Darren Evans, detto Smoggy, è stato la guardia del corpo dei Blur.
“Suonò” sul palco del Teatro Ariston di San Remo nel 1996, sostituendo al basso Alex James che non si era degnato di presentarsi, mentre Graham Coxon era stato rimpiazzato da un cartonato, in un’interpretazione di Charmless Man in playback.
Io ne ho un ricordo personale. Novembre 2003, noi di Blurred Italy attendevamo fuori dall’Alcatraz di Milano che Albarn, James e Rowntree uscissero dal locale. Scambiai due parole con Mike Smith, Dave si fermò a firmare autografi, Alex si lasciò fotografare; e lo stavo fotografando, quando Smoggy mi passò davanti (spingeva via Damon?) rovinando l’immagine. Succede.
Smoggy tornò indietro e si scusò.
The Ballad of Darren è il disco della rottura di Suzi Winstanley da Damon Albarn. E non sarà inutile, ma è un disco solista di Damon Albarn, camuffato da disco dei Blur. Un album di ballate, composte al piano come fanno i cantautori cinquantenni, con blande liriche per farle sapere che ha capito, che è solo, che ormai è tardi, che la loro storia era già finita, etc.
Anche 13 era il disco di una rottura (di Albarn da Justine Frischmann); ma la ballata di apertura di 13 era Tender, un pezzo di armonie gospel lungo sette minuti che vale la carriera di mille altre band, non il completamento lennoniano di un demo (Half a Song) abbandonato vent’anni prima e ripreso su insistenza della guardia del corpo; e il resto dell’album aveva “il sangue sulle tracce”.
Come il secondo disco solista (ufficiale) di Albarn, anche The Ballad of Darren contiene auto-plagio, falsetti emozionali, nuotate esistenziali (in copertina). A levigarlo per un improbabile passaggio radiofonico, e a renderlo poco distinguibile da un album dei Gorillaz, è la produzione di James Ford, produttore anche degli Arctic Monkeys, e non è un caso che Albarn nel cantare faccia il verso all’ultimo Alex Turner.
I pezzi migliori sono quelli in cui si sente il coinvolgimento di tutti e quattro i membri del gruppo: St. Charles Square col riff preso dal Bowie anni ‘80, Barbaric col jingle-jangle finto-allegro alla Smiths e il basso saltellante, The Narcissist. Opportunamente, sono anche i tre singoli. Altrove il contributo di Graham Coxon è limitato a ricamare intorno a quel che Albarn ha portato in studio, e a fare dei coretti imbarazzanti. Ancor piú limitato è il contributo di Alex James e di Dave Rowntree: alle linee di basso e alla ritmica ci pensa Ford con le sue tastiere Casio dai pattern predefiniti. Quanto piú bella sarebbe The Narcissist senza coretti e senza parvenza di drum machine!
The Ballad of Darren è un disco curato, di mestiere, con un’unica fonte predominante, il cui registro patetico (che pure ai Blur appartiene) non è supportato da un coinvolgimento emozionale che sia evocato dalla bellezza e dalla complessità della musica.
Questa è la mia opinione dopo una manciata di ascolti. Ogni recensione che ho letto deriva dai medesimi elementi opinioni opposte alla mia:
Forse è una questione di mie aspettative e di mia maturità. Forse mi serviranno multipli ascolti quotidiani per le prossime sette settimane per liberarmi della sensazione che Albarn sia entrato in studio di registrazione con materiale modesto e abbia trattato Coxon, James e Rowntree come talentuosi turnisti.
Damon, stai dicendo a Suzi o a me?
Suoni e ultrasuoni del 2023 ·
Ho la suggestione di un andamento regolare che non intendo verificare: negli anni dispari escono piú dischi di artisti che mi piacciono. Al principio, cosí, de botto, senza senso: (l’ennesimo inutile album a firma Gorillaz di) Damon Albarn! Graham Coxon! … Dave Rowntree?! E il ritorno dopo ventiquattro anni degli Everything but the Girl, con l’unica canzone che ho ascoltato nella top 100 di Pitchfork.
Come negli anni scorsi, la colonna sonora del 2023 è stata gentilmente offerta dai canali alternativi delle radio pubbliche slovacca e britannica (ma senza Steve Lamacq non sarà piú la stessa cosa), e ho scaricato numerosi dischi che non mi sono poi curato di ascoltare (EbtG compresi); mentre scrivo c’è una dozzina ventina di file .rar, parcheggiata sul desktop, che attende da settimane mesi di essere importata in Strawberry.
The Ballad of Darren dovrebbe essere automaticamente il mio disco dell’anno, no?
No. Non perché è brutto, ma perché non l’ho ancora ascoltato.
E non l’ho ancora ascoltato non soltanto perché voglio ascoltarlo come si deve, con calma, su supporto fisico (mi è arrivato una settimana fa); ma soprattutto perché sono terrorizzato dal potersi trattare di un inutile disco solista di Damon Albarn, camuffato da disco dei Blur.
Non sono mai andato a tanti concerti come in quest’anno solare…
Quando le persone dicono che non hanno tempo libero per leggere, significa che nel loro tempo libero hanno altre priorità che non la lettura; not that there’s anything wrong with that. Nel 2023 ho tagliato sulle serie televisive (non ho piú idea di cosa vada in onda o in streaming) e – puff! – mi sono trovato con un’ora libera in piú quasi ogni sera. Avrei avuto ancor piú tempo se non avessi scritto oltre 400 kilobyte fra codice e parole di Virtualia?, spesso per annotare e commentare le mie letture, in un circolo virtuoso, anzi vizioso, perché mentre leggo penso a cosa potrei annotare e commentare, e ciò è contrario alla persuasione, il possesso presente della propria vita e della propria persona[1].
Quel deficit di attenzione che affligge la mia generazione, per cui non riesco / non riusciamo ad andare avanti piú di poche pagine per volta, permane. E, sempre a proposito di tempo, davvero ho letto Ivana Dobrakovová in quest’anno solare? Sembra un lustro fa.
Karel Čapek – The Gardener’s Year (1929) Il racconto umoristico delle annuali peripezie di un amante del giardinaggio; con le tenere illustrazioni del fratello Josef.
Dino Buzzati – Il deserto dei Tartari (1940) Nelle parole dell’autore, una storia in cui [viene] riassunto il destino dell’uomo medio, dell’uomo che spera in una grande occasione, che fa di tutto per farla venire, e questa occasione appare, sembra che stia per realizzarsi e poi scompare e se ne va via. Il problema (mio) con Buzzati non è quanta ispirazione abbia trovato in Kafka; è che Kafka esprimeva gli stessi concetti in poche pregnanti pagine, mentre Buzzati li ripeteva fino allo sfinimento, ammantandoli di una blanda retorica militarista ed ecologico-religiosa che mi ripugna. E Giovanni Drogo è un fesso che si crede chissà chi: in questo sí, molto italiano, senza tempo, da identificarcisi.
Jonathan Franzen – Crossroads (2021)
L’anti-Correzioni, dove ogni personaggio fa di tutto per ripetere, a modo suo, i medesimi errori della generazione precedente. La trama avrebbe beneficiato di qualche taglio; la prosa insiste a guidare il lettore per mano, a spiegargli l’ovvio, come se non lo ritenesse capace di comprendere da sé. Singolare come l’autore abbia recuperato il favore della critica militante mettendo la parola “privilegio” in bocca a un pastore cristiano e a sua moglie, nella Chicagoland dei primi anni Settanta, quando il concetto contemporaneo di white privilege non era ancora uscito dall’ambito delle università liberali della costa orientale degli Stati Uniti.
Franz Kafka – Il castello (1926)
È un libro illeggibile, eh!
Graham Coxon – Verse, Chorus, Monster! (2022) There were a few times when I got pretty drunk, but mostly I wouldn’t allow myself more than five or six pints.
Jaroslav Koutek – Quinta colonna all’Est (1962)
Volume scovato su Knihobot, e ora gemma della mia československá knihovna, è un dettagliatissimo resoconto dell’operato sovversivo della minoranza tedesca nei Sudeti durante la První republika, fino alla conferenza di Monaco di fine settembre 1938. Visuale e fonti comuniste, casa editrice socialista. Col senno di poi mi chiedo come Edvard Beneš e Milan Hodža non abbiano saputo o voluto opporsi al disastro che andava compiendosi, nell’indifferenza o connivenza dei governi liberali europei. Possibili parallelismi con la questione dell’Alto Adige (in evidenza nella prefazione di Ferruccio Parri), e con la situazione del Donbas e l’invasione russa dell’Ucraina nel 2022.
Gino & Michele – Anche le formiche nel loro piccolo s’incazzano (1991)
Herman Melville – Bartleby lo scrivano (1853) Anzitutto, sono un uomo che, sin dalla giovinezza, ha coltivato la convinzione che, nella vita, la via più facile sia sempre la migliore. Ed è molto piú facile evitare un conflitto che affrontarlo; da cui derivano i guai con Bartleby del narratore (mon semblable, mon frère).
Joseph Heller – Catch-22 (1961)
Un romanzo che mi ha mal disposto sin dalla prefazione dell’autore. Mollato allo sciatto paragrafo che descrive il comma da cui il titolo.
Silvio D’Arzo – Casa d’altri (1953)
Suggerimento per una tesi di laurea in Lettere: “Affinità e divergenze [2] fra Casa d’altri e Bartleby lo scrivano”. A Zelinda la lavandaia manca soltanto un tormentone che la renda popolare anche a chi non ha letto di lei; ma in entrambe le storie la tragedia è nell’inabilità del narratore a trovare una risposta al rifiuto di vivere del suo protetto.
È l’ultima volta (per quest’anno) che cito Claudio Magris che cita un altro autore. ↩
Ezio Comparoni e Giovanni Lindo Ferretti sono entrambi di Cerreto Alpi, paese che ha ispirato lo scenario del racconto: tout se tient. ↩
The Paris Review › Primo Levi, The Art of Fiction No. 140, by Gabriel Motola. I expect everyone to be ethical. But I don’t think scientific training as one is taught in Italy or America brings you to an especially ethical consciousness. It should. In my opinion a young man or woman entering the university in natural-science departments should be told sufficiently and heavily to remember that you are entering a profession where morality is important. There is a difference between a chemist working in a paint factory like me or in a poison-gas factory. You should be conscious of your impact in real life. You should be able to refuse some jobs, some employments.
The New Yorker › Cat Person, by Kristen Roupenian.
Citation Needed › Effective obfuscation, by Molly White.
Whenever you hear or read about “effective altruism”, think of “tax dodgers”.
Whenever you hear or read about “effective accelerationism”, think of “nazis”.
– Negroni?
Petra, studentessa di arti figurative da Banská Bystrica, chiede per cortesia professionale, ma potrebbe servirgli l’aperitivo appena vede Luca entrare al Sesto Ramo. Nella mescita Petra ha una mano costante, il cocktail non le riesce mai né troppo alcolico né troppo amaro: possiede una piena padronanza piemontese del Punt e Mes. Talvolta la si trova di qua del bancone, a cianciare con le amiche o a civettare con i ragazzi. Una sera, era il suo compleanno, la barista-capa le regalò un mazzo di fiori, a mo’ di proposta di matrimonio: «She said yes!»
Se e quando avrò una figlia, voglio che cresca come Petra.
Strain Rate et al. @ Melodka, Brno,
Melodka is a historical music club, in the corner of an ugly functionalist building in the Brno borough of Veveří. It will move to Královo Pole at the turn of the year, so this was the first and only time I have ever been there.
For Vojta this was the first and only time he has ever played there: he bangs the drums in an indie band named Strain Rate, it was their debut. They demoed a set of eight well-crafted alt-rock songs with tints of jazz: one (Evička’s favourite) had a rhythm change that made it stand out, at least for the surprise effect. The encore piece employed what I recall was a microKorg vocoder, set to a cavernous distortion, for the art and for the laughs. The singer overcame stage fright by locking eyes with her husband and with her sister in the sparse audience; I just wish that she had come up with more imaginative lyrics.
Strain Rate were supposed to play in a ticket with a local emo band (they still exist) and with The Gambit, a Slovak rock band of 18-year-olds, whose songs are in heavy rotation on Rádio_FM (think of Måneskin from Bratislava). The Slovaks bailed out, and were replaced by Melodka with a Soviet/Venezuelan metal-progressive band, sporting the mandatory look and a cool 8-string guitar. They were fun but I didn’t make it past their third song.
Katarzia @ Kabinet Múz, Brno,
In confronto al concerto di due anni fa, stasera il pubblico è una decina d’anni piú vecchio, piú maschile ed eterosessuale; il locale è sold-out, ed essendo un buco devo aspettare venti minuti in fila per lasciare il bunda alla šatna. Katarzia è in tour per promuovere il sesto album Šťastné dieťa (“Bambina felice”), che leggo essere un ritorno a un cantautorato piú acustico, infatti ha mollato i produttori elettronici che la stavano incartando come una Björk slovacca. Arrivo impreparato, perché la mia copia è ancora in negozio a Plzeň, e perché Nika Svorenčíková l’ha passata di rado nel suo programma serale.
Katarína Kubošiová sale sul palco con un chitarrista, un bassista, un batterista, e due coriste. Indossa un impermeabile giallo, e a ogni pezzo alterna la conversazione coi presenti: «Ho comprato un nuovo effetto per la chitarra, l’ho comprato rosa.» Non conosco nessuna delle canzoni della prima metà del set, che sono davvero un ritorno al pop nello stile di Agnostika. Le coriste danno piú corpo alle parti vocali, ma i ritocchi elettronici sono rimasti e si sentono quando le coriste abbandonano la scena. La seconda metà del set include Hoří i voda, Samota mi nevadí, Milovať s hudbou in un arrangiamento ancora diverso: Je tu ešte niekto, kto nemáva depky?
Thanksgiving a Theresienstadt ·
Le linee ferroviarie che da Praga portano ai Sudeti seguono il corso dei fiumi – la Moldava, l’Elba, l’Ohře – come se fossero fiumi esse stesse, e si diramano e riconfluiscono e formano isole intorno alle città secondo un disegno asburgico il cui senso è perduto.
(To je mi) Litoměřice, una Kroměříž boema, è circondata da colline e vigneti, e ha un centro storico sul modello di mille altri in Mitteleuropa.
In Boemia soffiano i venti di una tempesta artica; sull’autobus che conduce a Terezín sono l’unico forestiero. All’ingresso della Malá pevnost (“Fortezza Piccola”) mi attende una guida filippina coniugata ceca che parla l’italiano come io lo spagnolo, adattando un vocabolario diverso alla propria grammatica: l’effetto è buffo e porterebbe al riso, se non ci si trovasse in un luogo che trasuda sofferenza dai tempi del conflitto austro-prussiano. Qui nel 1914 fu imprigionato Gavrilo Princip; qui dal 1940 furono imprigionati dalla Gestapo migliaia di oppositori politici all’invasione nazista della Cecoslovacchia e dell’Europa. La fortezza in sé è una meraviglia architettonica, simile alla Cittadella di Alessandria (la guida conosce soltanto Palmanova). All’interno: da una parte i dormitori e le celle d’isolamento, le docce gelate e l’infermeria, il patibolo; dall’altra parte le belle palazzine, il cinema e la piscina per i gerarchi e le loro famiglie.
Di là del fiume, si entra a Theresienstadt camminando lungo la provinciale. I bastioni sono stati civilizzati, spianati o trasformati in maneggi; l’aria puzza di sterco di cavallo. Gli abitanti rimasti sono poche migliaia, sparsi per poche strade intorno alla piazza principale: oggi è difficile immaginare che qui furono rinchiusi centomila e piú ebrei da ogni angolo del continente. Il mio biglietto include l’accesso al museo del ghetto e a una caserma ristrutturata, ma passo oltre, verso il colombario e il crematorio: fortunati (?) coloro la cui sofferenza ebbe fine qui, in questi luoghi relativamente tranquilli, e non in un campo di sterminio.
Una casupola che un tempo ospitava la pesa pubblica, situata presso ciò che resta dei binari, ora è sede di una mostra sui trasporti ferroviari in entrata e in uscita dal ghetto. Nell’ultima teca è esposta una scheda battuta a macchina: vi si legge che fra gli ultimi ad andarsene furono settantatré italiani, il 10 giugno 1945, con un treno via Bohušovice per Praga. Percorsero, a ritroso, le medesime linee lungo i medesimi fiumi: l’Ohře, l’Elba, la Moldava; e poi chissà.
Sul rapporto fra Primo Levi e lo Stato d’Israele sièscritto. Egli lo considerava sí un’isola di civiltà occidentale, una portentosa palingenesi dell’ebraismo, ma dell’ebraismo credeva che il baricentro [fosse] nella Diaspora. Non era sionista, ed era critico verso la militarizzazione e la politica israeliana del suo tempo. Vedeva analogie fra la condizione dei palestinesi e quella degli ebrei, ma non si spinse ad affermare altro.
Sarebbe stato inorridito dall’esistenza e dalla violenza di Hamas? Sí, come ogni persona dotata di empatia per i propri simili.
Sarebbe stato inorridito dalle illegalitàdi Stato operate dai governi del Likud e piú a destra, dalle violenze dei coloni in Cisgiordania generate da ragioni economiche, da fanatismo religioso o politico e protette dall’esercito regolare, e dalla rappresaglia in corso a Gazaperpetrat[a] su popolazioni innocenti ed inermi, e legittimat[a] dalla dottrina del disprezzo? Sí, come ogni persona dotata di empatia per i propri simili.
Restiamo umani.
Filumena a Marturano ·
Sono tornato a teatro, dopo quindici (?) anni, al Semilasso in Královo Pole, a vedere Filumena Marturano, di Eduardo De Filippo, in ceco (!), anzi Filumena a Marturano, come stampato sulle locandine, perché “Marturano” suona nome da uomo, dev’essere il protagonista maschile, jinak by to bylo „Filumena Marturanová“, že?
Temevo che l’adattamento avrebbe calcato la mano sull’eccentricità napoletana, sugli esotismi da pizza e mandolino, invece l’allestimento era molto sobrio: la riproduzione di un dipinto barocco come fondale, un tavolo e quattro sedie per rappresentare il salotto di don Mimí; qualche nota di ‘O sole mio come introduzione alla scena e come elemento comico nel secondo atto.
Sono riuscito a seguire la trama, che avevo ripassato prima di uscire, ma per la lingua non ho capito la metà delle battute. Svatopluk Skopal nei panni di Domenico Soriano mi è piaciuto piú che Simona Stašová nel ruolo eponimo: quando lei prendeva la parola il ritmo calava, ed è Eduardo ad aver fatto della sua protagonista una stronza, o l’interpretazione della Stašová?
Pubblico popolare dall’età media di 55 anni; sala gremita in ogni ordine di posti, tranne le ultime file in platea e la seggiola accanto alla mia.
La pagina s’intitola Itálie v Terezíně, “l’Italia a Terezín”. L’autrice si è firmata con una „T.“, l’iniziale del suo nome, che non conosciamo.
Chissà cosa ispirò le ragazzine della casa XI a stendere i loro panni alla maniera italiana, o soltanto a immaginare che la biancheria appesa fra i letti a castello fosse uno scorcio di Mediterraneo, quando invece sopravvivevano in un freddo e nebbioso angolo di Boemia.
