello biologico verso il Paese d’origine: un abuso di potere played for the laughs per il pubblico progressista.
Negli stessi giorni le cronache riportavano dei bambini separati dai genitori nei centri di detenzione per migranti al confine con il Messico, e del loro affidamento a famiglie americane: un destino che a me ricorda quello dei figli dei desaparecidos argentini. Sono sicuro che Joe Biden porrà fine a questo scempio umanitario, cosí come Barack Obama ripristinò lo stato di diritto a Guantánamo. No?

Bravi Joe e Jill!

Ecco, bravi ma non bravissimi.

Bagna cauda ·

Bagna cauda (také bagna càuda nebo caoda, česká výslovnost „baňa káuda“, doslova „horká lázeň“) je lahůdka z mého kraje, Piemont.
Je to zemědělský podzimní recept, který spojuje zemské a mořské příchutě. Je to tradiční, ale existují několik variant. To je moje.

Ingredience pro 1 osobu: padesát gramů ančoviček, tří stroužků česneku, olivový olej, čerstvá zelenina (artyčok kardový, celer, fenykl, mrkev, paprika červená a žlutá, topinambur jsou nejoblíbenější možnosti).

Vezměte hrnec a nalijte hojný olej. Nasekejte česnek a vařte to v oleji na nízký oheň. Opláchněte a nasekejte ančovičky, a vařte je s česnekem. Odděleně, krájejte zeleninu na široké proužky. Když v hrnci máte jako směs, vypněte oheň a poslužte to horké s krájenou zeleninou.

Zdroj: S Italem v kuchyni. Podle všeho je to slavný šéfkuchař.

Buon appetito. Po jídle, nezapomeňte otevřít okna a se vysprchovat!

Internet explorer #7 ·