A Terezín ebbero un ruolo importante gli insegnanti, intellettuali anch’essi internati nel ghetto. Dietro Bonaco c’era Gertruda Sekaninová, che prima e dopo l’Olocausto ebbe una vita pazzesca ed è oggi ricordata fra i dissidenti primi firmatari della Charta 77. I giornalini scritti da e per adolescenti furono sei; la produzione artistica e musicale del ghetto fu molto ampia. L’impegno degli educatori permise ai bambini di Terezín di coltivare quella creatività e di conservare quell’umanità che i nazisti volevano annientare.
Come il nome, cosí la sorte di T. ci è ignota.
Co se smí a nesmí ·
A Praga, al primo piano della Sinagoga Pinkasdella Sinagoga Spagnola, parte del complesso del Museo Ebraico, una mostra permanente raccoglie materiale dal campo di concentramento di Terezín (la cittadina boema piú nota col nome tedesco di Theresienstadt): oggetti e scritti che testimoniano il tentativo dei centomila ebrei rinchiusi nella fortezza di vivere una vita quanto piú possibile normale. Fra questi mi hanno colpito due documenti.
Il primo è la copia a matita di una poesia o filastrocca, di autore ignoto, sulle restrizioni che gli ebrei subirono dopo l’annessione dei Sudeti e l’occupazione della Cecoslovacchia da parte della Germania nazista. Il testo esposto nella mostra in sinagoga differisce da quello pubblicato in un bollettinodell’Istituto Terezín (intitolato Co se smí a nesmí, “Cosa è permesso e cosa no”), e ancor piú da quello trascritto nel suo diario dal tredicenne Petr Ginz, probabilmente perché la poesia o filastrocca era trasmessa oralmente da ragazzino a ragazzino.
Mi permetto di ricopiare il testo della mostra, con l’aggiunta degli ultimi due versi dal bollettino, e di tentarne una traduzione.
Dnes je jasno už všem lidem
kdo je arijcem, kdo Židem,
neboť Žida poznáš vezdy
podle černo-žluté hvězdy.
Oggi è chiaro a tutte le persone
chi è ariano, chi è ebreo,
perché l’ebreo lo riconosci sempre
dalle stelle giallo-nere.
A chce-li beztrestně si žít,
musí na paměti mít:
vždy po osmé hodině,
věnovat se rodině
pracovati jako dělník
neposlouchat ani Mělník,
vyučovat doma děti
kupovat od tří do pěti,
nemít šperky, česnek, víno,
koncert, divadlo ni kino,
domy, byty, gramofony,
kožich, lyže, telefony,
vepřové, cibuli, sýry,
aparáty, přesné míry,
jízdní kola, barometry,
ponožky a teplé svetry,
drůbež, mýdlo na holení,
marmelády ni kouření,
vůdčí listy, lihoviny,
časopisy a noviny,
bonbony neb psací stroje,
teplé spodky – ani dvoje,
obchody, pole a bory,
akcie, továrny, dvory,
sardinky, ovoce, ryby.
E se vuole campare impunito,
deve tenere a mente:
tutti i giorni dopo le otto,
di badare alla famiglia
di lavorare come operaio
e non ascoltare quel che viene da Mělník,
di far lezione in casa ai bambini
di far compere dalle tre alle cinque,
di non avere gioielli, aglio, vino,
di non fare musica, teatro né cinema,
di non possedere case, appartamenti, grammofoni,
pelliccia, sci, telefoni,
carne di maiale, cipolla, formaggi,
macchine fotografiche, abiti su misura,
biciclette, barometri,
calze e maglioni,
pollame, sapone da barba,
conserve né tabacco,
patenti di guida, liquori,
periodici e giornali,
caramelle o macchine da scrivere,
mutande invernali – un paio al massimo,
negozi, terreni e pinete,
azioni, fabbriche, corti,
sardine, frutta, pesci.
Možná, že něco chybí
je těch věcí jistě víc,
nekupujte raděj nic!!
È possibile che manchi qualcosa
sicuramente c’è altro ancora,
piuttosto non comprate niente!!
Navykni si chodit pěšky
ať si prší či je hezky.
Nesmíš jezdit v rychlíku
v tramvaji, neb taxiku.
Abítuati ad andare a piedi
sia che piova sia che faccia bello.
Non puoi andare in treno
in tram, o in taxi.
Ať jsou sebevětší svody
nikdy nelez do hospody,
na nábřeží, výstaviště,
do musea, koupaliště,
na pošty a na perony,
k Meinlům neb na stadiony,
do kostela do herny,
na záchodek veřejný.
Per quanto grandi siano le tentazioni
non t’infilare mai al bar,
sul lungofiume, alla fiera,
al museo, in piscina,
alle poste e in stazione,
al caffè o negli stadi,
in chiesa ai giochi,
ai bagni pubblici.
S penězi buď opatrný,
účet měj vždy vázaný,
zanechej nepěkné zvyky
s arijci nepěstuj styky.
Al denaro sta’ attento,
abbi sempre un conto vincolato,
abbandona le brutte abitudini
con l’ariano non restare in contatto.
Smí však jeden jako druhý
mít tři kufry – a popruhy.
[S těmi smíš se naparovat,
s těmi smíš i emigrovat.]
Puoi tuttavia avere una come due
o tre valigie – e cinghie.
[Con queste puoi darti delle arie,
con queste puoi anche emigrare.]
[Ultima revisione: / Poslední revize: .]
False colours ·
Lost code ·
In the past weeks I wrote some code for my Virtualia?, which in the end I decided not to deploy.
In an unhealthy JavaScript frenzy I came up with a script to show a random blog article to you readers. It follows the same logic that earlier this year I used to display a random quotation on the homepage. It would have been applied in the navbar to an emoji of the shuffle button.
If JavaScript is enabled in your browser, then the code is fully functional, you can try it yourselves by clicking here. Chance will redirect you to one of the five articles listed above; just remember to come back and read the remainder of this article!
I did not deploy the script for several reasons. For starters, this thing is quite useless, and each click loads fully a whole year of blogging. Then I would have to maintain the list of articles inside the script, which would be another step in my manual publishing workflow. Or I would have to find a way to parse the Blog page for relevant links, which would become a heavy burden on the browser, and anyway is beyond my skills.
Recently I also toyed with the navbar, which I wanted to show in negative colours (white on blue in light mode, navy on lime in dark mode) when focusing or hovering on it. This works well with text links, but not with the feed icon, because it is not a series of stripes but four discs with alternate colours, stacked on top of the others. To the best of my skills, making it work with the icon requires multiple color properties.
The other option would be to load an image as a background to the link. Therefore I drew an SVG icon; that is, I wrote the source XML code. It is a known issue that it is hard to change the colour of external SVG icons on focus or on hover: as many images as the colours are needed, which are to be stored in one file (a “sprite”) and selected in each different case. Again that requires multiple background-image properties.
I don’t like either solution, so the navbar doesn’t change, for now at least. Next year I must review all the HTML and the CSS of my Virtualia?.
Graphomaniac ·
Milan Kundera’s books are dense with ideas, which are expressed in a form that I find difficult to digest. The postmodern winks to the reader, the characters explicitly used as puppets… Just like another writer I find both interesting and atrocious, he should have been a philosopher, not a novelist.
Then yes, Kundera’s ideas are also controversial: perhaps he was not truly a misogynist, just androcentric, but read the spiteful treatment of the female characters in The Joke, or the rape fantasy and the discourse among poets about women in The Book of Laughter and Forgetting. I think Michel Houellebecq owes him something, at least for the acceptance of the “male gaze” as a literary device.
To say nothing of Kundera’s life: allegedly in his youth he was an informer of the Communist regime, later he sported his well-endowedness; both aspects spill into his prose as recurring themes. But hey, he was our sexist snitch satyr!
Controversies and style aside, Kundera wrote interesting pages on what defines humanity. Here below is an excerpt that may have been lifted from a contemporary essay on social media:
My dear public of unknown readers, are we not now living in the age of universal deafness and incomprehension?
Internet explorer #31 ·
London Review of Books › Attempts to Escape the Logic of Capitalism, by Slavoj Žižek. I find the idea of civil society doubly problematic. First, the opposition between state and civil society works against as well as for liberty and democracy. A 1999 review of a biography of Václav Havel, where the Slovenian philosopher expressed some of the same criticism I have for the Czechoslovak politician’s most famous work. So while in the specific case of Late Socialism the idea of civil society refers to the opening up of a space of resistance to ‘totalitarian’ power, there is no essential reason why it cannot provide space for all the politico-ideological antagonisms that plagued Communism, including nationalism and opposition movements of an anti-democratic nature. These are authentic expressions of civil society – civil society designates the terrain of open struggle, the terrain in which antagonisms can articulate themselves, without any guarantee that the ‘progressive’ side will win.
Italy Segreta › Monferrato: Digging Memories Through Wine, by Lorenzo Cibrario. Overshadowed by the flamboyant fame of Langhe, […] Monferrato stands quiet and still in its wild, vibrant and bucolic landscapes.
New York Magazine › You Are Not a Parrot, by Elizabeth Weil.
What’s in a name? [Emily M. Bender] also started publicly challenging the term artificial intelligence […]. Bender remains particularly fond of an alternative name for AI proposed by a former member of the Italian Parliament: “Systematic Approaches to Learning Algorithms and Machine Inferences.” Then people would be out here asking, “Is this SALAMI intelligent? Can this SALAMI write a novel? Does this SALAMI deserve human rights?” Of course that former Italian MP is Stefano Quintarelli, who wrote: the first and foremost AI bias is its name.
Cam Pegg › Thoughts On Being “Data-Driven”. Being truly data-driven limits the spectrum of possibilities, while being data-informed expands the horizon for exploration and discovery.
Robert Balzar è un contrabbassista, nato nella medesima cittadina di Josef Škvorecký, che una sera di trent’anni fa suonò in un club di Praga con Bill Clintone Václav Havel. Si presenta sul palco dell’Alterna con il pianista Vít Křišťan e il batterista Kamil Slezák. Non conosco né loro né il loro repertorio. Ascoltandoli mi ricordano quegli stormi di uccelli in volo che a un tratto rompono la perfetta formazione geometrica, prendono direzioni diverse, cabrano secondo un preciso disegno che da terra resta invisibile, infine tornano tutti nello stesso istante a essere uno sciame compatto. Cosí è la loro musica.
Erik Truffaz @ Fléda, Brno,
È la seconda volta che vedo Erik Truffaz. Stasera si presenta sul palco del Fléda con il fidatissimo Marcello Giuliani al basso, Alexis Anérilles dietro un organo pianoforte elettrico Rhodes, e Raphaël Chassin dietro la batteria. È il tour a promozione di un disco in cui se replonge dans les salles obscures et réinterprète les bandes originales qui ont bercé son adolescence, per esempio il tema dei film di Fantômas e un pezzo di Ennio Morricone che non riconosco. In questa occasione non si sente nessun soffio nella tromba di Truffaz, e l’intesa con Giuliani e Chassin è perfetta. Il Rhodes di Anérilles mi piace meno: quel timbro sospeso richiama l’atmosfera degli anni Sessanta/Settanta, ma si combina male con l’asciuttezza della sezione ritmica.
Sguardo occidentale ·
Consulto con qualche riserva quel Selezione dal Reader’s Digest dei tempi moderni che è Il Post di Luca “daddy issues” Sofri. In particolare, quando leggo un articolo non firmato sulla Repubblica Ceca o sulla Slovacchia, di cui io ho una conoscenza piú approfondita che la redazione, mi trovo spesso a esclamare «ma cosa cazzo scrivete». Talvolta nei commenti un lettore praghese tenta di dare un contesto locale alla notizia, confutando l’applicazione delle medesime categorie politiche che i giornalisti del Post applicano all’Italia: due etichette, “buoni” e “populisti”.
Lo scorso fine settimana questo frame è stato usato per informare sulle elezioni legislative in Slovacchia, come se fossero state un referendum Europa vs Russia. La realtà è un po’ piú complessa: Cechi e Slovacchi hanno sostenuto l’Ucraína piú di altri popoli, accogliendo mezzo milione di rifugiati e donandoarsenali, ma da qualche tempo la questione da politica è diventata economica. La retorica delle opposizioni in entrambi i Paesi combina l’inflazione con l’invasione, e gli elettori del deprecabile Robert Fico si interessano della guerra nella misura in cui ritengono influenzi il costo della vita e il pieno di benzina.
Volendo usare una certa retorica woke verso cui Il Post è sensibile, direi che i redattori di questa e di altre testate hanno trattato l’argomento con uno “sguardo occidentale” (en: Western gaze), sminuendo gli interessi propri dell’oggetto dei loro articoli, ed esaltando il punto di vista esclusivo dei loro lettori. «Cosa ne viene a noi se laggiú vince questo o quel partito?» È una linea editoriale rispettabile, ma incompatibile con il voler “spiegare bene” perché il cosiddetto populismo sta vincendo ovunque.
Purtroppo Il Post è fra le poche affidabili fonti d’informazione che mi restano da expat migrante economico su cosa succede in madrepatria; s’intende, al netto dell’effetto amnesia di Gell-Mann. Per sapere cosa succede in Europa (Occidentale, Centrale, Orientale) consulto altre fonti, i cui link ho aggiunto ai miei preferiti: ci sono siti di notizie (con focus su Bruxelles) e ci sono riviste online (con vista a Est).
Per sua natura, il web permette di farsi una propria personale Selezione. Qualche esempio di articoli interessanti da magazine orientalisti…
New Eastern Europe › Kundera’s warnings are still relevant today, by Adam Reichardt. Interestingly, [Milan Kundera] did not become a member of [Czechoslovakia’s] dissident group. Of course, he knew them well, it was a small community. His position to face the [Soviet] occupiers differed from a small group of dissidents, including [Václav] Havel. In The Power of the Powerless, Havel described living in truth – a philosophical approach on how to resist the official lie with insisting to tell and live in truth, whatever the costs. Kundera found it rather pathetic and elitist and believed an outcast must face the cynical communist regime through irony and humour. Some dissidents found his approach rather superfluous and ineffective. So, Kundera became rather isolated within a very intellectual circle. In effetti, ironia e umorismo sono piú caratteristici dei ceco\slovacchi che la dissidenza elitaria.
Soggetto: un nerd mandrogno, nato e vissuto in A182, laureato con tesi sulla fluidodinamica, riciclatosi come sviluppatore di siti Internet, con un portfolio scarno e antiquato ma clienti (Confindustria, Provincia) che suggeriscono una rete di contatti locali altolocati [evitare riferimenti all’attualità politica], verboso e fissato con il responsive design, blogger interrotto, scientista elitario e novellista amatoriale.
Contesto: un quartiere di appartamenti piccolo-borghesi ereditati, un matrimonio tardivo, una moglie irreprensibile [speculare a piacimento, è il personaggio che piú caratterizza la storia], una suocera in casa di riposo, un figlio adolescente indirizzato verso la stessa vita del padre.
Narratore: i vicini di casa e i bottegai del rione, un coro piemontese di pettegolezzo e di reticenza rivelatoria. “Gente tranquilla”, dicono.
Nota di colore: è il 25° anniversario della beatificazione della fondatrice dell’Ordine che gestisce la casa di riposo [considerare per l’intreccio].
Bod obnovy ·
Uviděl jsem trailer filmu před Oppenheimer. Vypadal, jako koláž z ostatních děl: Minority Report, Strange Days, dokonce italského Nirvana. Když jsem přečetl, že předpremiéra byla v brněnském Kině Art, s anglickými titulky, rychle jsem koupil vstupenku.
Bod obnovy (en: Restore Point) je thriller, s chutí sci-fi. Neočekával jsem, že selhává jako thriller, ale funguje jako sci-fi.
Zápletka je prostá, ale vysvětlována takovým způsobem, že ztrácí význam, a čekáte na závěrečný zvrat, který nepřijde.
Světotvorba a atmosféra jsou lepší. Prostředí je střední Evropa v roce 2041: ne tak úplně, ale skoro stejné. Technologie přesunula směrem k naprosté digitalizaci života – a smrti. Nový státní vynález dovolí lidem, kteří zemřou násilnou smrtí, se obnovit, pokud mají čerstvou zálohu. Problémy začínají, když někdo chce tento vynález privatizovat.
Jako všechno dobré sci-fi dílo, Bod obnovy nutí nás přemýšlet o současnosti. Proč je společnost vyděšená k smrti? Která je funkce kapitalismu a technologie v našich životech? A na čí straně stojí Evropa? (To není shoda okolností, že zlý policista, který chce skrýt pravdu, je z Europolu.)
La partenza di Betsy per le montagne sull’Oceano Pacifico mi ha fatto pensare a un paio di cose.
La prima è che ho un numero sproporzionato di amici in coppie di nazionalità mista, non soltanto qui a Brno. Anonimizzando: un’italiana con un canadese, un’italiana e un ceco, una slovacca e un ceco, un italiano e una ceca, un serbo e una slovena, un’italiana con un russo. Anche fra le coppie italiane in Italia trovo influssi internazionali: dall’Argentina, dalla Svizzera, dal Giappone. E non conto le coppie miste fra i colleghi.
A corollario: ho un numero sproporzionato di amici con un dottorato di ricerca.
La seconda è che molto piú spesso è lei a sacrificare affetti e carriera per andare a vivere con lui, lontano; e la scelta è indipendente dal grado di femminismo della soggetta. Che sia lui a sacrificarsi viene piú spesso preso in considerazione soltanto quando il luogo in cui vive e/o lavora non garantisce adeguate prospettive, non tanto per lei singola quanto per l’intero nucleo familiare.
È un fatto che capisco e che mi spiego con molta difficoltà. Una coppia egualitaria può declinare la questione della parità fra i sessi chiedendo a una sola metà un impegno cosí elevato? L’amore – termine comprensivo di ogni aspetto di una relazione – vale l’annullamento di una parte di se stessi? Se sí, fino a che punto?
S*****, forse oggi riesco a dare una motivazione vagamente razionale al mio rifiuto di avviare una relazione a distanza, e di averti qui con me al termine del tuo dottorato: io per te il sacrificio di lasciare tutto e trasferirmi altrove non l’avrei fatto.
L’urgenza della memoria ·
Oggi, come quando l’ho visitato nel febbraio di dieci anni fa, il Museo Histórico Nacional di Santiago del Cile ospita una mostra permanente che raccoglie materiale in ordine cronologico dalla preistoria andina all’era moderna. L’ultimissimo oggetto in esposizione è la metà sinistra di un paio di occhiali neri dalla solida montatura, comunemente riconosciuti essere gli occhiali di Salvador Allende: un po’ come affermare che la storia cilena si è fermata al colpo di Stato militare dell’11 settembre 1973. Gli anni della dittatura di Augusto Pinochet sono documentati dal Museo de la Memoria y los Derechos Humanos, che ricordo ricco di testimonianze.
Nei mesi seguenti al golpe, il personale dell’Ambasciata d’Italia (Piero De Masi, Roberto Toscano e altri) mise in salvo centinaia di dissidenti con le loro famiglie. Lo racconta Nanni Moretti in un suo film del 2018: un montaggio di interviste a quei diplomatici e a quei rifugiati politici, non imparziale, umano, con tratti umoristici. Fra i tanti che ottennero un salvacondotto, l’anarchico ambientalista Urbano Taquias è finito in valle Bormida, dove ha continuato a lottare per i suoi ideali libertari: dai campesinos mapuche agli agricoltori e operai monferrini, il suo è un anticapitalismo davvero internazionale.
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The Guardian › Proust, ChatGPT and the case of the forgotten quote, by Elif Batuman.
At work I have a similar use case for LLMs over a corpus of 2,000 pages of instructions, and I am terrified by the possible results of matching uneducated prompts with a hallucinating chatbot.
Linkiesta › Alla vita non serve un intero arco narrativo, di Simon Critchley.
Ancora sulla narrazione di sé, o del sé (l’articolo originale è dietro paywall sul New York Times). Sospetto che quelli fra noi che raccontano e riraccontano senza fine le storie delle loro vite – tenendo diari, appuntandosi continuamente le proprie cose […] e immaginandosi dei futuri memoir – siano semplicemente impegnati in un atto di narcisismo egocentrico. E la cosa peggiore è che questo narcisismo è spesso travestito da lezione morale.
Thomas Kole › A portrait of Tenochtitlan. [A] 3D reconstruction of the capital of the Aztec Empire (via Richard Hemmer). Images like those of an alien civilisation in the establishing shots of an episode of Star Trek, except I have been theretwice and I can recognise a few places in the real drone photographs.
The power of conformity ·
I am re-reading The Power of the Powerless (cs: Moc bezmocných), the political essay written in 1978 by Václav Havel. It is not an easy read.
The essay’s most known and cited image is that of the Czechoslovak greengrocer who displays a sign in his shop with the communist motto «Workers of the world, unite!» („Proletáři všech zemí, spojte se!“); more to align with the country’s situation, and to cave in to pressure from the Party’s supervisors and comrades, than with a heartfelt political conviction.
Havel uses this simple image to illustrate what he means by “living within a lie” (an idea he borrows from Alexandr Solženicyn), compared to “living within the truth”. Then he goes on to show how “living within the truth” can pose a serious threat to “post-totalitarian” societies.
I have some knowledge of the history of Czechoslovakia after 1968, and I understand what the climate might have been in those years, though I have never managed to debate the topic with locals. Yet I would like to discuss a few points with Havel in a hospoda before a pint of pilsner, or two, if he managed to come back from the dead.
The first point is: what if the greengrocer displayed the sign with a heartfelt conviction? In his essay this option is not considered. I know well that today the slogan «Workers of the world, unite!» carries a heavy baggage and calls to mind countless atrocities, but in its original meaning it resounded strongly to people for generations. Did true believers in socialism – even “real socialism” – live within a lie or within the truth?
Then here is my second point: what about the American who waves the Stars and Stripes in her yard as a sign of patriotism, or the European who puts a sunflower next to his nickname on social media to support Ukraine, or the Western employees who write their preferred pronouns in their work e-mail signatures? None of them live in a post-totalitarian system, allegedly, but all are doing what everyone else is doing and what they must do as well, if they don’t want to be excluded, to fall into isolation, alienate themselves from society. Fortunately they won’t risk the loss of their peace and tranquility and security, yet breaking the rules of the communities to which they belong may cause them minor troubles, like an in-person spat or an online altercation about where their allegiance stands.
What would the greengrocer do in post-socialist Czech Republic? Wouldn’t he feel compelled to declare his loyalty publicly, due to pressure not from the Party but from his peers?
And my last point is: in a post-post-totalitarian society, how do we define “living within the truth”?
Again, I find it strange that this essay hasn’t been quoted extensively by contemporary contrarians: Covid and climate denialists, anti-vaxxers, cryptobros, tankies, and all kinds of “independent thinkers” who claim that they live in totalitarian states. In Havel’s own words, the concept’s outer limits are vague and difficult to map, and many such contrarians would happily describe their opinions and actions as elementary revolts against manipulation. For example, what would Václav Havel have said about some citizens’ struggle against mandatory vaccinations and health passports? Were they “living within the truth”, compared to the law-abiding ones “living within a lie”? They certainly believed so.
Some of the ideas that Václav Havel discussed in his essay to describe the effects of ideology in socialist Czechoslovakia are also applicable to modern capitalist societies. Perhaps they are not so much typical to different societies, as to humans of all ages, and to their desire to conform or to reject conformity.
Lapianta ·
Ieri ho adottato una pianta in vaso che era stata abbandonata di fronte ai bidoni della spazzatura a lato dei paneláky.
Non so di quale specie sia: non è un limone, non è un lauro. Mi suggeriscono che possa trattarsi di un ficus, dovrei chiamarla Robertus?
L’ho battezzata Lapianta.
L’ho sistemata in un angolo della cucina e le ho dato due bicchieroni d’acqua, prima di capire che farne. Le foglie sono impolverate ma appare in salute. Il vaso di coccio che la contiene, dentro un piú ampio vaso di metallo, mi sembra marcio, dovrei rinvasarla in modo appropriato con della terra al posto di quella stupida pacciamatura.
Non ho il pollice verde, ma non è la prima volta che tengo una pianta. Vado a memoria: ero in quarta elementare e avevo infilato un nòcciolo di albicocca dentro un vasetto di terriccio che avevo piazzato sul davanzale della finestra. Il nòcciolo era germogliato, n’era nata una piantina. È lo stesso albicocco che poi era stato trapiantato nell’orto della ferrovia, e infine brutalmente segato? Spero che Lapianta abbia miglior sorte.
Ebbene, è una citazione sbagliata, e non so spiegarmi come sia rimasta online per tre anni. Quella corretta sarebbe:
Frase che è un tormentone familiare dal mese che trascorsi a contatto del suddetto circolo di imprenditori biellesi.
C’è un problema: anche la citazione corretta è inesatta.
Quand’ero in ferie in Italia sono andato a controllare direttamente alla fonte primaria, conservata con cura in garage nella scatola di un plaid a stampa leopardata: un documento di tre pagine, a firma Studi Crotti Magni S.r.l., il cui sito invito i miei 2,5 lettori a visitare, ricordando loro che l’imprenditoria italiana affida le proprie scelte anche ai grafologi.
(I medesimi grafologi tengono rubriche sui quotidiani nazionali, poi uno dice la crisi della stampa.)
«Dotato di senso estetico» non si trova scritto nel documento. Vi si trova invece:
L’analisi grafologica non commenta le capacità mnemoniche del soggetto esaminato.
Quel “dotato di” è rimasto per tradizione orale, lo accetto. Ma da quale cassetto della memoria ho tirato fuori “artistico” in luogo di “estetico”? Quale neurone ha registrato il vocabolo errato? Nei procedimenti legali le testimonianze verbali sono tanto attendibili quanto sono supportate da evidenze empiriche. E allora per quale motivo nelle nostre vite “andiamo a memoria”, e prendiamo decisioni personali o lavorative in base a informazioni immagazzinate in cellule inaffidabili? La realtà è una e assoluta, ma le rappresentazioni della realtà possono essere centomila, e variano secondo le condizioni fisiche e psicologiche dell’osservatore; variano ancora nel tempo quando l’osservatore, in condizioni mutate, diventa rievocatore di tale realtà.
Tenere appunti scritti e curare un archivio sono possibili, limitati, rimedi alla variabilità della memoria.
Well, what’s the alternative? ·
The Strangest Dream di Eric Bednarski (scovato via Mastodon) è un documentario del 2008 sulla vita e l’opera di Józef Rotblat, l’unico fisico che lasciò il Progetto Manhattan quando a fine 1944 fu evidente che la Germania nazista aveva abbandonato il proprio programma atomico.
Rotblat, ebreo polacco, tornò in Inghilterra dove si era rifugiato all’inizio della guerra. Qui si dedicò allo studio dell’applicazione del nucleare alla medicina, mise in guardia il mondo circa le conseguenze sulla popolazione civile dei test atomici in atmosfera, fondò con Bertrand Russellla Conferenza di Pugwash, promosse la fine della proliferazione delle armi di distruzione di massa, fu insignito del premio Nobel per la Pace, e propose un giuramento d’Ippocrate per gli scienziati:
All’esplosione, una bomba atomica raggiunge una temperatura comparabile a quella del nucleo del Sole.
Altrettanto la saletta strapiena del centenario Kino Lucerna di Žabovřesky in una calda serata di agosto.
Sono andato a vedere Oppenheimer piú per interesse accademico che per cinefilia: partivo dall’idea che esplorare la costruzione dell’atomica fu cosa non buona ma giusta, con tanti cari saluti a Friedrich Dürrenmatt.
Il polpettone di Christopher Nolan ha due ingredienti distinti: la storia tragica di Robert Oppenheimer (Cillian Murphy), moderno Prometeo, direttore del Progetto Manhattan, e la vicenda politica di Lewis Strauss (Robert Downey Jr.), fra i fondatori della Commissione statunitense per l’Energia Atomica. La seconda è già stata messa in scena mille altre volte con mille altri protagonisti in mille altri film: la brama di potere, gli intrighi a Washington. La prima indaga le motivazioni, gli scrupoli, le contraddizioni di Oppenheimer nello studio della fissione nucleare e nella sua applicazione a scopi militari.
Nella prima mezz’ora, necessariamente fitta di spiegoni e di caricature per il pubblico generalista, Oppenheimer è presentato secondo i canoni del genio che vede cose che noi umani non: figure astratte che dovrebbero rappresentare le magie e i misteri della meccanica quantistica, intensi barbagli che evocano prima la promessa di energia infinita e poi il terrore della bomba atomica. Il film prende ritmo nella costruzione dei laboratori di Los Alamos e trova il culmine nell’esplosione di Trinity. La scena dei festeggiamenti per il successo di Little Boy a Hiroshima, quella in cui Oppenheimer si finge “falco” mentre immagina gli effetti della bomba sugli astanti in delirio, avrebbe potuto chiudere la pellicola in anticipo di un’ora.
Nolan non mi pare prendere una posizione definitiva sulle responsabilità di Oppenheimer, e della comunità scientifica, circa le conseguenze dello sviluppo dell’atomica. La consapevolezza dei potenziali rischi è piena e condivisa, studiata teoricamente e verificata sperimentalmente. Ogni passo avanti nella tecnica è bilanciato da una richiesta alle gerarchie militari e politiche di terminare la guerra mondiale con altri mezzi. La risposta delle gerarchie è che se non lo facciamo oggi noi buoni, lo faranno domani i tedeschi e i russi cattivi; che l’invasione del Giappone causerebbe molti piú morti dei due ordigni da sganciare; che dubitare è da comunisti anti-patriottici.
Oppenheimer è al tempo stesso giocatore e pedina, carnefice e martire, creatore e distruttore. È inteso che la bomba atomica sia l’avanguardia della scienza, obiettivo intellettuale prima che tecnologico, irresistibile sirena per i fisici contemporanei, molti dei quali sono ebrei tedeschi e ungheresi sfuggiti ai nazisti. Al termine del conflitto, il tentativo d’influenzare Harry Truman e l’opinione pubblica contro l’uso della bomba è un modo dichiarato per lavarsi le mani sporche di sangue.
Oppenheimer e Nolan non si chiedono se il protagonista abbia fatto le scelte giuste, si limitano a mostrarle sullo schermo, nella convinzione che if he could do it again, he would do it all the same. Sarebbe inutile: se ne dibattiamo da ottant’anni, una risposta non c’è.
Tre cose che mi avrebbero fatto apprezzare il film meglio se non ci fossero state: il sussurrato all’italiana, anche fra personaggi che si parlano all’aperto a dieci metri di distanza; Rami Malek nei comodi panni di Elliot Alderson; Kenneth Branagh che gigioneggia come se interpretasse Hercule Poirot, e che cambia tre accenti in tre diverse apparizioni di Niels fucking Bohr.
Ora un qualche regista tedesco (Tom Tykwer?) scriva e diriga un’analoga pellicola su Werner Heisenberg, danke.
Café Lob-On › Why did the #TwitterMigration fail?, by Bloonface.
Because of the poor content and the poor quantity/quality of interactions on the Fediverse.
Café Lob-On › The fediverse is a privacy nightmare, by Bloonface.
And nobody ever points out that duplicating the same material on each federated instance is a terrible waste of resources.
Erin Kissane › Mastodon is easy and fun except when it isn’t. The second [school of thought], which I’ll call Own Your Experience, states that people, not software, are responsible for networked harms, and places the burden of responsible use on the individual and the cultural mechanisms through which prosocial behavior is encouraged and antisocial behavior is throttled.I subscribe to this school of thought.
Il Post › Sono un expat o un migrante?, di Vincenzo Latronico.
Io sono stato un cervello in fuga, e ora sono un expat migrante economico.
Il Post › Come Vienna sta evitando la crisi abitativa, di Viola Stefanello. Il sistema che rende possibili affitti così abbordabili si basa su una fitta serie di politiche locali e nazionali che si sono stratificate nel corso di decenni, dovute anche al fatto che il governo locale, controllato quasi ininterrottamente dal partito socialdemocratico da un secolo, da sempre mette il diritto alla casa al centro delle proprie priorità.
L’uscita del film Barbie mi ha ricordato un supplente di religione che ebbi al liceo. Nel 1998 o 1999 sostituí per alcuni mesi il docente titolare, un uomo buono con l’aura del prete di campagna (nonché mio compaesano). Questo supplente era sí un diacono consacrato, ma era giovane e diceva cose da finto-giovane tipo «quando siete nella vitamina M…», ed era belloccio e piaceva alle fanciulle.
Una mattina tale supplente si presentò in aula con diverse fotocopie del testo tradotto di Barbie Girl degli Aqua: una canzonetta da discoteca che tutti noi adolescenti consideravamo appunto una stupida canzonetta da discoteca, ma che lui riteneva un pericoloso inno alla perversione. Trascorremmo un’ora di lezione a commentarne le liriche. Non ricordo se provasse particolare repulsione teologica per il distico imagination / life is your creation, la creazione essendo un’esclusiva del Creatore; piú probabilmente era una questione di controllo sociale alla talebana.
È tutto, l’aneddoto è concluso. A distanza di un quarto di secolo, Barbie Girl è stata giustamente rivalutata come un capolavoro della musica pop, del genere che pure mia madre ricorda e sa canticchiare. Il supplente di religione invece è crepato di malattia nel 2000; al suo funerale, l’organista del duomo (nonché mio sosia) provò lo strumento suonando il riff di Jump dei Van Halen.
Sul treno regionale non-veloce per Pavia, che ci avvicina un po’ all’irraggiungibile metropoli lombarda, siedono quattro ragazzini di Predosa. Dai lineamenti e dagli accenti appaiono uno di origine italica o comunque europea, uno di origine magrebina, due di origine sudamericana: come direbbero i sociologi, sono uno spaccato della provincia alessandrina. Come tutti gli adolescenti sin dai tempi di Abramo, discorrono ad alta voce inframmezzando le frasi con espressioni scurrili. A differenza dei loro omologhi in prima classe sul Frecciarossa, non parlano di figa “ragazze nei night”, bensí di scuola professionale dai salesiani, di contratti di apprendistato in cantiere di durata cinque anni, di non-sicurezza sul lavoro, e di TFR: chi l’ha preso e ci si è comprato un computer da gaming, chi l’ha preso ma il padre se l’è intascato per pagare le bollette, chi non l’ha preso affatto. Vanno a Milano per passare il sabato, si chiedono come arrivare a San Siro, e si contano i soldi in tasca. Sono sicuro che nessuno di loro acquisterà mai Repubblica o un altro quotidiano; ma perché dovrebbero.
All my people ·
«andiamo?» aveva scritto Elisa a Davide e a me, una mattina di novembre; poi era riuscita a prendere tre biglietti, andati esauriti in un’ora.
È la prima volta che: prendo un aereo da Brno; volo Ryanair; metto piede in Inghilterra, io che in Gran Bretagna per breve tempo ho vissuto.
Sul treno da Stansted a Liverpool Street una masnada di galline dalla finta abbronzatura festeggia un addio al nubilato: the only way is Essex.
Indosso la mia maglietta, sbiadita e bucata, del tour di Think Tank dell’autunno 2003: Blurred Italy, Modena/Milano/Nassiriya.
Sull’Olympic Way mi fermo a guardare le persone che sciamano verso lo stadio: vanno dai sei ai sessant’anni, sono all my people.
Al banchetto del merchandise compro una maglietta “small” extra-larga che reindosserò al tour del 2043, e una maschera di Smoggy.
Varco i tornelli al termine di una lunga lotta telematica col sito di Ticketmaster, che non vuole saperne di farmi accedere in roaming.
Jockstrap: Georgia Ellery, prendimi a bastonate con l’archetto del violino. Sleaford Mods: uno canta e uno balla, come fossero degli 883 techno-punk; bravissimi e mi fanno schifo; un tentativo d’ingraziarsi il pubblico citando Parklife non viene nemmeno vagamente considerato. Self Esteem: la copia di mille riassunti del pop female-empowering.
I Blurentrano in scena sulle note registrate di The Debt Collector. Le prime parole pronunciate da Damon Albarn sono I fucked up: davanti a settantatremila fedeli adoranti suona deliziosamente ironico. St. Charles Square segue There’s No Other Way e Popscene di tre decenni ma il tiro è rimasto, e siamo già tutti in piedi contro le regole. Osservo Tracy Jacks far saltare il golden circle. Ascolto Beetlebum un po’ tirata via, prima di Trimm Trabb durante cui molti si riversano al bagno o al bar. Non ho il tempo di provare disappunto per come sono state eseguite e accolte due delle mie tre canzoni preferite, che in coda ne inizia un’altra che non metto a fuoco fino al refrain: è Villa Rosie? Fanno Villa Rosie a Wembley?! Allargo le braccia, e per tutto il resto del concerto guarderò il palco e il pubblico con un sorriso scemo.
Stereotypes è la madre di famiglia fr…isky seduta qualche seggiola piú in là. Out of Time è il buio periodo senza Graham Coxon, e Coffee & TV è Graham Coxon, di cui ho appena letto l’autobiografia; ed è la prima volta che lo vedo con il resto del gruppo, forse l’unica, sono qui apposta. Su Under the Westway ed End of a Century facciamo oscillare i cellulari come accendini. Incredibile come l’inciso di Country House dica qualcosa a/di/su tutti noi che affoghiamo nella musichetta mentre dentro c’è la morte: blow me out, I am so sad, I don’t know why.
Phil Daniels viene scongelato da un capanno per Parklife, in un sing-along che continua con To the End. Oily Water e Advert sono art-pop che non ha piú cittadinanza nella musica radiofonica. Song 2 tira giú lo stadio come se Saka avesse segnato quel rigore contro Donnarumma. E infine This Is a Low con l’assolo di Graham Coxon che provo a compenetrare, in estasi, al limite del volare giú dalle gradinate.
L’encore comincia subito, perché c’è un coprifuoco da rispettare. Su Lot 105 Damon Albarn cerca di farci battere le mani in sincrono come a una partita e di farci intonare «Wem/bley, Wem/bley»: è un luogo sacro, vuoi per il calcio, vuoi per Live Aid e Freddie Mercury. Al ritornello di Girls & Boys, in tuta di acetato, niente mi distoglie dal pensiero che stiamo cantando un pezzo sarcasticamente omofobo che ha fatto il giro ed è diventato un inno alla fluidità sessuale. For Tomorrow – la mia canzone preferita – è eseguita nella versione normale, e mi dispiace che sul palco non ci sia un’intera banda di ottoni per la Visit to Primrose Hill Extended; scandisco a squarciagola MODERN LIFE IS RUBBISH. Sul palco invece sale il London Community Gospel Choir per Tender: il loro contributo non si sente granché, è mixato basso e abbiamo capito che l’acustica del tempio non premia chi siede a lato; poi il pubblico prosegue, senza bisogno di solleciti, secondo la liturgia solenne, è davvero una messa cantata. Se The Narcissist è un pezzo solista malcelato, avrei ben accolto la sorpresa di vedere anche Alex James o Dave Rowntree impugnare il microfono e prendersi un’ovazione.
Il concerto si chiude con gli archi di The Universal e con una pioggia di luce che cade sulla folla, sulla mia gente, a cui voglio bene uno a uno, ma a Elisa e Davide un po’ di piú. It really, really could happen. Ite, missa est.
In settantatremila sciamiamo fuori dallo stadio lungo l’Olympic Way; come per il tizio degli Sleaford Mods, anche il mio tentativo di lanciare un coro da Parklife non viene nemmeno vagamente considerato.
Il giovanotto che ci fa da tassista ascolta Gaydio, una radio a tema LGBTQ+ con selezione della piú blanda musica da discoteca mai prodotta. Ci chiede cosa c’era a Wembley: Davide risponde che c’era il concerto dei Blur, «a Britpop band»; il giovanotto non li ha mai sentiti nominare.
Fuori dall’appartamento in Battersea uno scoiattolo contende una ghianda con una cornacchia. Dal ponte sul Tamigi il bus doubledecker 170 mi porta via Chelsea a Westminster, poi dalla stazione Victoria a Chalk Farm sono poche fermate di Tube. Cammino per Regent’s Park Road come un pellegrino risale un Sacro Monte, mentre i bar equosolidali e nutrizionisti riaprono per sfamare i locali con il brunch domenicale.
Primrose Hill è brulla e nuvolosa, e la famosa scritta è stata cancellata anni fa. Runners di ogni genere si fermano in vetta a scattare una fotografia del panorama del distretto finanziario, toddlers rotolano giú dalla collina come Damon Albarn nel video di For Tomorrow, good doggos scorrazzano liberi di elemosinare uno spuntino.
Seduto su una panchina a far colazione, accanto a un uomo che parla al telefono in un creolo che non capisco, quando il sole compare in cielo, penso a cos’è successo che mi ha tenuto lontano da questa città per cosí tanto tempo. Tutto, e niente di particolare. Londra è il posto giusto per Elisa (entrambe), per Frannie, per Ida, per Laura, non per me, per me non resterà altro che una fonte inesauribile d’influenze culturali.
Non dubito che nel multiverso personale ci sia un me stesso che vive in Greenwich, lavora come quant nella City, è sposato con una creativa neurodivergente, ha tre bambinə di sangue misto e un vecchio border collie con le rotelle, ma non è il Massimiliano che abita questo universo: la meravigliosa toponomastica londinese non mi appartiene.
A spoonful of JavaScript ·
Labettabionda (!= Betsy) visited Virtualia? some time after we met, then she tried to write me an e-mail: she clicked on the “@” in the navbar, her Gmail composition form opened, but the address wasn’t shown, as if the link was empty (it is not). I have replicated the finding in Gmail and in Protonmail, which must have started sanitising the input in their To: field.
My e-mail address is quite simple: my name –at– my surname –dot– my continent. I have always wanted to keep my mailbox clean of spam; at the same time, I want my e-mail address to be public, and to look and behave like one. This is an age-old problem without an easy solution. Until today I outsmarted spambots by obfuscating it with a mix of HTML escapes and hexs, and with multi-language suggestions in brackets.
Where mailto: = mailto: %6d%61%73%73%69%6d%69%6c%69%61%6e%6f = massimiliano %66%61%72%69%6e%65%74%74%69 = farinetti %65%75 = eu
so that the To: field in the composition form reads massimiliano [chiocciola/@/zavináč] farinetti [punto/./tečka] eu.
I assumed my 2.5 readers would figure out how to fix the address themselves. Indeed in the past three years I have received a few e-mails from strangers, but never ever a single spam message. I was very satisfied with my hacky solution.
Thanks to Labettabionda I know that my hacky solution doesn’t work anymore. I have to find a smarter one, which shows the correct address to humans, but hides it to spambots. I have to add a spoonful of JavaScript to my code, which introduces an extra problem: I have to provide a fallback when the browser doesn’t run JavaScript.
Now the link in the navbar gets an identifier and three data attributes, while the obfuscated content of the href attribute is preserved.
Here I am making another assumption: if the browser doesn’t run JavaScript, then the reader won’t use a web interface to compose e-mails, but rather a desktop application. Thunderbird accepts the mailto: input, although with a warning message.
A script takes the three attributes of my e-mail address and combines them together, whenever a reader clicks, focuses or hovers on the “@”. This covers possible human actions with keyboard, mouse or pointing device, leaving spambots blind (unless they mimic human behaviour).
The script is agnostic to the e-mail address, so it could be used as a web component. Let’s pray it is also convoluted enough to fool spambots.
A few weeks ago I implemented another script, which displays a random quotation on the homepage.
<blockquote>
<p id="randomQuote">Piove sui works in regress.</p>
</blockquote>
if (typeof(randomQuote) !== "undefined") {
const quotesList = [
"Die Geschichte von Anfang bis Ende erfunden ist und doch zutrifft.", // Heinrich Böll
"I am the terror that flaps in the night.", // Darkwing Duck
"We still believe in love, so fuck you.", // Elbow
"Livet forstås baglæns, men må leves forlæns.", // Søren Kierkegaard
];
let randomNumber = Math.floor(Math.random() * quotesList.length);
document.getElementById("randomQuote").textContent = quotesList[randomNumber];
console.log("Quotation: ", randomQuote.outerText);
}
The fallback for no JS is a fitting line from a poem by Eugenio Montale.
I will add more and more quotations to the list as they come and strike me.
Konečná ulica ·
Land’s End toJohn o’ Groats. Quellón in fondo alla Panamericana. Sulina, tam, kde spí / Dunajská delta.
Mi chiedevo il perché della fascinazione umana – e personale, se c’è un biglietto per il ritorno – per le località alla fine del mondo, massime estensioni della frontiera, toponomastica universale. Non miti irraggiungibili come Atlantide, Shangri-La, Thule, ma posti reali e vissuti come Capo Nord o Ushuaia, là dove la strada s’interrompe. Finis Terrae, Finisterre / to tear it down and start again.
Storicamente le Colonne d’Ercole erano una metafora dei limiti della conoscenza, ma nell’ultimo secolo e mezzo la tecnologia ci ha permesso di superare buona parte di essi; la stessa superficie terrestre non ha piú misteri. L’attrazione per i luoghi ai confini naturali deve perciò avere un motivo inconscio, non razionale, inesplicabile. Una senzazione di questa ragione recondita l’ho avuta al termine dell’escursione nel Delta, quando la guida lipovena ha mollato l’acceleratore e ha lasciato il motoscafo avanzare d’inerzia, oltre la linea illusoria che unisce le estremità dei frangiflutti ai lati del canale: il traguardo era tagliato, la meta era raggiunta, il viaggio era concluso.
Danubio di Claudio Magris si conclude cosí:
Una cosa cringe che non farò mai piú ·
Alla reception dell’affittacamere a Kladovo chiedo alla giovane donna baffuta, anch’essa di Smederevo, il numero di telefono di un taxi perché domani io possa raggiungere Tekija, ventidue chilometri piú a nord, dove partirà la gita in barca che ho prenotato. Lei ci pensa su un attimo, e mi dice che altri due clienti faranno la stessa gita, potrei prendere un taxi con loro; non parlano inglese, ma può telefonare e chiedere per me. Gli altri due clienti sono d’accordo, mi farò trovare alla reception alle otto e trenta.
L’indomani all’ora stabilita lascio la chiave nello stanzino vuoto, guardo in strada, di taxi non se ne vedono. Un po’ di trambusto in corridoio, si palesano due anziane signore, vedono il mio zaino e il mio trolley, capiscono che sto aspettando loro. Uh, sto aspettando loro? Mi presento in ceco, si presentano in serbo: Kata ha l’aspetto minuto e pasciuto di mia madre; Mira è un donnone energico, del tipo che mi sta antipatico.
«Ahhh, sei italiano?», chiede Mira; e lo chiede in italiano, ovviamente.
Kata i Mira vengono da Kragujevac. Sulla strada per Tekija, Mira mi spiega con qualche incertezza che ha lavorato come operatrice stagionale per la Ferrero a Francoforte, e ha conosciuto molti uomini italiani (ammicca). Ogni tanto traduce per Kata, che guida con un occhio all’asfalto e uno al navigatore, prendendo le curve quadrate.
L’imbarcadero è in un’insenatura protetta da uno spuntone di terra, poco lontano da una baia attraversata dal ponte della statale: nonostante le persistenti piogge della settimana precedente, il Danubio è due o tre metri piú basso del segno lasciato sui piloni del ponte. Seguo le donne a colazione in un ristorante panoramico dove non hanno niente da mangiare, soltanto srpska kafa e Nespresso. Quando torniamo, il battello ha già imbarcato alcune famiglie di turisti della domenica, e un intero pullman di vacanzieri sloveni con un piede nella fossa.
E un trio di musicisti con fisarmonica: sono a bordo di una crociera fluviale con intrattenimento!
Il battello risale lento il fiume che offre minima resistenza: siamo a valle delle forre piú strette, il tempo è benevolo, soltanto una certa brezza impone di tenere chiusi i teloni di prua. Le poche barche che incrociamo sono motoscafi da diporto. Le rive sono tranquille e la vegetazione su entrambe le sponde è rigogliosamente verde.
Il trio di musicisti attacca a suonare canzoni popolari jugoslave, che non conosco. Il cantante crooner capellone guida i vacanzieri ottuagenari in cori con battimani, come a una sagra contadina o a una festa socialista, e mi rendo conto solo adesso che l’eredità del comunismo non va cercata nell’architettura e nei simboli, ma nell’anima di un popolo. Come a una sagra contadina o a una festa socialista, queste sono canzoni che vanno ballate: Mira prende per prima l’iniziativa, e mi trascina per un braccio in mezzo ai tavoli.
È una mattina di primavera, sono al centro di una barca sul Danubio, e sto danzando su musiche balcaniche.
Oltre a Kata si uniscono a noi varie tardone serbe e slovene, che magari si odiano da trent’anni, ma s’intendono subito nel linguaggio comune dei ritmi ossessivi dei riti tribali. Si balla in gruppo, è una danza chiamata kolo (“circolo”). Le figure appaiono codificate: ci si tiene per mano e ci si muove in tondo, incrociando le gambe a ogni battuta. La musica è incessante e diventa sempre piú veloce, come in una gara di resistenza.
Io sono molto piú sgraziato e molto meno resistente di questa masnada di vecchie donne slave.
Scendo dal cassero (?) al ponte di coperta (?) per osservare la Tabula Traiana sulla sponda serba e la statua di Decebalo sulla sponda romena. La statua di Decebalo, scolpita in quel di Dubova [1], appare dietro un promontorio di roccia con lo stesso effetto di quella di Taweret in Lost.
All’altezza del monastero di Mraconia il battello vira verso Tekija. Appena rimetto piede sul cassero, il cantante crooner capellone, imbeccato dall’organizzatore della gita, mi si avvicina e intona una canzone, questa sí a me nota:
I tre o quattro minuti trascorsi a sentire un serbo da balera farmi la serenata cantando Caruso, Caruso essendo la canzone piú imbarazzante della produzione discografica italiana, quei tre o quattro minuti sono fra i piú ridicoli e in assurdo fra i piú degni di memoria in quarant’anni, perché finiteci voi al centro di una barca sul Danubio, circondati da tardone slave, in una mattina di primavera, a sorridere finti nell’ascoltare un crooner capellone che si mangia le parole, mentre soffocate una risata isterica che vi sgorga purissima dall’amigdala.
Il battello attracca a Tekija, dove salutiamo i barcaioli e gli ottuagenari sloveni. Accetto l’invito di Kata i Mira a pranzare in un altro ristorante: il pesce è ottimo, la vista è impareggiabile, la bella cameriera parla un buon inglese; vi si fermano anche dei ciclisti romeni cui chiedo lumi su come passare la frontiera, e il trio di musicisti che mi salutano «arrivederci».
Le due donne insistono a portarmi al valico di Đerdap I. Le abbraccio con un po’ d’imbarazzo. Kata ha i lucciconi.
Su Silvio Berlusconi ci sono tante opinioni quanti sono gli Italiani che sono vissuti durante il Suo circa-Ventennio.
Ho sfogliato i miei archivi digitali: non ho mai scritto niente d’interessante su di Lui, ma per le Elezioni Europee del 2004 mi cimentai anch’io con un meme che prendeva in giro i Suoi manifesti elettorali. La prima creazione era ispirata alla retorica dell’epoca sui militari ammazzati durante questa o quella “missione di pace”; mercoledí il funerale di Stato lo fanno anche a Lui. La seconda creazione era ispirata alle scatole delle barrette di cioccolato Kinder, per via di quel Suo faccione glassato in Photoshop; Laura mi fece notare che «piú latte meno cacao» era uno slogan subliminalmente azzeccato.
Egli era il sintomo, non la malattia.
Acqua passata ·
Sulle vicende giudiziarie della Juventus Football Club SpA ci sono tante pagine da scrivere, oltre lo sport perché non è una questione di sport, e tutte inutili. Vale per me questo vecchio tweet dalla sintassi incerta di un tifoso valenzano:
Sul calcio italiano, dominato da figuri dalla fedina penale e dalle urine pulitisssssime, vale quella dichiarazione del 2006 di Antonio Giraudo:
Alla Federazione Italiana Giuoco Calcio, almeno fino ai Campionati Europei del 2032 che si sta comprando per via politica, auguro di cuore dieci cento mille gol di Aleksandar Trajkovski:
Na krásném modrém Dunaji ·
Sono in partenza per un boat/rail/road trip in solitaria di due settimane lungo il corso del Danubio (Donau/Dunaj/Duna/Дунав/Dunărea).
Non ho un piano di viaggio definito nei dettagli. Prendo il via dal porto sul Donaukanal a Vienna, una tappa intermedia è alle Porte di Ferro, la meta è il Delta sul Mar Nero. Nel mezzo vorrei visitare Bratislava, Budapest, Belgrado, ma sono aperto a eventuali ispirazioni del momento, perciò prenoterò trasporti e pernottamenti con pochi giorni di anticipo. Con i punti Fragola aziendali ho acquistato un biglietto per il ritorno dall’aeroporto di Bucarest, ma se qualcosa andrà storto non mi farò problemi a saltare sul primo bus o treno verso la Cechia.
Con i punti Fragola aziendali ho anche acquistato un tablet su cui scriverò i miei appunti, l’idea è di pubblicarli ogni sera o quasi in homepage.
Con mille scuse a George, Harris, Jerome, per tacer di Montmorency.
(Mestá na Dunaji)
Ieri in treno fra una comitiva di anziani inglesi che leggevano Spectator, e una coppia di coniugi ucraíni il cui lui è bene stia lontano dal fronte altrimenti i soldati russi lo sentono masticare e ruttare e non c’è NAFO che tenga.
Appena passata la frontiera a Břeclav è cominciato a piovere.
A Vienna la scelta fra prendere la metropolitana e arrivare a destinazione in sette minuti, o attraversare il centro a piedi. Pffft, se c’è una città che invita a camminare col naso all’insú… In Rilkeplatz individuo una gasthaus dall’aspetto dismesso, entro ed è stracolma di uomini che sbevazzano – non una sola donna nel locale. Notevoli riproduzioni di pubblicità artistico-turistiche appese alle pareti. Fingo di saper parlare tedesco: weissbier e gulasch mit nockerl e schnitzel mit kartoffelsalat, non so come facciano i vegetariani e i vegani a vivere in Mitteleuropa. Taglio dalla Staatsoper a Schwedenplatz, virando per Fleischmarkt con il negozio di toupets e Judengasse deserta con la pattuglia di Polizei e Sankt Ruprecht con la mano mozzata. Stavolta il Donaukanal non puzza di fogna. Al molo arrivano i medesimi sbevazzatori dell’ora di pranzo; giungono altri gruppi di soli uomini, in ciascuno ce n’è uno vestito buffo. Inorridisco: sono addii al celibato! Il catamarano di Twin City Liner, battente bandiera slovacca, scende placido lungo il canale e accelera a pieni motori quando questo confluisce nel grande fiume dalle acque blu marroni. Il tempo grigio non permette di osservare la natura costiera; non che agli altri passeggeri, lattina in mano, importi molto. Sulla riva destra, il castello di Hainberg e il Braunsberg sono gli ultimi baluardi germanici; sulla riva sinistra, la rocca di Devín segnala lo sconfinamento in territorio slavo.
Bratislava è piccola.
Alloggio in un ex-convento che è l’albergo piú economico della città, probabilmente perché anche qui la Chiesa Cattolica non paga le imposte. Alla reception il mio ceco viene ignorato. In stanza una copia del Nový Zákon appartenuta a Sr. M. Benilda, con segnalibro in Giovanni 18-19. Nei corridoi una vasta biblioteca di volumi religiosi, fra culto mariano e devozione a San Giovanni Bosco.
Bratislava/Pozsony/Pressburg è piccola, e quel che c’è da vedere l’ho già visto nel gennaio di sei anni fa, quando c’era il sole ma faceva -11° C. Oggi mi mancano la torre detta UFO, che sovrasta il ponte SNP e che quel mattino era ancora chiusa, e il Castello. Sullo Starý most, una bella struttura in ferro dipinta di verde, passano i tram e i podisti del mattino. Dal lato del quartiere di Petržalka, che ricordavo insicuro e poco gradevole, il lungofiume è stato attrezzato con un lido dove si gioca anche a bocce sul ghiaione non pettinato. Salgo ai 95 metri di altezza della torre UFO insieme a una coppia di coniugi serbi di mezza età il cui lui si chiama Milan e mi suggerisce di visitare un certo bel posto blizu Smederevo. Resto lassú a prendere vento freddo e a scattare foto a estranei finché la mente s’intorpidisce. Lo skybar di notevole ha soltanto il cesso panoramico: Enjoying the view?
Anche il Castello mi delude un poco: nel negozio di suveníry la commessa-capa c’informa che eccezionalmente aprirà nel pomeriggio causa Notte dei Musei; le magliette per turisti dal tessuto di scarsa qualità costano venticinque euro, la commessa in seconda mi dice sottovoce che me le può vendere a venti. Scendendo nel centro storico passo davanti al Tepláreň, locale gay che lo scorso ottobre è stato teatro dell’omicidio di due avventori da parte di un giovane di estrema destra; in vetrina si legge un commosso ricordo dei due assassinati.
In Hviezdoslavovo námestie applaudo una coppia di freschissimi sposi e visito la mostra a tema fluviale di un’artista poco ispirata.
Blava è piccola. Il mio posto preferito è la Modrý kostol, dedicata a Svätá Alžbeta (d’Ungheria, perché qui un tempo era tutta Ungheria). Poco distante c’è quella pizzeria dove sei anni fa avevo mangiato la migliore pizza in Cechia\Slovacchia, cotta da un giovane pizzaiolo slovacco; be’, la gestione è cambiata, il cuoco attuale mette l’aglio nella Margherita.
(Veľké Maďarsko)
A raňajky, se il seminarista che è l’unico religioso nell’ex-convento fosse presente, tale madre e tale figlia gli farebbero smettere l’abito talare e ripudiare il nono comandamento. La tuttofare parla a macchinetta per tutto il tempo che l’ascensore impiega a discendere il grigio camino in stile Liebeskind, io abbozzo qualche vaga risposta calcando la „ř“.
Sul treno regionale per Komárno/Komárom (materiale rotabile ÖBB) gli annunci in magiaro cominciano appena lasciata Bratislava/Pozsony. Da queste parti la pianura alluvionale danubiana mi ricorda un po’ la Lomellina: campi di grano e di colza e di barbabietole si stendono fino all’orizzonte, intervallati dai silo di stoccaggio e dai paesini con la loro brava denominazione bilingue. Piove che Boh/Isten la manda, ma non ancora ai livelli di Chicago 2022 o di Valdivia 2013.
Komárno/Komárom (sponda slovacca) doveva essere una cittadina ricca e graziosa, quando era soggetta alla Corona di Santo Stefano. Giace alla confluenza del Váh/Vág nel Danubio, dove il grande fiume forma un isolotto. C’è una cittadella, residuo di un complesso di fortificazioni su ambo le rive; ci sono belle chiese e palazzotti borghesi, e una sinagoga. Oggi la cittadella è chiusa, dietro alle chiese si stagliano i paneláky, i palazzotti cadono in rovina, e la sinagoga è tristemente vuota. Alla foce del Váh non capisco come si accede, e il lungo-Danubio è un lungo cantiere logistico-navale con un radioso futuro alle spalle.
A tarda sera scopro che “la Lomellina slovacca” è la piú grande isola fluviale d’Europa: la Žitný ostrov, stretta fra il Danubio a sud, il Váh a est, e il Malý Dunaj (“Piccolo Danubio”) a nord. Quest’ultimo defluisce dal corso principale appena a valle di Bratislava e si getta nel Váh a monte di Komárno. E sí che dai finestrini del treno avevo notato gli acquitrini…
(Crossing the bridge)
Nella luce nuvolosa del lunedí mattina, Komárno appare un po’ piú viva di ieri: i bambini vanno a scuola, i poveri perlustrano i cestini. Il gatto randagio affamato del quartiere mi riempie di pelo. All’ufficio postale il viso dell’impiegata s’illumina quando le dico «Taliansko». A colazione capuccino [sic] aj maková buchta. Mi trovo in una cittadina di lingua ungherese e parlo ceco rotto e mi rispondono in slovacco e ci capiamo: grazie Ceccobeppe, fuck you Dio di Babele.
Transitato a piedi sull’Erzsébet híd che unisce le due nazioni, il piú ampio giretto turistico di Komárom (sponda ungherese) che riesco a fare con lo zainetto e il trolley è intorno alla stazione ferroviaria, con sosta al bancomat del Tesco (?!) per prelevare fiorini. Avrei potuto chiedere un passaggio ai tanti slovacchi che fanno i pendolari della spesa. Sull’InterCity verso la capitale mi addormento guardando le colline boscose.
Non so niente di letteratura ungherese, oltre a Ferenc Molnár. Non so niente dell’Ungheria in generale, oltre a Cicciolina e a Ferenc Puskás e al Ferencváros. Non conosco magiari, oltre alla tizia che frequentai brevemente pre-coronavirus, che chiedeva sempre «where is Massi», e che si rivelò una perdita di tempo. Quella tizia mi torna in mente alla reception dell’albergo di fronte alla stazione di Keleti, dove le tre persone che ho di fronte sono un filo scentrate, com’era lei. Enrico Fermi diceva che gli alieni [s]ono qui fra noi e si fanno chiamare Ungheresi.
(Budapester Schlittenfahrt)
[Massi] Non può piovere per sempre!
[Duna] Hold my sör…
Budapest è grande.
Esco presto per mescolarmi ai locali che vanno al lavoro e per evitare gli altri turisti. Da Keleti al Danubio devono essere oltre due chilometri in linea retta, ma la mia mappa non riporta la scala (ieri una gentile barista indiana si è sorpresa di vedermi trafficare con la carta e si è offerta di cercare per me su Google Maps). Transitato a piedi sull’Erzsébet híd (non è il medesimo “ponte Elisabetta” di ieri, lascio ai miei 2,5 lettori immaginare chi sia tale onnipresente Elisabetta) salgo gradino dopo gradino alla Citadella [sic], dislivello da passo Pordoi. In vetta mi ferma una rete metallica: l’intera costruzione è inaccessibile per lavori. Grazie Orbán.
Scendo a Buda, mi perdo un’ora fra i viali alberati di Buda, esco la mappa di tasca, ritrovo la strada per il Castello. Seguo i cartelli e imbocco una scala a chiocciola che m’ispira meno sicurezza di quella traballante dell’UFO di Bratislava: è metà mattina, sono fradicio, e sto odiando questa città; poi un metro piú in là vedo un comodo ascensore. Magris paragona l’architettura di Budapest a quella di Vienna, ma il confronto io lo faccio con Praga: Hradčany e Malá Strana mi piacciono piú del complesso fortificato di Buda. Oltretutto oggi la Chiesa di Mattia Corvino è presidiata da Honvéd e Rendőrség ed è chiusa al pubblico. Ancora grazie Orbán.
Evado dal Castello alla prima Porta. Fra i ristoranti da Guida Michelin e le catene americane, le solite, a Buda i posti popolari sono tutti zárva. In una via dello shopping, ma lontano dagli scarichi dei torpedoni, in un bistro fighetto come tanti nel mondo, mentre sto leggendo la lista degli hamburger, un tavolo di avventori autoctoni mi passa il menú a prezzo fisso da vero avventore autoctono: è un gesto di cortesia banale, e il menú è scritto in ungherese per cui ordino a casaccio, ma finalmente smetto di sentirmi respinto da questi luoghi.
Proseguo mangiato e bevuto verso la Margitsziget, un parco naturale di un ettaro nel mezzo del grande fiume, pochissime anime a passeggio e moltissime lumache striscianti per i sentieri. Rimesso piede a Pest, a un semaforo un’anziana mi scambia per un locale e mi chiede la strada: «nerozumiem, som turista», rispondo; «ahhh, turista», sorride. Mi trascino ancora fino all’Országgyűlés, l’edificio piú iconico della capitale. In piazza Kossuth un memoriale commemora la strage compiuta dai carri armati sovietici durante la repressione della Rivoluzione del 1956. La mostra non spiega adeguatamente cosa accadde, ma mi ricorda che Giorgio Napolitano è ancora vivo, e che Pietro Nenni aveva ragione.
(3000 siepi)
Sul FlixBus per Novi Sad (Újvidék in magiaro) si entra già in clima-Kusturica: l’autista grande grosso e cialtrone che si registra al cellulare mentre dà un bacio e invia il video tramite Whatsapp (alla figlia? alla moglie? all’amante?); l’inserviente smilzo e timido con piú dita che denti che fa da spalla. Ha smesso di piovere ma il cielo sulla pianura pannonica è rimasto e rimarrà di un grigio appena piú chiaro dell’asfalto liscio e rettilineo che porta a Szeged e poi al valico di Horgoš.
Alla frontiera, sponda ungherese: un poliziotto (romaní?) ai primi baffi; il foglio stampato anti-corruzione «GRANICA JE BESPLATNA!!!» ricorda lo zio di Marko, innocente, cui cascarono gli euro dal passaporto; l’agente Andrea H dagli occhi verdi non proferisce parola; il cartello «Welcome to Serbia», e le barriere blu e le reti metalliche e il filo spinato per dissuadere chi vuole entrare in Europa dalla porta di servizio.
Alla frontiera, sponda serba: oltre le sbarre è ferma una carovana di auto targate Vienna, dal bagagliaio della Škoda blu in coda una minuta finta-bionda trae una spazzola e si sistema i capelli; ancora non si proferisce parola; ho un nuovo timbro sul passaporto; chi ha abbandonato quella roulotte gialla e perché nessuno la rimuove.
Paesaggi di Banato e Vojvodina: le viti di Subotica, le case sparse a piano unico con tetto piramidale in tegole, i volti piú scuri. L’autista vede un tornado all’orizzonte, l’aria è ancora carica di umidità. Leni, [t]he first sunshine of my trip was across the border was also a metaphor.
Novi Sad è bella; e Novi Sad è Alessandria, se Napoleone avesse completato l’opera di distruzione e se i futuri piani regolatori avessero messo il Tanaro al centro dell’urbanistica. Quanto alle contadine slovacche osservate da Magris, la loro passata esistenza spiega i miei infatuamenti a ogni angolo: le loro nipoti, vestite alla zingara e con attitudine ottomana, oggi siedono ai tavolini del Bulevar a bere srbská káva.
[Massi] Finalmente una giornata di sole!
[Дунав] Hahaha не…
Ho camminato quasi l’intero periplo di Petrovaradin, sto facendo ritorno in centro. Il cielo si sta scurendo ben prima del tramonto, commetto l’errore di fermarmi in un ristorante sotto la rocca per espletare un bisogno fisiologico non negoziabile e per cenare a ćevapi na kajmaku. Dio Danubio apre le cateratte: per un’ora si vedono appena le auto che fendono le acque come motoscafi. Chiedo al gentile cameriere di chiamare un taxi, ma i taxi sono tutti occupati.
Ora ho un primato personale sui 3000 siepi, in orienteering piovoso, di circa trenta minuti.
(Il narcisista)
Trasferimento a Belgrado e giorno di riposo.
La notiziona di oggi, che ho letto mentre m’ingozzavo di baklava industriali seduto allo scrittoio della stanza d’albergo, è l’uscita a fine luglio del nuovo disco dei Blur, c’è già una nuova canzone che volutamente non ascolterò per qualche tempo.
Tre citazioni sul tema del narcisismo da viaggio, dall’op. pluricit. di Claudio Magris:
(Malgrado Belgrado)
Appeso agli alberi del viale che separa il ministero degli Esteri e quello degli Interni, e a un tiro di kalashnikov da quello della Difesa, un lungo striscione tricolore dice: «la Serbia senza il Kosovo e la Metochia è come un corpo senza il cuore». Sul retro sono mostrate le foto di bambini uccisi dai bombardamenti della NATO, e Tony Blair e Bill Clinton sono chiamati criminali di guerra.
Leni, parlando d’altro, mi ha raccontato di quando da bambina giocava con la sorella nel cortile di casa nel buio del coprifuoco a Smederevo, quaranta chilometri piú a valle. Non ho piú approfondito l’argomento con lei, né l’ho affrontato con Marko che è di Niš. Immagino che molti Serbi miei coetanei abbiano un conflitto interiore: l’attrazione o interesse per ciò che viene dall’Ovest, e il ricordo di quel che venne dall’Ovest (e dall’Italia) nella primavera del 1999.
A Belgrado i giovani del centro parlano inglese fluente e fanno la stessa vita dei giovani di Alessandria e di Brno e di Colchester; chissà quelli in periferia, chissà quelli nelle cittadine e nei paesi. A Novi Sad ho visto un parco logistico in costruzione accanto alla ferrovia: l’investimento è cinese. Attenzione a non perdere la guerra del soft power oltre a quella commerciale.
A Marko la capitale non piace. Io voglio dimenticare gli orrori socialisti visti ieri dal finestrino del treno regionale passando per Novi Beograd, e farò finta che la città tutta coincida col borgo vecchio. Savski Venac è confortevole, col suo lungo-Sava che la sera deve giocarsela coi Navigli milanesi (io non so, sono in albergo a scrivere). Stari Grad è un centro storico indistinguibile da mille altri centri storici dove i grandi marchi si sono presi tutte le vetrine, e dove i gastropub esperienziali attirano le classi sociali coi dané, lasciando vuoti i vetero-ristoranti con le foto appese alle pareti di vecchie glorie dell’intrattenimento. La fortezza di Kalemegdan offre una spettacolare veduta della confluenza della Sava nel Danubio. Nella cattedrale ortodossa una moretta callipigia bacia le icone. A due passi, la residenza della principessa Ljubica, d’ispirazione ottomana, dà l’idea che Belgrado fosse alla periferia dello stile nell’Ottocento come oggi; interessante la mostra temporanea sull’Art Nouveau; non ho pagato l’ingresso perché questa è la settimana dei musei nazionali.
A latere, sono stato scambiato per belgradese tre volte nella stessa giornata. Alle nove di mattina uscendo da un’agenzia di viaggi, da un uomo che mi ha chiesto se sapevo l’orario di apertura di un qualche altro ufficio lí a fianco. All’una del pomeriggio fuori da un vetero-ristorante in una via trafficata, da una ragazzina con l’apparecchio che ho zittito appena ha aperto la bocca metallizzata. E pochi minuti prima all’interno del medesimo vetero-ristorante, uscito dal bagno, da un cliente che pensava io fossi il titolare, perché non c’era nessuno.
(Randagismo)
[Scritto sul treno da Drobeta a Bucarest.]
Ieri mattina all’agenzia di viaggi di Arriva (a DB company) le due gentili impiegate mi hanno detto che per i biglietti dei trasporti regolari dovevo recarmi alla stazione degli autobus. Alla stazione degli autobus lo sportellista mi ha consegnato il biglietto, e uno жетон per accedere alle corsie di partenza.
Oggi pomeriggio sono in stazione con mezz’ora di anticipo: faccio cadere il gettone nella fessura e mi metto in fila nella corsia da dove penso partirà l’autobus per Kladovo; è la corsia sbagliata, la corriera Mercedes degli anni Novanta s’infila altrove, la seguo. La mancia per il bagaglio va direttamente in tasca all’autista. La maggior parte dei passeggeri sale in periferia: anziani, studentesse, mi sorprende essere l’unico turista. La radio passa musica folk, l’autostrada per Niš concilia il sonno. Poi la corriera prende la strada statale verso est, direzione Požarevac, e ancora le strade provinciali in mezzo ai paesini, nessuno dei quali è sulla lista delle fermate previste. Non sono nel panico perché il cartello dietro al parabrezza riporta la destinazione desiderata, ma inquieto sí. A Požarevac abbiamo quaranta minuti di ritardo. Una bella fanciulla chiede se il posto accanto al mio è libero, scenderà presto, non so se dovrei invitarla a seguirmi a Brno o se dovrei mollare tutto e stabilirmi a Donji Podqualcosa, nella Serbia rurale, in casa coi suoi tre fratelli che hanno un losco giro di BMW usate.
Da Veliko Gradište la corriera segue il percorso previsto, lungo il corso del Danubio. Qui il grande fiume diventa grandissimo, sette chilometri di ampiezza, ma è sotto il castello di Golubac che s’insinua nella Đerdapska klisura, o Porţile de Fier, le Porte di Ferro. In mezzo a due pareti di roccia il letto si fa ora piú stretto e ora piú largo, e la strada sale e scende allo stesso ritmo, un attimo siamo accanto alla riva, poco dopo siamo in cima alla scarpata. Da qualche parte lí sotto c’è la gola ampia soli novanta metri. Il telefono comincia ad agganciare le celle romene. Un temporale oscura la veduta. L’autista flirta con una passeggera, si eclissa con lei a Donji Milanovac, potrebbe essere un normale fine-turno ma non ne sono sicuro. Il nuovo autista raddrizza le curve a serpentina, maledicendo i lenti camper francesi, e recupera minuti. Un caprone pascola in un rettangolo d’erba fra l’acqua e l’asfalto. Una donna scende a una fermata immaginaria e viene portata via nel bosco da un uomo in un’auto senza targa. Infine il fiume si assesta, la strada spiana, passiamo accanto alla diga che fa anche da valico e da frontiera, e giungiamo a Kladovo con un ritardo trascurabile.
Kladovois the coastal town that they forgot to close down: somiglia in vari aspetti a una località di villeggiatura della riviera romagnola, con le sue pensioncine, e la sua spiaggetta però di sassi, e la sua strada dei locali però senza le balere. Tutti i giovani sono a fare serata. Trascino il trolley verso l’albergo e vedo un cane accucciato al centro della carreggiata: è il primo dei randagi che incontro, in tanti si aggirano intorno ai tavoli dei ristoranti a elemosinare, alcuni piú sani di altri. Il mio preferito si spaventa per i giochi dei bambini e zoppica saltellando sulle zampe posteriori, gli lascio due ćevapi.
(Hvala)
Al valico di Đerdap I il gentile agente serbo mi timbra il passaporto ma mi conferma quel che avevo letto e che temevo: non posso oltrepassare la frontiera camminando, devo chiedere un passaggio in auto o in camion. Si poteva transitare a piedi giusto un anno fa, oggi no, va’ a sapere il perché. A questo punto non posso nemmeno tornare indietro, perché il passaporto è timbrato: the only way is forward.
Mi posiziono a lato del gabbiotto, appoggio la giacchetta al manico del trolley, estendo il braccio e il pollice. È la terza volta in vita che faccio l’autostop, mi è sempre andata bene, ma ho appena visto un’apparente lingéra pregare inutilmente i conducenti in sosta di tirarla su, e temo che questa volta dovrò pazientare. Il guidatore della prima auto mi fa segno di no. La seconda auto è piena. La terza auto, con targa serba, si ferma; a bordo un uomo e una donna di pochi anni piú di me, abbassano il finestrino. Spiego in ceco, infilandoci qualche parola in serbo tipo granica, che sono italiano e che devo soltanto andare dall’altra parte della diga. Mi fanno segno di salire, ma ovviamente chiedono all’agente se la mia storia è veritiera e se avranno problemi dall’altra parte.
Mentre guida verso la riva opposta, l’uomo mi chiede perché parlo slovački, che sul momento penso significhi un generico “slavo”, invece è proprio “slovacco”. Spiego che abito in Cechia, e che il mio putovanje mi ha portato fin lí. E dopo, chiede la donna. E dopo a Drobeta in taxi, e poi fino al Mar Nero. Anche loro vanno a Drobeta, a fare šoping, mi ci possono portare. Nel suo gabbiotto l’agente romeno mi guarda strano, infine ci restituisce i tre passaporti.
Durante il breve tragitto, Srđan e consorte mi dicono che abitano a Negotin (un poco piú a sud di Kladovo), e che lui ha lavorato in Slovacchia, a Komárno (!), tre volte (?). Qualcosa si perde nella traduzione, ma ci si capisce. Mi lasciano nel parcheggio di un centro commerciale, assicurandosi che sia pronto per la pioggia imminente e che sappia in quale direzione andare. Ci auguriamo buono shopping e buon viaggio.
Drobeta-Turnu Severin, a giudicare dai tanti begli edifici abbandonati e diroccati, a fine Ottocento / inizio Novecento doveva essere una città affascinante. Oggi si aggrappa ai reperti romani dell’epoca dell’imperatore Traiano, quando era uno dei principali centri sul limes danubiano.
Un ricordo di Drobeta che voglio conservare è quello delle due ragazzine che sono giunte alla cattedrale ortodossa in due su un monopattino, l’hanno parcheggiato accanto a un muro esterno, e sono entrate in chiesa per baciare le icone come se stessero prendendo un gelato.
(Dusty Dacia)
La Romania è grande e lenta.
Alla luce del mattino Drobeta mi dà vibrazioni latino-americane, devono essere i cavi elettrici appesi liberamente ai pali in strada, o le insegne fai-da-te dei negozi. La stazione ferroviaria è un disastro: non c’è una biglietteria self-service, delle tre sportelliste due si prendono una pausa con i clienti in attesa, il software gestionale gira su MS-DOS, per chiudersi nel bagno degli uomini occorre tirare il chiavistello della porta dell’anticamera, la macchinetta che vende bevande e snack è italiana e vecchissima e adattata ad accettare la valuta locale.
L’accelerato per Bucarest è peggiore: i locomotori e le carrozze risalgono agli anni Sessanta, la velocità media è di settanta chilometri all’ora, viaggio in una prima classe che sembra una terza, in compenso il baffuto controllore impugna uno scanner Z****. L’InterCity per Costanza ha una vera prima classe dal design anni Ottanta, ma la carrozza ristorante non ha niente di quel che riporta il menú, l’offerta è patatine e birra.
Il paesaggio della Romania meridionale è trascurabile: boschi, campi colti e incolti, stazioncine derelitte. A est del Danubio il panorama si fa piú vario, con greggi di pecore al pascolo, branchi di cani randagi, e canali e chiuse che permettono alle navi di raggiungere il Mar Nero.
(O Mare Nero, Mare Nero, Mare Ne’)
Il Mar Nero è verde e blu. Costanza si sveste a strati. Oltre alle rovine romane presso il porto, reperti classici dalla datazione incerta sono sparsi per il centro a nobilitare la città moderna (Ceaușescu ha fatto anche cose buone). Fra le palazzine liberty fatte costruire dai ricchi mercanti fra fine Ottocento e inizio Novecento, le chiese convivono con le moschee. Visito la moschea sunnita di Carlo I: niente d’interessante, e nella scala a chiocciola in pietra che conduce in cima al minareto riesco a salire pochi piani. Visito la cattedrale ortodossa dei Santi Pietro e Paolo: non un centimetro quadrato non è affrescato, l’odore d’incenso permea ogni cosa, le fedeli si confessano in pubblico, un vecchio si prostra piangendo di fronte a un’icona di Cristo in argento, una giovane bacia quella di Maria col Bambinello e compra due candele prima di andarsene a bordo di un SUV. Penso agli obbrobri cattolici edificati nel secondo dopoguerra (San Baudolino ad Alessandria, Maria Restituta a Brno, Santa María de Guadalupe a Città del Messico) e mi chiedo chi andrebbe a convertirsi in mezzo al nudo cemento armato.
A pranzo in un ristorante di pesce con vista sulla baia, con proprietaria e fornitori italiani, e dai susseguiosi camerieri al primo impiego, provo le rapane: dei grossi molluschi dall’aspetto di escargots, non particolarmente gustosi, e duri da masticare (non mi stupirei se fossero davvero chiocciole raccolte a cesti nei giardini cittadini). Al tavolo accanto, due faccendieri discutono di affari in Ucraína; sono contento di non capire una parola di romeno. Fuori ha smesso di piovere ma tira la brezza, le acque sono increspate e batte bandiera rossa, soltanto pochi ragazzini fanno il bagno dove ancora si tocca. Le petroliere ancorate all’orizzonte non rovinano la bellezza del panorama marino.
La stazione ferroviaria di Costanza ha tutto ciò di cui un turista ha bisogno, c’è pure una macchinetta che vende libri. Il treno per Tulcea, velocità media di quarantacinque chilometri all’ora, è un dignitoso regionale a trazione diesel in cui tutti si conoscono; c’è chi parla inglese; nessuno mi siede vicino. In dotazione al controllore non soltanto un palmare Z****, anche una stampantina, applausi al collega delle vendite. A Medgidia il treno imbocca una linea che corre parallela alla costa, qualche decina di chilometri nell’entroterra: scambi azionati a mano, campi coltivati a grano e a pale eoliche, altre greggi di pecore al pascolo, cavalli legati a recinzioni, cani randagi che scodinzolano ai viaggiatori nelle stazioncine o inseguono il convoglio che corre. Nei pressi di Târgușor Dobrogea, le doline fra le pareti di roccia calcarea, forse scavate dal Danubio eoni fa, mi ricordano la Far North Line nelle torbe del Sutherland; si vedono resti di costruzioni in pietra di un’epoca indefinita. Verso Babadag compaiono le lagune e infine le beccaccine, i fagiani, i gabbiani.
Tulcea è a un tiro di mortaio dal confine con l’Ucraína e non molto piú distante da quello con la Moldavia Moldova. È anche la porta del Delta e l’ultima tappa del viaggio. Domani andrò in gita in barca fino a Sulina, e dopodomani prenderò la strada di casa. Ci leggiamo al mio ritorno.
Leonardo › Ieri notte un selezionatore umano di canzoni artificiali mi ha salvato la vita, di Leonardo Tondelli. Insomma il creativo del futuro me lo immagino molto meno operativo […]. Suonerà sempre meno, di scolpire e dipingere ha già smesso. Quel che farà è guardare, ascoltare, filtrare. Il creativo del futuro sarà un critico […].
Manteblog › ChatGPT e Ligabue, di Massimo Mantellini. Intendo: perché lo facciamo? Perché continuiamo a consumare una quantità tanto rilevante di arte, cultura, letteratura ed intrattenimento di una qualità abbastanza bassa da poter essere domani sostituita da un software? […] [P]erché non solo ci accontentiamo di tutta questa mediocrità ma anzi spesso la preferiamo con grande chiarezza e convinzione? Perché il talento, la cura, la poesia, l’innovazione e la bellezza sono una nicchia mentre noi siamo circondati da tonnellate di roba tutta uguale, assemblata con lo stampino da abili alchimisti del prossimo hit e con le iniziali del proprietario bene in vista?Un’industria culturale livellata verso il basso dalle richieste dei propri committenti. Talmente in basso, in termini di creatività e innovazione, da poter essere agevolmente sostituita da una macchina.
You want it darker ·
I have just added a dark mode to my Virtualia?. The scheme is triggered by the user’s system or browser preferences.
In light mode, the regular palette is: white background, black text, black headers, blue links, blue outlines. [A]lba pratalia […] negro semen, as they say in Verona.
In dark mode, the alternative palette is: navy blue background, white text, aqua blue headers, lime green links, lime green outlines. These are the colours that defined my vanity website in the early Noughties, MassiTwoSteps.net.
Vogue Italia › Elly Schlein […]: “Se non ti occupi della politica, la politica si occupa comunque di te”, di Federico Chiara. Dobbiamo rendere comprensibile la complessità, smontando cioè quella costruzione di consenso tutta basata sulla paura e sulla divisione. Dobbiamo riuscire a contrapporre una speranza di emancipazione che è esattamente l’opposto, e che consiste nel dare a ciascuno una risposta proporzionata ai bisogni che esprime.
I moved the list of feeds I read from the Blog section, where it acted as an old-style blogroll, to the forefront, and I renamed it Web; now it is accessible from the top line of the navigation bar. I am slowly expanding it with non-feed links to web resources I like, because soon the enshittification of Google Search will make curated indexes relevant again.
The actual data is written in OPML, an XML extension developed by Dave Winer of RSS fame, which is rendered in XHTML by means of an XSL template: the IndieWeb wiki shows a basic example of how it can be done, but I think I got to re-invent the wheel a few times. Now I just have to figure out recursion applied to nested outlines.
The raw OPML file can also be imported in a feed reader for consumption (I use the horribly-named Firefox extension, Feedbro).
I compiled a sitemap that I submitted to Google and to Bing; but lately they seem moreinterested in toying with LLMs than in providing good search results…
I moved the links to my feed and to my stylesheet from the navbar to the footer, then I deleted them because the footer looked stuffed. In the end I drew a feed icon in pure CSS and I put it back in the navbar. I studied one Codepen before trying my hand at it.
I like the outcome: one span boxes the icon and makes it responsive in size for small viewports; other spans draw the source point, and the wave with its troughs and crests. I may adjust the weight a bit. You can read the code by view-source.
The small favicons that appear at the bottom of each post and that link to the homepage now don’t retrieve the image for every instance.
Pulisci Milano ·
Davvero non esiste il genere letterario del “romanzo fallito”? Quello in cui l’Autore vuole scrivere del Tema a lui caro, ma ne resta schiacciato, eppure il romanzo è pubblicato lo stesso? O è quello che s’intende per “postmoderno”? “Fallito” non deve necessariamente essere un giudizio di valore: per ogni inutile Lo stato del mare c’è un capolavoro sui generis come La vita agra di Luciano Bianciardi.
Il narratore, un letterato anarchico, si trasferisce dalla provincia alla metropoli con il proposito di vendicare la morte di quarantatré minatori. Insieme alla compagna comunista prova a entrare in contatto con la massa operaia, indistinta, quella che si riversa nella metropoli con i treni del mattino presto, battaglioni di gente grigia, con gli occhi gonfi, in marcia spalla a spalla verso il tram, che li scarica all’altro capo della città dove sono le fabbriche, senza successo. E senza quest’allenza, nel disinteresse burocratico del Partito, il proposito anarchico si spegne.
Compreso il fallimento, il narratore esperisce un personale riflusso nella quotidianità della metropoli, fatta di case popolari e lavori meschini e scocciatori molesti e tasse da pagare; e si chiude in casa con la compagna e la Olivetti, a scrivere e a scopare, a scopare e a scrivere, fino a perdere l’impiego. L’atto sessuale fine a se stesso, paritario fra uomo e donna, diventa programma massimo, eversore della moderna civiltà. [F]inirebbe la civiltà moderna: cesserebbe ogni incentivo alla produzione dei beni di consumo, essendo dono gratuito di natura l’unico bene riconosciuto e durevole; cesserebbe anche l’insorgere dei bisogni artificiali. È la via privata all’anarchismo: [c]hi faccia tale scelta, giacché egli mina alle basi il neocapitalismo e il socialismo insieme, si prepari a vedersi contro tutta quanta la società.
Trovato un altro impiego da freelance, il narratore osserva cupamente le larve che popolano i non-luoghi della metropoli: le strade deserte, la nebbia, i neonati supermercati. Ce l’ha in particolare con il branco delle segretariette secche, senza sedere, inteccherite da parer di sale, col visino astioso e stanco. [Q]ueste dattilografette […] sono la vera spina dorsale dell’import-export, del commercio, delle attività terziarie e quartarie. Secche di gambe, piatte di sedere, sfornite di petto, picchiettano dalla mattina alla sera, coi tacchi a spillo, sugli impiantiti lucidati a cera, e poi su un pezzetto di marciapiede, fino alla fermata del tram.
È un romanzo fallito, La vita agra, ma funziona come trattato sociologico, ricco di citazioni citabili e futuribili, sull’Italia del boom economico e sulla decrescita, sull’editoria e sulla violenza politica, e su una Milano invivibile. Ci si trova anche un accenno a quelli che mezzo secolo dopo David Graeber avrebbe teorizzato come bullshit jobs (“lavori del cazzo”):
Mi sono fischiate le orecchie.
Leggevo ieri il reportage dal Vietnam in cui Claudio Giunta racconta dell’ingresso dello Stato asiatico, formalmente socialista, nel capitalismo. Giunta cita un articolo del 1962, medesimo anno della Vita agra, in cui Giorgio Bocca descrive il miracolo italiano nel distretto delle calzature di Vigevano, e non in termini lusinghieri. Non più di quattro o cinque aziende sono guidate da criteri industriali. Il resto si regge sul lavoro furibondo, sull’intuito commerciale, su un ottimismo indomabile. Una borghesia in formazione, dinamica, laboriosa e audace quanto zotica, eterogenea e, per certi aspetti, miope, conduce la confusa battaglia. Dalle parole di Bianciardi e Bocca non capisco dagli anni Sessanta a oggi quanto sia cambiato e quanto sia rimasto uguale. Ho il timore che a una civiltà immutata sia stata data una sottile patina di modernità.
Potrei come non potrei aver comprato su Knihobot.cz e Libraccio.it due pacchi di vecchie edizioni in inglese e in italiano di romanzi e racconti di Josef Škvorecký, e altre amenità assortite.
Raccogliendo materiale per una denuncia per la pagina su Wikipedia e per il post precedente, sono finito a leggere della pluridecennale faida fra le due fazionidella boemistica italiana sorte in università dopo la morte di Angelo Maria Ripellino. Ce n’è abbastanza per scrivere un libro: sugli effetti della politica della Normalizzazione, sulla rivalità accademica, con un intreccio di screzi personali.
Lascio qui sotto una lista di documenti che si possono trovare online, oltre il gossip, sul rapporto fra letteratura ceca e Italia.
Ústav pro českou literaturu AV ČR › Bohemistika v Itálii, od Aleny Wildové-Tosi (1995).
Qualche giorno fa è morto Emil Boček, brunense di Tuřany, ultimo sopravvissuto degli oltre 2500 cecoslovacchi che si arruolarono nella RAF per combattere i nazisti. Aveva appena compiuto cent’anni. Per capire la commozione qui in Cechia, pensate a quando in Italia si spegnerà l’ultimo partigiano.
Sulla Wikipedia in italiano una pagina dedicata a Josef Škvorecký non c’era, ho deciso di scriverla io. [1] Ora sono il secondo esperto italiano (autoproclamato) di Škvorecký, dopo il boemista Giuseppe Dierna, perché anche Škvorecký in Italia non se l’è mai filato nessuno, nonostante siano stati tradotti cinque suoi volumi. Certamente Škvorecký è un autore minore della letteratura ceca, ma il suo essere anti-comunista non deve avergli giovato negli ambienti letterari marxisti nostrani.
Josef Škvorecký nacque in una cittadina della Boemia nord-orientale, presso quei Sudeti che il Terzo Reich annesse nel 1938, da una famiglia della piccola borghesia. Il giovane Škvorecký aveva tre passioni: la letteratura statunitense, il jazz, e le sottane delle fanciulle. La stessa bozza di biografia si potrebbe scrivere per il suo alter ego Daniel Smiřický, protagonista di sette fra romanzi e novelle, fra cui l’esordio di Škvorecký Zbabělci (it. I vigliacchi) che ho letto nella versione inglese.
È la prima decade di maggio del 1945: Adolf Hitler si è suicidato, Berlino è caduta, ma in Europa Centrale si combatte ancora; l’Armata Rossa si sta avvicinando a Praga, mentre gli Alleati come da accordi si sono fermati a Plzeň. Nella cittadina di Kostelec il ventenne Danny Smiřický, operaio forzato nella fabbrica di munizioni Messerschnitz, respira la prima aria di libertà.
Da Praga arrivano voci di un’insurrezione popolare contro i nazisti. A Danny e coetanei prudono le mani, hanno raccolto un piccolo arsenale e vogliono fare la rivoluzione, ma i maggiorenti di Kostelec hanno stretto un patto cogli occupanti tedeschi: niente violenze reciproche. Al patto non partecipano i comunisti, che hanno avviato una guerriglia partigiana.
Quando Danny e i suoi amici accettano di essere inquadrati nelle milizie ufficiali locali, con funzioni di mantenimento dell’ordine, capiscono di trovarsi in mezzo a interessi contrapposti: i soldati della Wehrmacht vogliono fuggire verso ovest per consegnarsi in armi agli anglosassoni; i boemi collaborazionisti sono nel panico, perché persa la protezione nazista perderanno tutto; i boemi comunisti sono in trepidante attesa delle truppe sovietiche, perché vogliono imporre il bolscevismo in Cecoslovacchia; i boemi liberali sono fra l’incudine e (la falce e) il martello.
Danny Smiřický non è schierato né con i comunisti né con i liberali. La sua coscienza politica viene in secondo piano rispetto al vero motore delle sue azioni, di cui è pienamente consapevole: il farsi bello con le ragazze. Cerca il gesto eroico, ma desidera che accada sotto gli occhi della fanciulla che ama che brama. I suoi pensieri sono permeati di uno spleen esistenzialista e falso-nichilista da prenderlo a schiaffi.
Per Danny e i suoi amici, la rivoluzione è poco piú di un gioco da giovani adulti. Il modello da seguire sono i film americani; l’addestramento e le gerarchie militari sono un’incomprensibile noia. Finché a Kostelec arrivano le SS in retroguardia, e il gioco si trasforma in realtà, e la realtà in tragedia (il pel di carota Hrob come il piccolo Nemecsek dei Ragazzi della via Pál).
Lo sguardo non-ideologico di Danny permette al lettore di vedere oltre la serie di eventi bellici: le relazioni fra le classi sociali della cittadina, la scomparsa della comunità ebraica, la condizione dei prigionieri, i crimini di guerra compiuti dai “cattivi” e dai “buoni”. Smiřický/Škvorecký evita di de-umanizzare i nazisti: in un lungo inciso racconta il tentativo del bello del gruppo di sedurre una giovane ausiliaria della Luftwaffe, e li pone sullo stesso piano naturale, quello di due adolescenti in fregola; ma lei è impregnata di retorica razzista, e il rapporto è impossibile.
In un altro inciso c’è una dichiarazione di poetica dell’autore, che si estende ad analisi sociologica dell’interazione fra i due sessi:
E infine c’è la musica, e in particolare il jazz, insieme alle ragazze l’unica cosa al mondo cui pensare, e per cui vale la pena vivere:
Peggiori dei vandali, su Wikipedia ci sono soltanto gli amministratori di Wikipedia. ↩
The New Yorker › What If We Stopped Pretending?, by Jonathan Franzen. Call me a pessimist or call me a humanist, but I don’t see human nature fundamentally changing anytime soon.
Appunti sul gastronazionalismo ·
L’articolo del Financial Times[1] a firma di Marianna Giusti [2] su certi miti della presunta tradizione culinaria italiana è oro.
Si tratta di un’intervista ad Alberto Grandi, storico dell’alimentazione all’Università di Parma (dove, sennò), autore di un libro e di un podcast dal titolo Denominazione di Origine Inventata in cui spiega le origini moderne e industriali di piatti-simbolo della cucina italiana. L’ho letta gustando una gulášová polévka rovesciata dal barattolo, cui in cottura avevo aggiunto dei těstoviny all’uovo prodotti a Vřesovice u Kyjova.
Alcuni titoli dei media italiani che hanno ripreso la notizia (niente link):
Financial Times attacca la cucina italiana: “Il parmigiano vero è del Wisconsin”.
Financial Times contro carbonara e parmigiano, Coldiretti: “Attacco surreale”.
L’assalto alla cucina italiana: “Questi piatti non sono vostri”. Ma la storia è un’altra.
“Il parmigiano? È del Wisconsin”. Le fake news autorazziste del prof. Grandi finiscono sul Financial Times[3].
Ignorando i virgolettati inventati da titolisti infami, annoto che dalla sinistra populista all’estrema destra la retorica condivisa è quella bellica: è in atto una guerra all’Italia e alle sue eccellenze, e i sabotatori sono fra noi.
Spettacolare l’editoriale del direttore della redazione gastronomica della Busiarda: ammette che il professor Grandi racconta storie precise, attente e ben documentate e soprattutto totalmente vere, poi aggiunge:
Da questa parte delle Alpi, oltre il confine dell’Impero Romano, dove il mercato comune europeo mi permette di comprare il pane in cassetta confezionato da operaie romene a Valle San Bartolomeo (AL), in un periodo storico in cui dalla sinistra populista all’estrema destra furoreggia l’identitarismo, vedo l’identità degli Italiani ridursi a quel che mettono nel piatto.
(Forse ora mi spiego perché nel centro di Praga cosí tanti ristoranti siano italiani, con insegne e menú in italiano, sia mai che i turisti italiani finiscano a mangiare schnitzel, che schifo già dal nome, altro che schnitzel, vuoi mettere piuttosto una bella cotoletta alla milanese.)
Ma un’identità nazionale ridotta a quel che si mette nel piatto è un’identità debole, che capisco vada in crisi per l’apertura di una kebabberia, e capisco abbia crisi isteriche se si parla di farine di grillo. Se questo è il sovranismo declinato all’italiana, è una ben patetica filosofia politica.
Radio Prague International › One year of helping Ukraine: The Czech story, by Thomas McEnchroe. The country itself has taken in 480,000 Ukrainian refugees, one of the largest numbers in Europe.
Archivi di Asphalto 2 › Le slovacche, dell’utente Pacciani.
Praga Capitale ·
– you will be there for 3 days?
– Yes.
– alone?
– Yes.
– why?
– Why not?
– because… I have no answer.
Leni non mi conosce bene, e non si capacita che io voglia passare un weekend lungo nella capitale in sola compagnia di me stesso.
Torno a Praga dopo due anni. Questa volta il pretesto è il concerto di un gruppo rock australiano di cui Luca e Vojta pensano un gran bene.
Sul treno da Vienna siedo accanto alla pronipote di Josef Švejk e dietro a una famiglia asiatico-americana: il figlio con deficit di attenzione saltella al portatile fra video su YouTube, la scrittura di un saggio, e un software ludico per imparare la lingua di origine (il coreano, mi pare); la madre è al telefono con l’agente letterario mentre lavora alla quinta bozza del suo romanzo Kisses and Conspiracies. L’albergo dove alloggio è a metà strada fra Václavské náměstí e Staroměstské náměstí, e ha un ingegnoso sistema per il check-in automatico.
Come mio solito, vago senza mappa, seguendo l’istinto e rifuggendo i turisti.
È un sabato mattina di metà marzo ma in giro ce ne sono già troppi, per fortuna non sono uno di loro. Oh, wait…
A poco a poco mi allontano dal centro: Vinohrady con i palazzi borghesi e le villette abbandonate, Vršovice piú popolare, Žižkov anarchica ma in lenta gentrificazione. Fouká chladný vítr e nevica lievemente: m’infilo nello sterminato cimitero di Olšany, dove marmo e granito scrivono un trattato architettonico sull’intersezione di classi sociali e nazionalismi.
Tornando verso Nové Město si sentono proclami e fischi: è la manifestazione autorizzata della destra sociale putiniana “contro la povertà”, leggasi “contro il governo” e “contro l’Unione Europea” e “contro la NATO”. Una decina di migliaia di persone occupa la parte alta di piazza San Venceslao. Qualche decina di liberali tiene una contro-manifestazione sotto il Museo Nazionale, sventolando bandiere europee e ucraíne, protetta da un cordone di polizia che riesco facilmente a penetrare; giro i tacchi in fretta, perché se io riesco a penetrare un cordone di polizia c’è qualcosa che non va.
Domenica mattina il sole splende sulle strade deserte di Staré Město e l’aria è fresca ma non gelida. Le scarpe mi portano in riva alla Moldava: l’hotel della gita scolastica lo ricordavo piú grande, oggi è un cinque stelle di design da duecento euro a notte. In cima a Letná un metronomo (fermo) si erige dove sorgeva il monumento a Stalin; nel parco retrostante i cani corrono e le fanciulle pattinano. Al Castello, dove si è appena insediato il Generale, riconosco turisti romani e veneti al primo colpo d’occhio. Per Nerudova scendo in Malá Strana a recare omaggio (altrui) al Pražské Jezulátko. La collina di Petřín è in fiore: il giorno di san Massimiliano mi sembra un po’ presto.
Evička ha compilato una lista di locali premium mediocre dove noi quattro possiamo trascorrere il pomeriggio prima del concerto: nel primo apprezziamo lo stile cubista[1] e il fatto che la cameriera si dimentica di segnarci un paio di bevande in conto; nel secondo apprezziamo il cibo e il poter rovinare l’appuntamento romantico di due giovinetti antipatici al nostro stesso tavolo parlando ad altissima voce di circoncisione.
L’interno del Palác Lucerna è anch’esso un capolavoro dell’Art Nouveau, ma la velký sál ha bisogno di un piú potente impianto di aerazione.
Torno in albergo zoppicando. In piazza San Venceslao, i medesimi procacciatori di ventidue anni fa abbordano le comitive di giovani maschi offrendo loro spettacolini dal vivo, «l’ingresso è gratuito». Sono contento di distinguermi dai puttanieri italiani.
Lunedí mattina al centro informazioni del Museo Ebraico sono il primissimo cliente. Vorrei vedere soltanto il vecchio cimitero, ma il biglietto copre anche una mezza dozzina di sinagoghe, in un itinerario piú o meno fisso. A tutti gli anziani volontari poliglotti mi rivolgo in lingua ceca, e li sorprendo tutti. Contrariamente a quanto spiegato dal goy che mi ha venduto il biglietto, per entrare nei luoghi di culto il mio berrettino in acrilico è sufficiente, la kippah non è necessaria. Noto però con disprezzo che non tutti i visitatori maschi tengono il capo coperto.
Non entro nella Sinagoga Vecchia-Nuova perché sono incapace di leggere la mappa sul depliant, e si è fatto tardi.
Madhouse Express: «There’s one genre I find boring, that’s classic rock. First band plays classic rock.» «Wait, they have a theremin!»
Hypnotic Floor: di birra e di fregna il baffo (viennese) s’impregna.
King Gizzard & The Lizard Wizard + Los Bitchos @ Velký sál Lucerna, Praha,
Los Bitchos: Na na na na na na na / Tequila!
(We didn’t get to listen to anything else, as they started playing on time while half the audience, including the four of us, were still queueing in the street outside the venue. A round of applause for the band’s management.)
King Gizzard & The Lizard Wizard: avevamo basse aspettative, ma.
Mi sono piazzato accanto al mixer, dove il fonico sembrava compiaciuto. Dopo la prima canzone ho pensato «i Kula Shaker lo facevano meglio nel ‘97». Alla terza canzone, una nenia che ripeteva le iniziali del gruppo, mi è apparso in visione mistica il Quadrato Magico dell’Asphalto:
Quando dallo hard rock, pretenzioso, sono passati a pezzi piú pop, brutti, ho smesso anche di ascoltare.
– I hurt my koleno in the mosh pit.
E quando il concerto è terminato, il pubblico praghese è sciamato alla šatna senza attendere l’encore.
Marcondirondirondello ·
Cicely, Scotland ·
Il ‘13 fu per me un anno particolare: ne avevo appena compiuti trenta, ero disoccupato avevo molto tempo a disposizione, e mi ero stancato dell’Italia. A febbraio trascorsi tre settimane in Cile: delle dimissioni di Joseph Ratzinger venni a sapere dalla radio mentre facevo colazione in un appartamento di Santiago («¿Murió?»), della vittoria dei Cottolengo alle elezioni politiche conversai a un tavolo di docenti nel refettorio di un’università gesuita. A giugno accompagnai un gruppo di pellegrine comuniste in Terra Santa: imparai la felicità da uno stormo di suore starnazzanti nel fiume Giordano, incontrai Dio (o, piú probabilmente, un agente della sicurezza in borghese) nei pressi della Porta di Sion.
Inviavo il mio CV principalmente ad aziende estere; ne avevo caricato tre versioni (in italiano, in inglese e in francese) sul sito dell’EURES.
A luglio risposi a un annuncio di lavoro apparso nella bacheca del sito, legato a un programma di tirocini finanziato dal governo scozzese, per un physics material science graduate (“laureato in fisica dei materiali”). A fine agosto il proprietario dell’azienda, un professore universitario, mi contattò per fissare un colloquio: ne feci un primo con lui al mattino, un secondo con un ingegnere elettronico al pomeriggio, e già a sera avevo un’offerta da valutare. La posizione era interessante, il salario era decente (buono, per gli standard italiani), le spese di trasferimento erano coperte. Risposi che ero lieto di accettare l’offerta. Tre mesi dopo lasciavo la mia lettera di dimissioni sulla scrivania del professore.
A Wick, nella contea del Caithness, vissi sedici settimane. Nei giorni che passai a organizzare il viaggio e a cercare un alloggio via e-mail, aprii il blog Cicely, Scotland, all’indirizzo cicelyscotland.blogspot.co.uk. Il riferimento era alla mia serie TV preferita, Northern Exposure (it. Un medico tra gli orsi), il cui protagonista Joel Fleischman deve trasferirsi a lavorare nel paesino sperduto di Cicely, Alaska, per ripagare il debito contratto per laurearsi. Il blog era pubblico ma non indicizzato, e mi firmavo con lo pseudonimo Joel Pons Fleischman(n), dal nome dei due scienziati che pensavano di aver scoperto la fusione fredda. L’idea era di scrivere post come episodi di un telefilm.
Quel che andò storto si può leggere fra le righe. Mi piace pensare che ogni singolo disastro di quei centoundici giorni mi sia servito ad avere successo, in ufficio e fuori, quando mi sono trasferito qui in Repubblica Ceca: sapevo bene come non comportarmi, cosa non fare. Anche oggi, nell’attuale posizione, posso tenere il mio ex-capo come esempio da non seguire nella gestione dei dipendenti, in particolare dei neo-assunti. (Val, che l’ha conosciuto a una fiera di settore, perché il mondo dei fisici è piccolo, dice sempre «il tuo ex-capo è un coglione»; non concordo.)
Ho importato Cicely, Scotland dopo aver fatto un’accurata pulizia del codice di Blogspot, e dopo aver allineato lo stile di quei trentasei post alle Virtualia?. Ho recuperato le foto dai miei rullini digitali, e qualcuna dai social network. Molti link ora puntano alle corrispondenti pagine salvate nell’Internet Archive. Alcuni paragrafi che preferisco tenere sotto chiave in una cartella del mio laptop sono indicati come {OMISSIS}.
Ad accompagnare Cicely, Scotland ho compilato un nastrone di sedici canzoni che quell’autunno andavano per radio, o che ascoltai in loco, o che a posteriori ho associato a quell’esperienza: s’intitola Sweet Sixteen e potete scaricarlo fintanto che non lo cancello dal server.
By the time we got to the Alterna, Obligatne had already started playing their first song. Weren’t they supposed to be the main act?
Last year I was a bit disappointed by their performance on this same stage. Last night they played a more varied set, some new songs, working as a band without any virtuoso excess, the guitarist messing up a few times in front of the forgiving audience… Still they failed to impress me.
I was by far the oldest person in the venue.
Choose a side! ·
Nová hudba, ktorej verím #7 ·
Nia Archives – So Tell Me…
(Via Steve Lamacq.)
Early last year, Nia Archives’s 18 & Over was in my drafts for a while, but there weren’t other songs that caught my attention enough to write a post around them, so I just deleted those drafts. In the meantime she signed for a major label, she won the BBC Music Introducing Award, and more importantly she got into the FIFA 23 soundtrack; I guess that her debut album is due soon, after two independently-released EPs. Compared to previous singles, So Tell Me… has this melodic line that sounds engineered to please to a more mainstream audience; or perhaps it is a sign of an artistic development? This year I must follow her closer than I have done so far. Booyaka! Booyaka!
Dave Rowntree – Devil’s Island
(Via Veikko’s Blur Page.)
Yes, thatDave Rowntree: he has just released his first solo record, one that I did not expect, and that surely I did not expect to be quite good. Devil’s Island is the first track, and it is very Albarnian, with a hint of Hollow Talk by Choir of Young Believers, plus a couple of slavic words for good measure (I get острова, indeed “island” in *gulp* Russian).
The Waeve – Over and Over
(Via Veikko’s Blur Page.)
«Graham Coxon and Rose Elinor Dougall are making music together. Also, they are boning. Oh, they have a child now.» First reaction: shock! Then I pretty much ignored them until their debut album was released last week: which is complex, greater than the sum of its two core parts, yet inexplicably sounding like Graham Coxon and Rose Elinor Dougall. It will end up in every critic’s end-of-the-year top-ten list.
Dephcut feat. Grna – Brothers & Sisters
(Via Nika Svorenčíková.)
Whenever Dephzac releases a new single as his funky alter ego Dephcut, I post it here, because his music is full of joy. I wonder if he cleared the sample that he lifted straight from The Soul Children; while James Brown’ssignature scream must be in the public domain by now.
Daughter – Be On Your Way
(Via Steve Lamacq and Nika Svorenčíková.) Daughter is back as a band, after six years and one uninteresting solo project, with a song about lost love or mourning a dear one, you decide. Be On Your Way builds up in its own restrained way, the Daughter way, the electronic-tinged arrangement lifting Elena Tonra’s quiet vocals.
Patrick Wolf – Nowhere Game
(Via Nika Svorenčíková.) Patrick Wolf is back holding his signature viola, after ten years when I wondered where he had hidden himself. The video for Nowhere Game is delightfully gothic, and if the song gives us a hint, the new record will be steeped in his chamber-electro-pop roots.
Everything but the Girl – Nothing Left to Lose
(Via Nika Svorenčíková and Steve Lamacq.) Everything but the Girl is back as a duo, after twenty-four years and countless solo albums, and what a comeback this is! I do not agree that their new single Nothing Left to Lose is that much modern-sounding, as Ben Watt wanted it to be, but damn is it a great ‘90s house track! And didn’t we miss Tracey Thorn singing something like kiss me while the world decays, kiss me while the music plays?
Internet explorer #24 ·
Rands in Repose › The Seven Levels of Busy, by Michael Lopp. Cracks in the facade. I have made it a talking point in my office.
Oblomov › Continuous Content Generation, by Giuseppe Bilotta. There is a trend that has been going on for decades […]: the replacement of art with content, and artists with creators.
Pluralistic › Tiktok’s enshittification, by Cory Doctorow. Here is how platforms die: first, they are good to their users; then they abuse their users to make things better for their business customers; finally, they abuse those business customers to claw back all the value for themselves. Then, they die.
Techdirt › How The Friedman Doctrine Leads To The Enshittification Of All Things, by Mike Masnick. Wall Street is not visionary. Wall Street does not believe in long term strategy. It believes in hitting your short term ever increasing numbers every three months. Or it will punish you.
Perché diamine in alfabeto cirillico la forma corsiva della т si scrive т: острова острова, pensavo fosse rotto il font.
In Serbia complicano le cose e scrivono ш̄, grafema identico alla ш ma con un tratto sopra, da segnare col dito nella condensa sul tavolino.
Impossibile per le mie tenere orecchie occidentali cogliere la differenza fra џ (dž) e ђ (đ/dj); tutta colpa della Ј.
E un generale come Presidente ·
Oggi i Cechi hanno elettoil presidente della Repubblica, carica comparabile per poteri a quella italiana: è Petr Pavel, ex-generale della NATO, sedicente conservatore con idee socio-economiche che lo pongono a sinistra di Elly Schlein. Pavel è famoso per aver guidato un contingente misto ceco\slovacco che salvò un manipolo di soldati francesi dalle grinfie della Tigre Arkan durante le guerre di Jugoslavia. Filo-occidentale, filo-europeista, studiava da spia comunista quando il comunismo cadde. Comunicazione ricca e strepitosa, a partire dal logo.
Il generale Pavel ha battuto al secondo turno un’altra ex-spia comunista, il miliardario Andrej Babiš alias “agente Bureš” alias “il Berlusconi cecoslovacco”, ex-primo ministro, che si era defilato per tutta la campagna elettorale, per poi sparare fuochi d’artificio e abbondante letame nelle due settimane che hanno condotto al ballottaggio. La terza candidata principale, Danuše Nerudováalias “fake Zuzana Čaputová”, non è riuscita a trasmettere nessun messaggio circa se stessa oltre a «sono giovane e donna»: bene, ma un po’ poco.
Non sono entusiasta di avere un ex-militare capo di Stato ma, se moja prezidentkaha rotto il protocollo istituzionale ed è volata da Bratislava a Praga per congratularsi con Pavel direttamente nel suo quartier generale, penso di potermi fidare anch’io. Ci rileggiamo fra cinque anni.
Nel racconto Ivana, Ivana Dobrakovová cita il titolo di una poesia dell’autore slovacco Miroslav Válek, Zabíjanie králikov, che la traduttrice Alessandra Mura rende come L’uccisione dei conigli. Sul web la versione in italiano della poesia non si trova, ma si trova il testo originale. Quindi cosa ho fatto? Be’, l’ho tradotta io, aiutandomi con il vocabolario online slovacco-inglese dell’editrice brunense Lingea. Non ho barato con Google Translate né ho sbirciato le versioni esistenti in altre lingue. Inutile scrivere che la mia conoscenza dello slovacco è limitata, perciò sicuramente ci sono errori e incomprensioni; o scelte personali, come rendere zabíjať con “macellare”.
Buona lettura, e felice anno del coniglio! Přeju vám příjemné čtení, a šťastný rok králíka!
V nedeľu po raňajkách,
keď je vzduch asi na polceste k ľadu,
v komíne pištia tenké flauty myší,
v nedeľu po raňajkách,
po čerstvom snehu kráčať
ku klietkam.
Stiahnuť si rukavice na ružovú slávnosť,
na plot ich napichnúť
jak čerstvo odseknuté dlane
a fajčiť cez dvierka.
Potom už vsunúť hľadajúcu ruku
a s dymom v zuboch vravieť sladké reči,
lichôtky, jemné slová,
trochu poľutovať,
uchopiť pevne za kožu
a zdvihnúť z teplej slamy.
La domenica dopo colazione,
quando l’aria sta quasi girando in ghiaccio,
nel camino i topi squittiscono sottili flauti,
la domenica dopo colazione,
camminare lungo la neve fresca
verso le gabbie.
Levarsi i guanti del dí di festa,
infilzarli alla recinzione
come palmi mozzati di fresco
e fumare attraverso il cancelletto.
Poi infilare la mano alla ricerca
e con il fumo fra i denti parlottare,
fare complimenti, dire parole tenere,
compatire un poco,
afferrare fermamente per la pelle
e sollevare dalla paglia tiepida.
V nedeľu po raňajkách,
čpavok ovoňať.
La domenica dopo colazione,
annusare l’ammoniaca.
Chvíľu tak držať ľavou dolu hlavou,
pozerať ako brunátnejú uši,
pohladkať nežne za väzami,
pofúkať, odniesť
a náhle pravou udrieť do tyla.
Con la sinistra tenere cosí un momento a testa in giú,
osservare come imbruniscono le orecchie,
accarezzare gentilmente sulla nuca,
dare un bacio, portare via
e d’improvviso con la destra colpire dietro il capo.
Ešte raz v dlani zacítiť odraz
k zbytočnému skoku,
mať ťažko v ruke,
sladko na podnebí,
počuť, ako sa otvorilo nebo zajačie
a plné hrsti srsti z neho padajú.
Percepire ancora una volta nel palmo il balzo
per un inutile salto,
tenere a fatica in mano,
dolce nel palato,
sentire, come si è aperto il cielo del leprotto
e da lui cade una manciata di folti peli.
Viedenský modrý,
belgický obor,
francúzsky baranovitý,
český strakáč,
ale aj bastard z hocijakej krvi,
všetci zomierajú rovnako rýchlo
a bez slova.
Il blu di Vienna,
il gigante belga,
l’ariete francese,
il pezzato ceco,
ma anche il bastardo di chissà quale sangue,
tutti muoiono ugualmente in fretta
e senza una parola.
V pondelok mať modro pod očami, mlčať,
v utorok uvažovať o osude sveta,
v stredu a štvrtok
vynájsť parný stroj
a objavovať hviezdy,
v piatok myslieť na iné,
ale najmä na belasé oči,
celý týždeň ľutovať siroty
a obdivovať kvety,
v sobotu sa do ružova vykúpať
a usnúť na jej ústach.
Il lunedí avere le occhiaie, restare in silenzio,
il martedí riflettere sul destino del mondo,
il mercoledí e il giovedí
inventare la macchina a vapore
e scoprire le stelle,
il venerdí pensare ad altro,
ma specialmente a occhi azzurri,
tutta la settimana sentirsi in colpa per gli orfani
e ammirare i fiori,
il sabato fare un bagno di ottimismo
e addormentarsi sulla bocca di lei.
V nedeľu po raňajkách
zabíjať králika.
La domenica dopo colazione
macellare il coniglio.
[Ultima revisione: / Poslední revize: .]
L’architetto ·
Stamattina ho avuto una videochiamata con la mia capa per rivedere il mio Individual Development Plan (“piano di sviluppo individuale”): è una chiacchierata che io e lei facciamo a cadenza regolare per fare il punto del mio progresso come dipendente. (Allo stesso modo io faccio una chiacchierata a cadenza regolare con ciascun membro della mia squadra per fare il punto del loro progresso come dipendenti.) Io e lei teniamo traccia del piano in un gestionale interno (che stamattina non funzionava). Almeno nella teoria spacciata dall’ufficio del personale, questo documento dovrebbe servire a me per esplicitare quali obiettivi ho come lavoratore, e per dettagliare un percorso per raggiungerli; nella pratica serve all’azienda per mantenermi motivato, e per rendermi piú produttivo. Sulla base della mia breve esperienza dai due lati, se c’è impegno reciproco è un win-win: il dipendente consapevole di sé dichiara cosa vuole diventare o dove vuole migliorare, il manager capace tiene conto delle sue aspirazioni nell’assegnazione delle mansioni e delle risorse. A me, e a qualche membro della mia squadra, l’IDP è servito a crescere in ruolo e stipendio.
Il periodo immediatamente successivo a un giudizio formale è l’ideale per ridiscutere il piano. Per il 2022 ho ricevuto una valutazione piú che positiva, pertanto per il 2023 ho formalizzato alla mia capa due intenzioni: consolidare ciò che di buono ho fatto, e colmare lacune specifiche. Al termine di quest’anno solare, andando verso il compimento del terzo nell’attuale posizione, valuterò se sono soddisfatto del mio impiego o se piuttosto dovrei cercare altro.
«Cosa ti piace di piú in quel che fai», mi ha chiesto. Le ho detto che questa domanda è in cima alle mie note private, perché me l’ha già fatta, ma non ho ancora trovato una risposta. È il trattare processi e sistemi aziendali? Ho una conoscenza ampia e profonda di cui sono orgoglioso, ma non è esportabile altrove. È il risolvere i problemi? Se non fossi bravo a risolverli non mi cercherebbero da ogni ufficio in ogni regione, ma spesso mi sento come Monsieur Malaussène. È il migliorare le attività che gestisco? Dovrebbe essere la mia mansione fondamentale, ma sono sempre troppo impegnato a risolvere problemi. È l’essere a guida di altre persone? Col tempo ho imparato, e tengo molto ai miei dipendenti, ma non è il mio ruolo naturale.
«Penso che la tua forza sia saper combinare tutto questo», ha replicato.
Mi è venuto in mente uno scritto che ho letto di recente:
L’unica volta che ho provato simpatia per Matteo Renzi, da che è salito alla ribalta della politica nazionale, è stata nel settembre del 2019, quando Striscia la notizia mandò in onda un suo deepfake: ovvero una clip in cui il suo viso era stato sovraimposto via software alle immagini che ritraevano un suo imitatore, per far sembrare agli spettatori che fosse proprio lui a fare dichiarazioni sconvenienti. L’afflato di simpatia finí presto, appena capii che Renzi non avrebbe portato via la pelle in tribunale ad Antonio Ricci (Mediaset è sempre bene tenersela amica).
Il deepfake piú famoso ritrae Barack Obama ed è interpretato dall’attore comico, suo imitatore e premio Oscar, Jordan Peele:
Già un anno e mezzo prima del video paraculo di Striscia, il deepfake Obama-Peele per Buzzfeed metteva il pubblico in guardia dal prendere per buono tutto ciò che vediamo, oggi che è possibile manipolare digitalmente qualunque registrazione.
Il primissimo link della mia collezione Internet explorer è a un articolo del New York Times del 2020, a firma della giornalista di tecnologia pop Kashmir Hill, su un’azienda statunitense di riconoscimento facciale che ha rastrellato sui siti web, perlopiú illegalmente, venti miliardi d’immagini di volti umani, e li ha usati per sviluppare software che poi ha venduto a forze dell’ordine e governi (anche autoritari).
Le foto di miliardi di noi sono a disposizione di guardie e dittatori. «Chi non fa niente di male non ha niente da temere» dicono alcuni, anche fra i miei 2,5 lettori. Be’, non ha niente da temere finché guardie e dittatori concordano con ləi nel definire cosa è “male”. O finché il software di riconoscimento facciale non commette un errore nel far corrispondere il suo volto nel database a quello di un criminale: succede, e succede piú spesso ad appartenenti a minoranze etniche.
Anche aziende di chiara fama come Adobe hanno cominciato (surrettiziamente) a usare le immagini elaborate online dagli utenti per allenare i propri software d’intelligenza artificiale. Gli algoritmi di AI sono ormai tanto evoluti da creare artefatti in grado d’ingannare l’occhio umano: vedete per esempio le foto generate da This Person Does Not Exist, o le illustrazioni generate da Stable Diffusion a partire da un testo scritto.
Quindi, riassumendo: le fotografie che ci ritraggono e che pubblichiamo su Internet, spesso associate al nostro nome, possono essere raccolte da soggetti privi di scrupoli; e quelle medesime fotografie possono essere date in pasto a modelli matematici che producono risultati realistici. Le conseguenze sono a livello sociale e personale.
A livello sociale, l’unico valore rimasto alle testimonianze visive – e, in un futuro prossimo, a quelle auditive – è il valore attribuito alla fonte. Possiamo fidarci della validità di un’immagine o di una registrazione tanto quanto possiamo fidarci della reputazione di chi ce la presenta; e la reputazione è un concetto assai fragile.
A livello personale, dobbiamo smettere di pubblicare nostre fotografie (o video) sul web; o quantomeno dobbiamo rendere difficile associarle al nostro nome. Se l’identità pubblica di una persona è data dal suo nome e dal suo aspetto, entrambi sono ormai completamente falsificabili.
È per questo motivo che sulle Virtualia? non pubblico foto che mi ritraggono, e che da sempre chiedo ai familiari e agli amici di non taggarmi su Facebook (anche se non ho mai avuto un profilo). Però cosa dovrei fare ora che voglio ripubblicare su queste pagine una selezione di post dai miei blog semi-privati, dove qualche selfie c’era? Dovrei eliminare quelle foto, spesso il nucleo di un intero post? O forse dovrei travisarmi il volto, tipo cosí?
Madri e camionisti ·
(Pochissimi i camionisti.)
Ivana Dobrakovová è una traduttrice e scrittrice slovacca, mia coetanea, che a ventitré anni si è trasferita dalla sua Bratislava a… Torino (sono curiosissimo di sapere il perché). Me l’ha segnalata Evička che qualche mese fa ha letto la sua ultima raccolta di racconti, Pod slnkom Turína (“Sotto il sole di Torino”, non so se il titolo ha un’accezione esotica o ironica).
Madri e camionisti è il suo unico libro tradotto in italiano: è stato pubblicato nel 2021 dalla casa editrice fiorentina Spider&Fish anche grazie ai fondi comunitari ottenuti con la vittoriadel Premio dell’Unione Europea per la Letteratura 2019. Sono cinque racconti con cinque donne protagoniste: tre slovacche di Bratislava, un’italiana di Chieri, un’italo-slovacca in Borgo Vanchiglia; tutte nate nei primi anni Ottanta.
Il filo conduttore è il disagio esistenziale: Svetlana è stata negletta da un padre alcolizzato; Ivana è reclusa in casa dall’adolescenza; Olivia disprezza tutti coloro che incontra; Lara odia suo marito e suo figlio; Veronika è incapace di pensare alle conseguenze delle proprie azioni. Siamo nella loro testa e ascoltiamo il loro monologo interiore. La loro voce è piana quando cominciano a ricordare eventi e sensazioni, e si fa sempre piú concitata e febbrile quando affiorano il rimosso e i traumi. Tutte e cinque sono “narratrici inaffidabili” perfino per sé: ed è in quei non-detto che si rivelano a poco a poco, alle donne stesse e al lettore, che Dobrakovová compie la migliore opera di scrittrice.
All’epoca in cui sono nata, di Ivane ce n’era a strafottere, si inciampava in un’Ivana a ogni passo […].
Mi chiedo se sia un caso che Dobrakovová abbia dato il proprio nome al personaggio del racconto piú riuscito. Questa Ivana, da quando aveva tredici anni, vive in una stanza che ha riempito di soffocanti piante d’appartamento, ed esce soltanto per far visita alla psichiatra e a un’amica. Ricorda i tempi in cui marinava la scuola per andare con l’amica a faticare in un maneggio di cavalli, dove faceva le prime esperienze sociali e proto-sessuali fra gelosie e rivalità. L’incontro con un uomo famoso e galante la coglie completamente indifesa e destabilizza la sua psiche, in un crescendo di euforia e depressione che si alternano fino allo svelamento del trauma giovanile e alla distruzione della stanza. Narrata, per cosí dire, come se nel buio della sua mente qualcuno scattasse foto con il flash.
(Per chi passasse di qui dopo aver letto il racconto, sul finale ho due opinioni: o il cavallo fu sventrato da quei due teppisti che avevano ucciso il coniglio, ma inconsciamente Ivana se ne assunse la responsabilità per senso di colpa; o forse fu sventrato da Ivana stessa, in un parallelismo con il parto della giumenta il cui ricordo conclude la storia.)
Maternità fallite e madri assenti costellano le pagine del volume: a causa di scelte sbagliate, o di uomini sbagliati, o per semplice disinteresse. Ricorre spesso anche il tema del corpo come veicolo di espressione del disagio o del trauma: vorrei saper cogliere il doppio riferimento a PPP, lo lascio a lettori piú acculturati. Io ho sentito echi del primo Ian McEwan (che l’autrice cita di passaggio in un contributo sul Guardian.)
In Italia Madri e camionisti non se l’è filato nessuno. È un peccato, perché ora per leggere Dobrakovová mi tocca imparare anche lo slovacco.
What I have understood from tons of articles about the Fediverse is that Mastodon has been developed by its only ruler with the explicit goal of making it a “safe space” for marginalised groups that are harassed on mainstream social media. Basic features like searching and quoting have been intentionally sanitised, or outright banned, to prevent bad actors from exploiting them. Now that hundreds of thousands of people have migrated, and expect to find such basic features, there are ongoingdiscussions on whether implementing them would make Mastodon a toxic environment like Twitter.
New Mastodon users are encouraged to join not the biggest instances, but any thematic server which is closest to their persona, job or hobby. So we will find servers for the LGBTQ+ communities, for native and indigenous people, for journalists, for web designers, for beer crafters, for bookworms, etc. Each server is run by an admin, or by a group of admins, who moderate their instance on the basis of a code of conduct; there is also a general covenant that they can refer to.
Of course people are not defined by one single trait, and may have different interests they want to cover within their Fediverse experience. One user may be a trans person who works as a bank clerk, spends their weekends by going birdwatching, and supports a football club. First they may join an LGBTQ+-friendly instance, then start following folks who post pictures of mockingbirds on a second server, and later other football enthusiasts debating gegenpressing on a third server. This user’s federated timeline will fill with tweets toots from all three servers, based on the accounts that they follow and on the content that gets boosted.
One day on the birdwatchers’ instance a user posts a snarky comment about some law that their parliament just passed, igniting a discussion that degenerates in a flame war. Between pictures of lovely sparrows, conservative and progressive birdwatchers start talking politics, among which are trans-related policies. Our user interacts with them, silencing and blocking a few; some nasty ones reach back and call them names. The admin of the LGBTQ+-friendly instance notices the brouhaha, perceives the birdwatchers as one bunch of fascists, and defederates their server to protect our user and the whole community. Our user is now safe from harassment, but has lost access to good birdwatching content. At the same time, the progressive birdwatchers have lost a whole server of allies, and their instance has shifted slightly towards the right.
OK, this is one unlikely example, of course there are no birdwatchers who like football, are there?
There is this (in)famous Italian blogger who holds mildly unconventional ideas on the most disparate topics, and he is sometimes fun to read. I once interacted with him on IRC in the early Noughties, one evening he was pushing :wumpscut: MP3s to uninterested chatters. This guy has been writing about the Fediverse for years, mostly from a technical point of view, and runs his own personal Pleroma server, with a public list of blocked instances. I am surprised to read that the latest entry in his list is the very same instance that I had thought of joining, where there are no nazis nor pedos, just IndieWeb lovers boosting too many boring political toots; if I were there, we would not be able to interact.
Last week on Twitter some British misogynist engaged publicly with Greta Thunberg to stand out as a macho man in the eyes of his followers: the Swedish activist blasted him, sending him into a rage mode that got his location exposed to authorities who were looking for him because allegedly he is a fucking human trafficker. Now he is in prison. All’s well that ends well.
On Mastodon this exchange couldn’t have happened, because the quote-retweet quote-retoot feature is missing, by design. But the same effect could be accomplished by posting a screenshot of the original toot, a practice that is widely used to refer to content across walled-garden sites. The good intention here is to protect users: but the Thunberg case shows that fighting back is an option, that confronting and trolling the fuck out of fascists can work. Then certainly there is silencing and blocking.
Twitter’s and other social media’s toxicity doesn’t lie in the heated discussions: it lies in the engagement tactics of locking users in the sites and of promoting divisive content. You cannot ask social media companies to drop these tactics: their goal is not to host democratic discourse of quality, their goal is to make money.
On the other end, a social network that is designed to soften and neutralise the public discourse may have the unintended effect of suffocating its users in smaller and smaller echo chambers, where one only interacts with almost identical copies of oneself. “Safe spaces”, “safe ghettos”. I am not interested in those.
Il tempo della gratitudine ·
È stato l’ultimo capitano juventino ad alzare la Coppa dalle Grandi Orecchie, ma ho sempre associato Luca Vialli alla Sampdoria (ovviamente) o persino al Chelsea (che senza di lui non sarebbe diventato uno dei club piú vincenti dell’ultimo quarto di secolo).
Keeping it simple ·
I was an avid Twitter reader for years, although I never had an account. I know it is a toxic environment, engineered to keep users locked in, but it represents the world’s biggest public square, and it is a vast source of content, from news to memes, from philosophy to shitposting. Following the clusterfuck caused by Space Karen, I took the opportunity to quit the Twitter habit cold-turkey.
At the same time I toyed with the idea of joining the Fediverse (which is based on the public ActivityPub protocol, and mostly open-source), either on a shared instance like IndieWeb Social, or via a personal Mastodon or Pleroma server. I have read tons of sociological and technical articles about the Fediverse, and especially Mastodon, none of which I have bookmarked. In the end I decided not to join a shared instance, because I don’t have much to say in a public square, and because I am puzzled by the unwritten rules of the community. And the tribulations, between requirements and limitations, to run a personal server? To me, a potential power-user, with some past experience in running a VPS, this specific admin tax seems unbearable.
This is to say that I am going to stick with the stack that I have been running on for three years: domain registration and shared web hosting at a local company, e-mail handling by a major European provider, HTML+CSS for writing and styling content, Atom (the web standard) for syndication, Atom (the defunct software) as my text editor and file uploader of choice.
It is the simplest stack that I can think of, it fits all my real needs, and I spend only about 6€ per month to maintain it.
Moreover, if someone pays for the registration and hosting, even without maintenance, these pages will render in perpetuity.
#newwwyear(s) ·
There is (was?) this IndieWeb initiativeto encourage people to tweet [post] their personal website plan for the upcoming new year.
I have a few ideas, but I guess that implementing them will take me a bit longer than only twelve months. By order of importance:
☑ I want to publish, as part of my Virtualia?, selected posts from Cicely, Scotland (2013) and from Moravian Like You (2016–2019). Both blogs were taken off Blogspot shortly after their closure, and are stored as an XML file in my laptop along with embedded pictures. I would have to pick those posts that are still somehow relevant, and that I can make public without infringing libel laws or running into the ire of my past and present employers (they were an expat’s a migrant worker’s journals, so there were references to my daily job). Also I would feel the need to adapt the style of those posts to the style of these pages (in terms of layout and everything else), like I did with my JuventiKnows articles. My deadline for Cicely, Scotland (a handful of entries) is the end of January; for Moravian Like You (more than two hundred and fifty entries) I would be happy to re-publish one blog year every quarter.
☑ I want to add a touch of vanilla JavaScript to the homepage, to display a random quotation. The current quotation, which would work as a fallback if JS is turned off in the browser, is a fitting line from a poem by Eugenio Montale: piove sui works in regress.
☑ I may also add a title over the indexes of each blog year, along with a symbolic quotation-of-the-year, though that may be too much.
☑ I am not 100% satisfied with having the OPML list of feeds I read nested into the Blog section: yes, it acts as an old-style blogroll, but it is mainly a list of links. I may expand it with non-feed links to resources I like, and move it to the top line of the navigation bar.
☑ Then I would move the links to my own feed and to my stylesheet from the navbar to the footer; and perhaps add a sitemap too?
I will update this post by checking the boxes above as I implement (or not) each idea.
☑ How could I forget about the most useless possible layout improvement: the dark mode?